Materiali

Crisi

Crisi, la Parola chiave del numero 3-4/2012 di Democrazia e Diritto “Critica della Crisi” secondo Mario Tronti
Pubblicato il 1 Giugno 2013
Materiali, Officine Tronti, Scritti

Nel 1980, per il numero di aprile-maggio, La Rivista, un periodico molto interessante diretto da Walter Pedullà, manda in stampa un numero monografico con il titolo “La crisi del concetto di crisi”. Marco d’Eramo invia un breve testo che istruisce il tema. Le risposte sono di personaggi più che significativi: tra gli altri, Jacques Attali, Julien Freund, Emmanuel Le Roy Ladurie, Edgar Morin, René Thom. Molto gustoso un passaggio della proposta di d’Eramo: “Mentre si apre il penultimo decennio di questo millennio, la ‘Crisi’ è uno strumento che basta a evocare l’Emergenza, l’Unità- Nazionale, l’Austerità, lo Sforzo-Collettivo. È il miraggio di una Nuova- Era, di una Società-Più-Umana. È il preludio della Catastrofe, la consorte del Riflusso. Una volta la lingua era più ricca. Spengler parlava di Declino o Tramonto (dell’Occidente), Horkheimer di Eclissi (della Ragione)”. Si parla di noi, della nostra attuale crisi, come ne parlano gli interpreti, che sono poi, come si sa, i responsabili stessi della crisi. La prima preoccupazione dovrebbe essere quella di non parlarne in questi termini. Che la crisi sia di natura economico-finanziaria, non c’è dubbio. Che se ne possa dire nella sola lingua dell’economia e della finanza, questo è molto dubbio.

Riportiamo allora il concetto di crisi alla sua storia di lunga durata. Utilizziamo alcuni spunti del fascicolo sopra citato. Tucidide riprende la crisi sia da Ippocrate, nel senso medico, come improvviso cambiamento in un corpo, sia da Sofocle, nel senso teatrale, come rappresentazione del trauma. Sono le due facce della storia eterna, che stiamo sperimentando, anche oggi, magari più come cronaca contingente: la faccia della scienza e quella della retorica. La crisi, sì, è anche un elemento teatrale, “ma solo come sipario che nasconde i trambusti sul palcoscenico quando si cambia il quadro”. Nel 1976, la rivista francese Communications, fondata da Barthes, presentava la crisi, con contributi di Friedmann e Morin, come Mito. Un evento che descrive e insieme spiega, con duplicità, con ambiguità.
Attraversando il discorso di Thomas Kuhn sulla crisi dei paradigmi, la crisi si presenta quando vengono a coesistere vecchi e nuovi paradigmi, che lottano fra loro. La crisi allora è ponte e cesura, collegamento e discontinuità. Foucault parla di discontinuità e non di crisi. Dice René Thom che, se la discontinuità è una catastrofe, la crisi è la sua condizione di esistenza. È quel momento di incertezza, da cui si può andare o verso il crollo o verso il rilancio. Nel mondo biologico, secondo lo schema di Lamarck, segna il passaggio da una specie a un’altra. In questo senso, è anche un momento di imprevedibilità. Perché è lo stato di un soggetto, non di un oggetto: da un lato, elemento di uno schema teorico, dall’altro rappresentazione di un vuoto di teoria, che marca un’incapacità di prevedere. Tutti segni, come si vede, e fatti, e intenti, che abbiamo davanti agli occhi.
