Interventi

Chi comanda nella crisi è una bella domanda perché aiuta a indagare cosa sta succedendo e facilita un po’ la ricerca di qualche strada alternativa. Per quanto mi riguarda una parte importante del comandare nella crisi è quello che si esercita intorno all’Europa, nella sua costruzione materiale attuale. Rispetto a chi dice che l’Europa non esiste come soggetto politico, io penso invece che c’è in campo una certa Europa politica e che questa sta operando con determinazione. Non mi limiterei poi a considerarla semplicemente l’Europa dei governi di destra, di Merkel e Sarkozy, ma proverei a guardare più complessivamente a ciò che si è realizzato con un processo lungo che ha coinvolto, e non poco, anche le forze della sinistra europea, sia in termini di partiti che di governi. Per non ampliare troppo lo sguardo, cosa che pure sarebbe necessaria, mi limito al processo di costruzione della Unione Europea che ha prodotto forme istituzionali e costituzionali del tutto inedite nella storia della democrazia europea. Una struttura costituzionale che è fondata sostanzialmente sui trattati economici che ne rappresentano l’architrave. Una struttura istituzionale dove è assolutamente sovrastante l’elemento intergovernativo e tecnocratico che sempre più sovraintende e sovrasta le forme elettive parlamentari che o non accedono a potestà legislativa, come è il caso del Parlamento Europeo, o se ne vedono sottratte, come per i Parlamenti Nazionali. Da sempre si sostiene, dalle forze progressiste, che questa costruzione dovrebbe vivere un secondo tempo, quello della democratizzazione. Osservo che ciò non sta avvenendo. Nella crisi infatti si stanno rafforzando tutti gli elementi costituzionali ed istituzionali suddetti, con un salto di qualità e una accelerazione tali da far pensare ad un vero cambio di segno della forma democratica europea. Di fronte alla crisi, chi comanda in Europa, ha deciso di valersi in modo estensivo della facoltà data dal Trattato di Lisbona di rafforzare gli elementi di governance. C’è stato un crescendo di atti che hanno definito un vero e proprio processo costituente sul campo. Prima la creazione di euro plus e cioè di una task force formata da Consiglio (cioè i governi), Commissione, BCE e FMI. Questa ha prodotto prime forme di intervento condizionate ed ha poi progettato l’intera impalcatura che si ritrova nelle direttive del cosiddetto six pack. Questo six pack stabilizza la struttura di governance, che si esercita attraverso il cosiddetto semestre europeo che sovraintende alle leggi di bilancio statali che si trasformano in legge votate agli obiettivi di parità di bilancio e rientro dal debito secondo indicazioni quantitative e qualitative, inerenti anche alle forme economiche, al welfare e al mercato del lavoro, che si rendono cogenti e sanzionabili. Non bastando questo, ed anche per le esigenze poste dalla Corte Costituzionale tedesca custode della sovranità nazionale, si fa il salto alla costituzionalizzazione anche formale di questa nuova strutturazione. E questa costituzionalizzazione prende due forme concrete. La prima è la sottoscrizione di un nuovo Trattato, in realtà un Patto Fiscale Intergovernativo, che contiene gli obiettivi del six pack a partire dalla parità di bilancio e del raggiungimento rapido dell’abbattimento del debito al 60%. La seconda è l’indicazione perentoria agli stati membri dell’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio nelle loro Costituzioni nazionali. Qui la retroazione di un imput europeo sui livelli più solenni delle sovranità nazionali, le Costituzioni, è fortissimo. Per altro colpiscono due cose di enorme rilevanza storica e simbolica. La prima è che è dai tempi delle rivoluzioni borghesi che valeva il motto “ No taxation without rappresentation – nessuna tassa senza diritto alla rappresentanza “ e invece qui il patto fiscale non prevede il potere della rappresentanza. Addirittura le scelte economiche operate dai governi, si dice, vengono comunicate ai Parlamenti. Sembra ciò che sta accadendo nelle fabbriche dove l’impresa comunica ai sindacati le sue decisioni, e qualche sindacato non è neanche più ammesso in fabbrica, come qualche sinistra è estromessa dai parlamenti. La seconda, la dico con una battuta, è che neanche Breznev aveva costituzionalizzato il piano quinquennale e qui si costituzionalizza una teoria economica, quella monetaristica. Al centro di tutta questa costruzione ci sono due fatti che si sono voluti correlare indissolubilmente con una operazione di egemonia che andrebbe indagata criticamente. La crisi dell’Euro, condita di “ assalti “ e altre narrazioni, e la centralità del debito come punto chiave di questa crisi, quello da affrontare per poter operare la “ salvezza “. Qui l’influenza tedesca è stata naturalmente fortissima, e basti pensare che in tedesco le parole debito e colpa hanno la stessa etimologia. Per salvare l’euro bisogna mondare la colpa del debito. Ma è proprio così? Le contestazioni possibili a questo assioma sono molteplici. Ci sono Paesi, come il Giappone, che vivono con debiti altissimi e che non sono sotto assedio. Altri Paesi, come gli USA, hanno affrontato la crisi del debito delle banche in modi flessibili e convivono