Interventi
1. Concludendo la sua biografia dedicata ad Enrico Berlinguer (Roma, Carocci, 2006), – un lavoro storiografico sullo scomparso leader del Pci che a mio avviso resta il più convincente, pur in presenza di recenti contributi dovuti , tra gli altri , a Miguel Gotor, Guido Liguori, Claudia Mancina, Fabio Vander, senza contare la pubblicazione di documenti inediti da parte di Walter Veltroni, nonché il romanzo autobiografico di Francesco Piccolo – , Francesco Barbagallo ha avuto modo di annotare come “per la seconda volta, in pochi anni la storia d’Italia cambia per la morte di un uomo: Moro prima, Berlinguer poi. Non possiamo sapere come sarebbe andata la storia d’Italia se fossero rimasti vivi, sappiamo come è andata dopo la loro morte”. Una constatazione amara ed un interrogativo che rimandano ad un ineludibile bilancio da condurre in sede storico- politica, al di là di ogni tentazione nostalgica, oltre ogni rimozione e fuori da quell’attitudine elusiva, da quella propensione all’infingimento, che hanno fatto parlare taluni di “silenzio dei comunisti”, quasi che una parte rilevante della politica italiana non sia mai esistita. Un atteggiamento che fa da pendant con la damnatio memoriae, con la grande impostura che grava sugli anni della seconda repubblica, con un prima, demonizzato sino al ludibrio e un poi acriticamente esaltato. Ebbene Berlinguer merita certamente un giudizio equanime, sine ira ac studio; la sua vicenda politica, il significato di un’intera esperienza vanno ricondotti ad una valutazione in grado di cogliere ciò che è morto, figlio di una stagione distante anni luce dalla nostra attualità, e ciò che è vivo e del suo insegnamento permane per le prospettive di progresso e di sviluppo della società italiana. Come ha giustamente ammonito in una sua missiva a “l’Unità”, Bianca Berlinguer “di mio padre, prima si è alimentato il mito (ciò che, credo, mai egli avrebbe desiderato) e poi ci si sollecita la smitizzazione”, nel contempo denunciando il rischio che “la ricostruzione storica del [suo] ruolo […] e l’eventuale critica, siano piegate a usi contingenti e a interessi politici di breve periodo e di scarso respiro”. Di Enrico Berlinguer resta anzitutto la nobiltà della figura, l’indubbia statura del personaggio con il suo rigore – un’intransigente coerenza dal sapore calvinista –, la rettitudine personale, la serietà politica ed intellettuale, per più versi un’”antiitaliano”, solo a pensare a “quell’eterna Italia”, magistralmente descritta da Stendhal, che continuamente sembra riprodursi nella sua autobiografia, con i suoi vizi secolari, dal trasformismo alla cortigianeria, alla mancanza di ogni vincolo di obbligazione ai valori della coscienza. “Fu un capo di un grande partito – ha scritto Natalia Ginzburg –, ma non amava certo essere un capo. Certo avrebbe voluto passare inosservato per le strade. Fu un capo, sapendo che le circostanze lo richiedevano. Ma era di indole riflessiva e contemplativa. Amava la lettura e lo studio. Aveva il dono di parlare alla gente, nelle piazze, con parole intelligibili a tutti, e in cui potevano rispecchiarsi. Ma penso che non provasse, parlando nelle piazze, nessuna gioia. Ogni personaggio pubblico ama la folla, il clamore degli applausi, il consenso del pubblico, ma lui non li amava, non ne aveva la gioia. La gente amava in lui quell’assenza di gioia negli applausi, quella forza severa, dimessa e triste, quella forza che non aveva i connotati della forza”, aggiungiamo noi, dell’arroganza, dell’abuso del consenso, sino alla sfacciataggine e alla volgarità. Resta, tuttavia, il fatto che lo sforzo intrapreso da Berlinguer di rinnovamento del comunismo italiano, quel rinnovamento da rapportare, secondo la lezione del Machiavelli dei Discorsi, alla crisi delle “repubbliche” (gli Stati) e delle “sette” (i partiti) – “è cosa più chiara della luce che non rinnovandosi questi corpi non durano” -, si infrange di fronte ad un macigno irremovibile, ad un valico insuperabile: l’assoluta irreformabilità del sistema sovietico, “un regime dai tratti illiberali”, questa la fuorviante definizione protrattasi sino alla vigilia del definitivo crollo del “Dio che ha fallito”, secondo l’icastica, antiveggente sanzione di Arthur Koestler. In realtà Berlinguer rappresenta l’ultimo anello, il passaggio conclusivo della tradizione comunista italiana, di quell’impasto di ideologia, politica, organizzazione, definito a partire da Gramsci e poi, tra scarti e adattamenti, da Togliatti, che in lui trova il compimento forse più alto ed, insieme, la propria finale consumazione. Quel che seguirà – il “partito della sinistra europea” di Alessandro Natta e il partito del “nuovo inizio” di Achille Occhetto – altro non costituisce