Il concetto di crisi, dunque, è antico e si evolve e si trasforma nel tempo e occupa spazi. Lo ritroviamo nella sociologia, nell’economia, nella storia, nella politica, nell’epistemologia. Nella lingua religiosa della Grecia classica, il termine krìsis accennava all’interpretazione, del volo degli uccelli per esempio, come molto più vicino a noi accennerà all’interpretazione dei sogni. Significava anche scelta, per esempio delle vittime sacrificali. Ma, guardate, la crisi secolarizzata di oggi, non fa la stessa cosa? Nel vocabolario giuridico esprimeva l’idea di un giudizio, di una decisione. Come sta tuttora accadendo. Riferito alla tragedia greca, risultava un evento che staccava, interrompeva, in coerenza o in contrasto con il Fato. È solo dal Seicento, e soprattutto nel Settecento, che il concetto di crisi viene trasportato nella società. E nell’Ottocento, in economia politica, debitore del paradigma evoluzionista e commisurato a un aspetto ciclico. Poi dalla fine dell’Ottocento investe i grandi mutamenti culturali, crisi dei valori, crisi di civiltà, crisi spirituale. Il Novecento, dai suoi splendidi inizi assassinati dalla sua miserabile fine, si annuncerà come il secolo della Krisis. È la Kultur che entra in campo contro la Zivilisation e per un lungo momento la sconfigge. Crisi e critica si danno la mano e c’è un salto nella storia umana. Rivoluzione e Grande Crisi si susseguono, non più come le due facce, della scienza o della tecnica e del teatro o della rappresentazione, ma come politica del soggetto e realtà di sistema, sovvertimento e great crash. Età mitica per il nostro presente. È in atto invece adesso una riduzione del concetto di crisi, riferita ormai al solo ambito economico-finanziario. E tuttavia, siccome questa figura della crisi non è virtuale ma ben reale, va indubbiamente attraversata anche in questo senso. Eppure questo senso stesso va a sua vota ampliato. Marx, per esempio, non ha ritenuto possibile elaborare una teoria della crisi in quanto tale, perché essa è e va vista come parte integrante di una teoria generale del capitalismo: manifestazione che descrive e insieme spiega le contraddizioni dell’economia capitalistica. Anzi, la spiegazione della crisi arriva a conclusione dell’intera analisi delle leggi di movimento del sistema capitalistico, del suo Gesamtprozess. È nel Libro Terzo di Das Kapital che soprattutto si descrive la forma classica della crisi capitalistica come crisi di sovrapproduzione: “capitale inutilizzato da una parte e popolazione operaia inutilizzata dall’altra”. Seguito in questo da Tugan-Baranovski, Rosa Luxemburg, Kalecki e altri (vedi Tadeusz Kowalik, nella voce “Crisi” dell’Enciclopedia Einaudi). Semmai Marx ci dà una teoria generale dello sviluppo, scandito dalla particolarità delle specifiche crisi. Lo aveva ben compreso Schumpeter, per cui la teoria delle crisi è la teoria delle fluttuazioni cicliche. Da Teorie der wirtschaftlichen Entwicklung (1911, rimaneggiato nell’edizione inglese del 1926) a Business Cycles (1939), c’è il ritorno a Marx, dopo la lunga egemonia delle teorie marginaliste. Tornano a intrecciarsi sviluppo e crisi, la crisi viene recuperata all’interno del sistema economico, il ciclo scandisce le fasi dell’economia capitalistica.
È arrivata sui giornali, nel nostro attuale passaggio di crisi, la formula schumpeteriana della “distruzione creatrice”: “il quadro in cui la vita di ogni complesso capitalistico è destinata a svolgersi”. In effetti, se apriamo il capitolo VII di Capitalismo socialismo e democrazia (1942), troviamo osservazioni illuminanti sul processo di trasformazione organica che, quando investe insieme produzione e mercati, “rivoluziona incessantemente dall’interno le strutture economiche distruggendo senza tregua l’antica e creando senza tregua la nuova”. Si studia comunemente il problema di come il capitalismo amministri le strutture esistenti, mentre il problema essenziale è come le crei e come le distrugga. E commenta Schumpeter in nota: “Queste rivoluzioni non sono, in senso stretto, incessanti; scoppiano a sbalzi discontinui, separati da periodi di quiete relativa. Ma il processo visto nell’insieme si compie incessantemente, nel senso che vi è sempre o una rivoluzione o l’assorbimento dei risultati di una rivoluzione, costituenti insieme quello che si chiama il ciclo economico”. Dunque, ne potremmo concludere: in una società capitalistica, non è permanente la rivoluzione distruttrice delle strutture esistenti, come non è permanente la restaurazione creatrice delle strutture innovative. È permanente il processo che ciclicamente alterna sviluppo e crisi, crisi e sviluppo. Come dirà eloquentemente in un altro luogo: i cicli non sono le tonsille, che si possono trattare separatamente dal resto del corpo, sono piuttosto il battito del cuore, che regola la vita dell’intero organismo.