tuttora con debiti statali alti. E poi, rientrare dal debito con politiche di “ austerità “ può risultare devastante, socialmente, ma anche economicamente, con spirali recessive incontrollabili. Per altro,a proposito di salvezza dell’Euro, bisogna dire che il patto fiscale vale anche per i Paesi dell’Unione che non lo usano. Ma la riflessione che voglio mettere al centro è un’altra e riguarda proprio la natura del debito. Andrebbe naturalmente indagata nelle varie realtà, nei vari Paesi e nelle varie fasi. Il debito greco è totalmente diverso da quello italiano che è per più della metà debito interno e non estero; solo per il 18% a credito delle famiglie e per il resto è del sistema finanziario e delle imprese che investono in esso invece che in attività produttive; è un debito abbastanza a lungo termine, una media di oltre 7 anni; si accompagna, ancora a un buon risparmio privato; e c’è un sistema bancario italiano che alla luce dello stress test europeo risulta esposto per la metà di quello tedesco e francese. Ma voglio soffermarmi sul debito cumulatosi durante la crisi. Il Presidente della Commissione Europea, Barroso, ne ha dato conto. In tre anni sono stato trasferiti dal sistema finanziario pubblico, Stati e UE, al sistema finanziario privato 4600 miliardi di euro più altri 500 ora e altri 1000 in arrivo con lo sdoganamento del trattato. Una cifra enorme dovuta a che? A sostenere le esposizioni verso la speculazione finanziaria, e qui ci sarebbe molto da dire su come gli USA hanno esportato la loro crisi. A sostenere la crisi sociale che si era aperta e penso ad esempio all’accordo fatto dal Governo Berlusconi con Bruxelles per impiegare i soldi del Fondo Sociale Europeo per la cassa integrazione con l’obbligo però per le Regioni di reimmetterli per l’uso porprio: più di 7 miliardi di euro il solo primo anno. A sostenere il disavanzo di Paesi, come la Grecia ma come molti altri, che risultano prevalentemente indebitati con le banche tedesche perché hanno massicciamente importato dalla Germania. E qui c’ il punto cruciale. Se venti anni di politica di armonizzazione addirittura amplificano gli squilibri commerciali interni all’Unione siamo al fallimento della sua ragion d’essere. Ma questo esito non è casuale. La politica tedesca, un po’ tutta, ha prodotto un’enorme dumping dall’alto tenendo competitive le proprie esportazioni, che avvengono per più della metà nella UE, attraverso una mancata ridistribuzione sociale degli incrementi produttivi e quindi con un vantaggio esportazionale nonostante i salari in media più alti delle aree di esportazione. Non solo: l’assenza di politiche di armonizzazione economica ha lasciato spazio a forme di aperta cannibalizzazione per altro sostenute da manovre geopolitiche; per giunta vi è una politica creditizia assurda per es
sere interna ad una Unione in quanto rende l’accesso al denaro assai più conveniente per i creditori che per i debitori con un effetto di strangolamento. Dunque il grosso del debito oggi è il costo del fallimento dell’armonizzazione di cui è assai responsabile chi ha imposto certe politiche e oggi chiede addirittura a noi di pagare il conto. Nasce una domanda: ma perché le borghesie europee, quella italiana ad esempio, decidono di pagare un dazio così pesante a quella tedesca? Azzarderei una risposta che può apparire semplice ma forse non lo è. Perché così facendo si ottengono tanti e tali “ cambiamenti “ nei modelli di welfare, nei mercati del lavoro e nelle privatizzazioni, che rompono radicalmente il compromesso sociale costruito in decenni, da rendere appetibile a lor signori questo gioco. Naturalmente poi sperano, ad esempio la borghesia italiana, di avere una ripresa grazie alla apertura del mercato cinese, dove per altro la Germania è l’unica oggi ad avere la bilancia import-export attiva. La previsione mi pare francamente assai discutibile, ma quello che conta oggi è che il modello sociale, e democratico, europeo viene smantellato. Per questo mi colpisce il voto “ unitario “ sulle mozioni parlamentari sull’Europa. Quella del Senato, tra l’altro, arrivata direttamente all’aula con una stesura congiunta dei gruppi che sostengono il governo Monti. Le mozioni infatti danno il via libera a tutta l’architettura che ho riassunto e in particolare al six pack con le sue strutture i suoi impegni, al patto fiscale con i suoi obiettivi di rientro, per l’Italia dal 119% al 60%, e alla modifica della Costituzione italiana con l’inserimento dell’obbligo al pareggio di bilancio. Tanta roba! Certo ci sono poi anche altre indicazioni, anche correttive ma rimangono tra gli auspici mentre le altre sono certe. E la storia che abbiamo vissuto fin qui ci dice che la politica dei due tempi in Europa non sta funzionando. La mozione ci rimanda anche ad una qualche riflessione sul governo Monti che io fatico a vedere come una pura parentesi. Questa grande ristrutturazione europea ha avuto già un impatto sulla politica e, a mio avviso, spinge verso “ grandi coalizioni “ che sostengano politiche considerate obbligate. Vedremo comunque che sarà in Italia, ma intanto sarebbe bene che le sinistre in Europa recuperassero un punto di vista critico.

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