che la rappresentazione plastica della necessità, non più rinviabile, di un distacco radicale, di una “scissione” tanto dei fondamenti ideologici quanto dei percorsi politici. Letto in questa luce, tutto l’armamentario costruito con inflessibile tenacia e passione autentica da Enrico Berlinguer appalesa una sua tragica grandezza, ma, al contempo, circoscrive lo spazio della sua iniziativa entro le aporie, i ritardi, le convulsioni dell’intera storia del suo partito: dalla “diversità” come rivendicazione orgogliosa di un’alterità eretta a garanzia di non integrazione, a tutela di un deposito politico-culturale che non misconosce il proprio fondamento e la propria missione – vale a dire, nel quadro della “democrazia progressiva”, introdurre “elementi di socialismo”-; dall’”austerità”, “occasione per rinnovare l’Italia”, come estraneità ad un costume secolarizzato e post ideologico che trova nel consumo non solo una pratica diffusa, ma un’icona valoriale; dall’ ”eurocomunismo” alla “terza via” come riattualizzazione del disegno di salvaguardare l’autonomia del Pci nel nuovo contesto europeo ed internazionale; dal “compromesso storico” al “dialogo con i cattolici” come fattori di legittimazione democratica in rapporto ad un mondo ancora soggetto alla regola ferrea della spartizione delle sfere di influenza e come strategia connessa alla specificità anomala del “caso italiano ; dalla teorizzazione dell’ impossibilità per le Sinistre di governare il Paese pure col sostegno del 51% come esito della convinzione della permanenza di radici profonde della conservazione , nonché di spinte reazionarie che un gruppo dirigente della Dc più avanzato rispetto alle basi elettorali di consenso fatica a contenere nel ventre molle del partito e della società italiana, sino all’“alternativa democratica”, all’estremo tentativo di fare del Pci il luogo di coagulo dell’intera Sinistra italiana. , di erigere un baluardo , una roccaforte in cui condurre una” guerra di posizione ” dopo la ritirata dalla “guerra di movimento” condotta con la proposta di “compromesso storico ” . In realtà queste categorie politiche, oltre a rimandare ad un tempo archeologico, estraneo al “mondo nuovo” che segna l’incipit della nostra contemporaneità, denunciano – quasi una mascheratura politica – l’arretratezza della cultura di un intero partito, sempre in attesa della crisi “finale” del capitalismo, incapacitato alla propria Bad-Godesberg – non dico all’Epinay mitterandiana –, un partito che scambia il compimento della socialdemocrazia come prova della debolezza del rapporto tra mercato e democrazia, che è riluttante a misurarsi con la modernizzazione economico-produttiva del Paese, che vittimizza se stesso, introiettando la conventio ad excludendum, sino al punto da guardare con sospetto e ostilità alla sfida craxiana della “grande riforma”. Ma c’è anche un Berlinguer più gobettiano che gramsciano, un leader “civile”, che può essere riletto in chiave attuale, “volontarista” “idealista”. Da qui la valorizzazione della laicità – il Pci “partito laico e democratico, né teista, né ateista, né antiteista” della lettera a mons. Bettazzi dell’ottobre 1977 – , come riconoscimento del contributo, fecondo per la dial
ettica democratica, del pluralismo delle idee, delle fedi, dei convincimenti, una valorizzazione che opera come reagente ad un nucleo ideologico ossificato, ad una ortodossia ingessata. Da qui ancora: la promozione delle soggettività individuali – particolarmente di quelle della donna e dei giovani – come espressione di una sensibilità attenta alle dimensioni del vissuto, alle dinamiche esperienziali, al mutamento dei costumi, alla percezione dei diritti. E così pure l’aspirazione ad una società egualitaria non viene declinata da Berlinguer nei termini di un rigido classismo, ma agita per porre rimedio alle occasioni perdute di un riformismo senza riforme, giocata su un terreno ormai estraneo alla vulgata vetero-comunista e rapportata alla prassi socialdemocratica di un partito che spesso guida, in sede amministrativa, istituzioni locali ed enti pubblici. Infine: il Berlinguer dal respiro universalista, dall’afflato planetario della “carta per la pace e lo sviluppo” , che, in un mondo non ancora globalizzato e bipolare, intravede le chances di un multilateralismo atto a promuovere progresso sociale, diritti, valore del lavoro, cittadinanza democratica, a suscitare un ruolo attivo e propulsivo dell’Europa come protagonista di un processo di stabilizzazione, fattore di equilibrio di fronte alla crisi dello Stato-nazione, di superamento della contrapposizione Est/Ovest, nonché dei meccanismi dello scambio ineguale fra Nord e Sud del mondo. Questo il Berlinguer, “profeta disarmato”, tuttora attuale.
2. Trionfa, ormai, la “democrazia del pubblico”, uno specchio opaco in cui si riflette il modello moderno (modus odiernus) della politica. Mutano le forme del governo rappresentativo i cui principi classici vengono travolti lungo una china al fondo della quale il sistema dei partiti, la “democrazia dei partiti”, sembra sul punto di implodere travolta da uno tsunami di discredito e ostilità, da un’avversione che investe la politica nel suo complesso. Una sorta di “crisi generale” della politica ormai alle prese con una caduta verticale di credibilità e di consenso, orientata com’è, se non eterodiretta, dal dominio della tecnica, dalla supremazia dell’economia finanziaria. All’orizzonte populismo e tecnocrazia si profilano quali possibili, incombenti esiti di un crollo, un vero e proprio disfacimento. La “Seconda Repubblica” si conclude con una capitolazione forse ancor più ignominiosa della Prima. Senza neppure percepire la propria vergogna (vereor gogna) in quanto offuscato, se non smarrito, risulta lo stesso sentimento del pudore e affievolito persino l’impegno di una sanzione morale nel quadro di un diffuso adattamento al costume di casa da tempo invalso. Si invoca e da tutti si plaude al nuovo – identificato con giovane il cui contrario tuttavia è vecchio – e non si persegue il “diverso”, la possibilità stessa di una rigenerazione morale e civile, foriera di un costume rinnovato ed abilitata a promuovere un sistema condiviso di regole e comportamenti. Assistiamo in diretta , come titola un libro recente, all’ “eutanasia di un potere”, lungo una sequenza che per più versi rievoca, reduplicandola, la fine della “Prima Repubblica”: una “Tangentopoli” che non è mai finita – oggi si ruba non solo per il partito, ma anche al partito, cioè si entra in politica per rubare -, affaristi che si fanno nominare in Parlamento, parlamentari che finiscono in carcere, il default del Paese all’orizzonte, il Quirinale garante della gestione di una fase transitoria, la Casta ridotta a capro espiatorio, a ente inutile, a costo da eliminare. Dunque il compimento del giudizio, quasi una profezia, pronunciato da Pietro Scoppola nel lontano 1991: la “Seconda Repubblica” come “travestimento del vecchio ordine, più che premessa di una nuova realtà”. Ed insieme la conferma dell’ammonimento dovuto ad un buon maestro del pensiero quale Norberto Bobbio: “dov’è il nemico? Il nemico è dentro di noi. Disfacimento indica una lenta, inesorabile decadenza delle nostre istituzioni, per insipienza, superficialità, disonestà degli uomini che se ne servono”. Qui è riconoscibile la traiettoria tanto dei partiti “pubblicitari” – il partito blob , del “presidente” , modellato sul club dei tifosi, con la bandiera, l’inno della squadra, i gadget – quanto dei partiti personali e personalizzati a centralismo carismatico che definiscono un campo in cui partecipazione, argomentazione pubblica, mobilitazione sociale cedono il passo al marketing politico ed alla mediatizzazione al punto tale che l’offerta politica non può essere influenzata dal militante, dall’iscritto, dal simpatizzante o dall’elettore, né sottoposta ad interazione alcuna. È la materializzazione della “democrazia immediata”, una democrazia “dis-ancorata, senza orizzonti futuri e lontani”, istantanea perché rivolta al soddisfacimento di preferenze individuali; oggi, nel tempo di internet, delle nuove tecnologie della comunicazione atte a promuovere un processo di “dis-intermediazione” che salta ogni mediazione politico-organizzativa, una democrazia irriflessiva il cui criterio appare il gusto del singolo, l’ipertrofia dell’io, la pulsione incontenibile del “mi piace”, propria di un pensiero da twitter, dunque sincopato. Ma c’è pure un’ulteriore mutazione della forma partito che sembra investire l’intero sistema. Come scrivono Katz e Mair, in un saggio ormai classico del 1995 , i partiti sembrano diventati “ partnership di professionisti più che associazioni di e per i cittadini” ed – echeggiando Weber – la politica si riduce ad “occupazione” piuttosto che “interpretare una vocazione”. Si impone pertanto un problema di enorme portata democratica: come rendere autentica una democrazia (non giacobina) dei cittadini e delle Istituzioni, che rimetta a loro posto i partiti e restituisca alla politica la sua dignità, le sue ambizioni? I cittadini, le Istituzioni, i partiti: è indispensabile, dunque, rileggere l’ultimo Berlinguer. Rileggerlo in un mondo radicalmente mutato, dove campeggiano globalizzazione e mercati finanziari, secolarizzazione post-ideologica ed innumerabili icone del consumo, il web e la comunicazione mediatica, insomma non solo un mondo nuovo, ma un altro mondo caratterizzato dalla fine di tutti gli “ismi” come pure da un’indubitabile spread morale. Accanto ad un Berlinguer inevitabilmente datato, espressione di una politica che ha da tempo scontato tutti i suoi appuntamenti, resta assolutamente attuale un Berlinguer “metastorico”. È il Berlinguer dell’intervista ad Eugenio Scalfari del 28 luglio 1981, del saggio su “Rinascita” del 4 dicembre dello stesso anno, saggio dedicato al “rinnovamento della politica”. Ancora: del testo, pubblicato postumo nel giugno dell’’84, preparato come parte conclusiva della prefazione ai Discorsi parlamentari di Palmiro Togliatti, e del quale aveva deciso l’anticipazione sul settimanale del Pci, uno scritto titolato emblematicamente “Parlamento, governo, partiti”. Insomma il Berlinguer della “questione morale”; per ricorrere a quello che può apparire come un ossimoro, il Berlinguer “comunista democratico” di cui un “anti-italiano” come Ugo La Malfa riconosce per tempo l’apprezzamento di un sistema di regole, la valorizzazione del “governo delle leggi” sempre da preferire al “governo degli uomini” ancorché illuminati, secondo la lezione insuperata di Norberto Bobbio. Dove sta, dunque, un decisivo elemento d’attualità di Berlinguer? Esattamente là dove individua la trasformazione dei partiti collocandola nel cuore della questione morale, denunciando per tempo le ragioni basilari di un prevedibile crollo del sistema politico dell’Italia repubblicana. “I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela – questa la raffigurazione del segretario comunista -: scarsa o mistificata conoscenza dei problemi della società, della gente: idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile zero. Gestiscono interessi più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli senza perseguire il bene comune”. Da qui il passaggio successivo sulle forme e modalità organizzative : “la loro stessa struttura […] si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa, sono piuttosto federazione di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sottoboss”. Passaggi che costituiscono la premessa attraverso la quale Berlinguer giunge a rivendicare la “diversità comunista” – in realtà una deontologia, un dovere essere, un’aspirazione etica, non un dato antropologico – quanto al rapporto partito-Stato. L’obiettivo, che dà per scontato il riferimento all’onestà, alla pulizia, alla trasparenza, alla correttezza di condotta del personale politico, punta alla denuncia dei fenomeni di degenerazione, dei fattori di sconvolgimento delle relazioni che devono intercorrere e stabilirsi tra compiti dello Stato e delle Istituzioni da un lato e funzioni dei partiti dall’altro, tutti i partiti, comunque essi siano collocati, al governo o all’opposizione. “Noi vogliamo – così Berlinguer dialogando con Eugenio Scalfari – che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della Nazione: e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi d
ello Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle Istituzioni”. E più avanti, precisando ulteriormente la propria riflessione politica: “la questione morale non si esaurisce nel fatto che essendo dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli […], la questione morale nell’Italia di oggi […] fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato […], fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione e metodi di governo […] che vanno semplicemente abbandonati e superati”. Da queste premesse discendono, lungo una linea di inflessibile coerenza che denuncia il processo di progressiva appropriazione patrimoniale dello Stato, nonché la tendenza alla privatizzazione appropriativa dei partiti, due indicazioni operative. Da una parte lotta alla corruzione – nel saggio sul rinnovamento della politica – “che sta diffondendosi in ogni campo della vita nazionale e cioè la lotta contro ogni atto e tendenza rivolti a continuare ad adoperare per interessi privati e per fini di partito organi, strumenti, uffici, corpi e mezzi finanziari che sono pubblici, che cioè appartengono a tutti”, dall’altra l’impegno dello Stato a prendere atto dei mutamenti della società, delle sue conquiste, fino ad “assumerle progressivamente – così nello scritto edito successivamente alla morte – nell’ordinamento giuridico, a sancirle in norme legislative certe e stabili, ossia, in una parola, istituzionalizzarle, rendendole così generali, di tutti i cittadini, loro bene comune […]. In tal senso e solo così lo Stato moderno è davvero Stato di diritto, Stato di tutti, Stato democratico”. Resta naturalmente impregiudicato, quanto alla dialettica democratica, il ruolo insostituibile del Parlamento, quel Parlamento oggi marginalizzato, ridotto ad organo di acclamazione per la maggioranza e di testimonianza per le minoranze, nonché dei partiti. Insistito è il richiamo ad una funzione – Berlinguer , critico dei partiti , si spinge a sottolinearne addirittura il “primato” – che “può divenire reale, può legittimarsi e può, quindi, ricevere consensi”, solo se essi, i partiti, “stabiliscono un rapporto diretto e continuo con la società […], con i cittadini, ne colgono e ne rappresentano i veri bisogni, aspirazioni reali, ne organizzano la mobilitazione e partecipazione democratica per individuare e conseguire obiettivi che avviano a soluzione i problemi del Paese”. A questo punto il cerchio della disamina si chiude. A Berlinguer non resta che proporre il proprio partito come modello di una diversità incontaminata, un soggetto quasi dotato di virtù salvifiche anche nel rapporto con gli altri protagonisti della vita politica italiana. Una linea, una prospettiva criticata, tanto da Alessandro Natta in alcune note personali e appunti riservati, quanto da Giorgio Napolitano allorché, scrivendo a proposito dell’anniversario di Togliatti, ne sottolinea la concretezza e duttilità politica, distinguendo criticamente tra “orgogliosa affermazione della nostra “diversità”” e impegno “a far leva sulle “peculiarità del nostro partito per contribuire ad un corretto rilancio della funzione dei partiti in generale come elemento insostituibile di continuità e di sviluppo della vita democratica”. Come siano andate poi le cose è a tutti noto. Il conservatorismo istituzionale del Pci, e molto altro ancora, non è risultato estraneo alla crisi del Paese ed alla consumazione della prima fase della storia repubblicana. In questo la cronaca del suo tempo ha dato indubbiamente torto a Berlinguer. Ma la vicenda successiva ha finito per confermare e attribuire indubbie ragioni alla lucidità dei suoi giudizi, alla esemplarità della sua testimonianza morale, alla sua battaglia politica. Come ha osservato, anni orsono, un acuto interprete della vicenda berlingueriana, l’esperienza del segretario del Pci fu, dunque, “quella di un riformatore vero sullo sfondo di un’epoca degradata da facili […] riformismi”. Un’esperienza impregnata di una carica “protestante” che connota “un sogno di riforma – per citare ancora Gobetti che parla di se stesso -, coltivato lontano dalle piccole botteghe riformiste”: riforma del comunismo europeo, riforma dello Stato e della società italiana, riforma della politica attraverso gli imperativi della coscienza, riforma della strategia di alternativa della Sinistra. In sostanza un progetto politico inedito per l’Occidente europeo, un progetto la cui mancata realizzazione segna di fatto, con la morte di Berlinguer, il compimento definitivo della lunga parabola del comunismo italiano, senza per questo smentire l’attualità di una presenza.
Scarica l’intervento in pdf: Paolo_Corsini_-_Attualita_di_Berlinguer.pdf.

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