Un terreno storico formidabile, quello di un capitalismo così scientificamente compreso, per una potenza politica di lotta. Il movimento operaio, con il pensiero di Marx, con il primo socialismo non utopistico, e poi con la rivoluzione dentro la guerra, e con i comunisti, aveva individuato questo terreno, lo aveva occupato ed era salito a proporsi come grande soggetto della storia contemporanea. Sulla crisi come collegamento e come discontinuità, come ponte e cesura, aveva impiantato tattica e strategia. Perché krìsis è kairòs.È l’occasione, l’opportunità, il tempo adatto. Se descrive e spiega, dice dunque ciò che è, e allora svela. Le contraddizioni, è vero solo transitoriamente, esplodono: ma prima che si ricompongano c’è lo spazio del conflitto. Da quando c’è il capitalismo moderno, la modernità è diventata l’età della crisi. Lo spirito d’Occidente ne è intriso. Il cuore dell’Europa, che è il cervello dell’Occidente, questo spirito lo ha pensato, lo ha narrato, lo ha espresso, in forme alte. La società armoniosa è un’utopia confuciana a uso di un potere assoluto. La coesione sociale una caritas cristiana a uso di un potere democratico. Lo so, c’è la controindicazione della crisi capitalistica che pesa, e come pesa!, sulle parti più deboli della società, e non le unifica, anzi le divide con il ricatto e la paura. Ma non è che lo sviluppo capitalistico avvia un processo di liberazione dal dominio, anzi integra indorando le catene. Quello che fa la differenza allora è sempre la presenza o meno in campo di un soggetto politico in grado di vedere, far vedere e organizzare, sia quando c’è l’equilibrio, sia quando c’è la frattura di sistema. Una sinistra che in questo non sa andare a scuola del movimento operaio, innovandone l’azione nelle forme opportune, non serve a niente e a nessuno.
Crisi è una categoria del politico. Se la crisi non va vista da sola, ma considerata dentro il ciclo economico, e se il ciclo economico è una delle leggi di movimento della società capitalistica, allora la crisi economica, e anche quella finanziaria, è un fenomeno sociale. Ma se è un fenomeno sociale, va trattato con la politica. Qui non ci vuole Marx e Stalin, bastano Keynes e Roosevelt. L’attivismo finanziario, per quanto si autonomizzi, è sempre una forma dell’attività economica. E l’economia, nella modernità appunto, è economia politica. Il fondamentalismo neoliberista è sembrato a un certo punto che avesse dimenticato questo particolare essenziale. In realtà, con una ben congegnata operazione pratico-ideologica, non aveva abolito la politica, l’aveva sottomessa, aveva rovesciato il suo primato, aveva soppresso la sua autonomia. Motivo non ultimo della sua crisi di questi anni. La politica non sopporta di essere subalterna, di essere dipendente. Perdendo in queste condizioni la sua ragion d’essere, entra in crisi. Operazione pratico-ideologica vuol dire una cosa precisa: vuol dire che l’antipolitica è scesa dall’alto del potere e poi è stata fatta salire dal basso della società. Ma in questo modo è accaduto che le classi dominanti sono incappate nella crisi dello stesso loro sistema. Ed è la tipica utopia regressiva. quella loro, di volere uscirne con rimedi tecnici invece che con interventi politici. In mezzo, tra l’economico e il politico, c’è il sociale. Se non si passa qui dentro, rimettendo a posto i rapporti di forza tra lavoro e capitale, non si esce né dalla crisi dell’economia, né dalla crisi della politica.
Ambedue le facce della crisi, quella economica e quella politica, rinviano dunque al corpo del sociale. È la condizione, malata, di questo corpo, che determina i tratti del volto della crisi. Il capitalismo, che era nato nel Moderno, con un bisogno di società, a cui aveva dato realizzazione attraverso la diverse forme di Stato, contro l’antica idea di comunità, arriva con il postmoderno a essere soggetto dissolutore di società. L’eloquente definizione thatcheriana: la società non esiste, che apre il trentennio neoliberista, chiude una storia. La fine della storia infatti non è data solo dal crollo del socialismo reale, è data anche dall’esaurimento del capitalismo reale. Non si è ragionato abbastanza fin qui, e occorre aprire questa porta di riflessione, sul devastante combinato intervenuto tra iperindividualismo proprietario e virtualità del rapporto sociale umano. Ma se non c’è più società, perché meravigliarsi che esplodano insieme la crisi dell’economia politica e la crisi della politica statuale? Il ciclo economico, di crescita e recessione, non è più sotto controllo, perché in sottomissione ai sussulti di una finanza speculativa.
Lo Stato-nazione, come il monarca costituzionale di buona memoria, ormai regna ma non governa. Il legane sociale, di cui si cantano le virtù e di cui si piange la nostalgia, è improponibile dal momento che si è cancellata per decreto la società del conflitto. Perché che cos’era la modernità se non quella formidabile invenzione storica del fare società attraverso la lotta di classe? È lì che la civiltà delle buone maniere aveva fatto un salto. inimmaginabile in ogni epoca precedente.
E allora è a questo livello che va alzata l’asticella della critica allo stato di cose presente. Non basta più una critica di società. Bisogna mettere in campo una critica di civiltà. Il progetto moderno di emancipazione e liberazione umana è fallito. Ed è fallito perché occupato e gestito dagli spiriti animali borghesi-capitalistici. Il movimento operaio, che aveva raccolto questa bandiera, già da tempo caduta, non è riuscito a piantarla in nuovi cieli e nuove terre. Ma il tentativo eroico del Novecento è il chicco di grano che muore perché nasca la spiga del principio-speranza. Questo certo non sarà senza che rinasca una volontà soggettiva di riscatto e una forza di rovesciamento.
Impresa quasi disperata e tuttavia, dentro l’attuale crisi generale di sistema, le condizioni oggettive per questo ci sono tutte. Il capitalismo quanto più conquista lo spazio mondo tanto più perde il tempo dell’essere uomo. Si apre una questione antropologica, dai caratteri inediti, tutti da saggiare e tutti su cui intervenire: tra disagio personale e disorientamento di massa, tra paura del futuro e angoscia nel presente. C’è una battaglia delle idee, un fronte di lotta sul piano culturale, che aspetta di essere riconosciuto e chiede di essere affrontato. Recita il coro della commedia all’italiana che la sinistra deve aprirsi, deve includere, incorporare il diverso da sé. E intendono con questo, i novatori, che occorre fare spazio proporzionale a moderni spiriti borghesi. Come se non fossero proprio questi spiriti, con l’esercizio del loro dominio assoluto, a produrre il disagio di civiltà. Allora la critica deve assumere, come nuova frontiera, il livello culturale della questione sociale, come mancata civilizzazione, e il dato comportamentale della deriva politica, come guasto antropologico intervenuto. Esattamente nei passaggi di crisi, vanno messe in discussione le forme di vita imposte, vanno messi sotto attacco i mondi vitali dominanti, vanno rifiutati e ribaltati i modi con cui si conosce, con cui si trasmette, con cui si comunica e con cui alla fine si comanda. Aprirsi è giusto solo se diventa un altro modo di dire che ribellarsi è giusto. Altrimenti è subalternità allo spirito del tempo, cessione di libertà per una condizione servile. Crisi e critica è un problema che viene da lontano. Si fa riferimento qui, per proposito, a testi che risalgono agli anni Settanta-Ottanta. Si vuole dire che bisogna ripartire almeno da lì. Come allora la crisi produsse un cambio di egemonia a favore del pensiero dominante, così dalla crisi di oggi bisognerebbe fare il percorso inverso, con un rovesciamento contrapposto di valori. Krisis, di Cacciari, 1976, descriveva un arco molto più lungo. Da Nietzsche a Wittgenstein, si era consumata una stagione di pensiero negativo. Dopo gli anni Trenta, la crisi non aveva più prodotto cultura della crisi. Per il pensiero e per la prassi della grande trasformazione è stata una tragedia.
Quella degli anni Sessanta, adesso l’abbiamo capito, fu la ripetizione nella farsa. Il maggior pericolo, che non salva, si sposterà nel frattempo su un altro piano, anch’esso però non affrontato. Critica della crisi, recitava il titolo di un piccolo libro edito a Trento nei primi anni Ottanta, 1983. Emanuele Severino faceva questa diagnosi anticipata dei mali che tuttora ci affliggono: “La crisi delle forme tradizionali della civiltà occidentale è la fase in cui viene rapidamente alla luce e rapidamente si diffonde il loro essere mortalmente malate. Tale fase è il nostro tempo, cioè la forma di civiltà dove l’atteggiamento scientifico-tecnologico domina su ogni altra forma di civiltà dell’Occidente, ossia ne mostra la malattia e la destinazione alla morte. La civiltà della tecnica è la critica, relativamente alla quale le forme della tradizione occidentale sono in crisi”. La critica è rifiuto, “volontà di collocarsi al di fuori della malattia”, come la crisi è, nei suoi segni fondamentali, “distacco”, “separazione”. La crisi è già un’autocritica di sistema. Questa condizione rende culturalmente possibile e politicamente praticabile l’applicazione della critica alla crisi. Se non si fa questo passo, non avanti o indietro, ma di lato, pagheremo noi la loro crisi, come è già avvenuto, invece di fargliela pagare, come dovrebbe avvenire.

Un commento a “Crisi”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *