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Dopo il Rapporto Barca, per un rilancio dell’azione politica a Roma

Il documento è molto di più della pagella dei circoli e dell’individuazione delle strutture paralizzate da lotte intestine o gestite in regime di monopolio. Una riflessione a cura di Tomassi e Diletti.

di Federico Tomassi e Mattia Diletti
È passato ormai un mese dalla presentazione del Rapporto conclusivo “Mappa il PD di Roma” alla Festa dell’Unità cittadina, da parte di Fabrizio Barca e del suo gruppo (confessiamo di avere un conflitto d’interesse: ne facevamo parte anche noi). Il forte impatto che ha avuto sulla politica romana si può desumere dalle numerose reazioni su quotidiani e riviste, sebbene tra esse abbiano avuto risalto soprattutto quelle negative dei circoli che sono risultati classificati nella categoria peggiore (l’ormai famosa “Potere per il potere”).
Ma il lavoro svolto per la predisposizione del Rapporto è molto di più della “pagella” dei circoli e dell’individuazione delle strutture paralizzate da lotte per il potere interno o gestite in regime di monopolio. È utile allora cercare di rimettere al centro alcuni elementi di interesse presenti nel Rapporto e che non sono emersi finora granché nel dibattito, ma che al contrario possono rappresentare veri punti di forza per costruire il rilancio dell’azione politica a Roma e in un PD ancora tramortito dagli effetti dell’inchiesta Mafia Capitale.
Primo, lo scopo del Rapporto è decisamente insolito nei partiti italiani: fare autocritica e pulizia dall’interno di una organizzazione politica, per leggere comportamenti che, seppure non ricadono nella sfera dell’illegalità, non sono minimamente accettabili in un partito che guida il Comune, la Regione e il Governo nazionale. Il Rapporto non accomuna mai i circoli del potere alle indagini penali in corso, proprio perché il suo focus è sull’opportunità etica e politica di avere strutture territoriali dove non si svolge la normale dialettica politica, ma che sono di fatto dominati da un eletto o una “cordata”, oppure bloccati da uno scontro tra due fazioni. Puntare a una ricostruzione dall’interno è l’unica possibilità affinché il PD possa tornare subito ad essere forza propulsiva dell’azione amministrativa in una fase di grande necessità di rilancio, per poi riproporsi alle prossime votazioni in maniera coerente e seria agli elettori.
Non spetta farlo agli estensori del rapporto, ma al PD stesso: né il livello nazionale, né il livello locale si è mai misurato, e su vasta scala, su cosa sia e cosa significhi essere partito territoriale. Si aspetta ancora la Conferenza di Organizzazione di Bersani, un’idea moderna di partito da testare e sperimentare su vasta scala… Anche per questo il Rapporto ha generato confusione: non solo ci si esponeva a un giudizio pubblico, ma ci si trovava messi a paragone con un modello di partito, quello “ideale” costruito ai fini della valutazione. Il tutto in un’organizzazione non presidiata, non abituata a parlare di modelli e di organizzazione, tanto meno di sperimentazione. Nella quale potevano convivere, fino all’implosione di oggi, il circolo-comitato elettorale personale (“il Segretario paga l’affitto per tutti, che problema c’è ?”) e il circolo comunità chiusa, ovvero gli ultimi ufficiali giapponesi di un’epoca rimasta solo sui muri della sezione. L’importante era non pestarsi i piedi, tranne che durante il libera tutti delle primarie.
Secondo, la metodologia applicata è per certi versi unica, essendo di fatto una vera e propria ricerca scientifica sulle forme della politica, che non è abituata né ad essere valutata oggettivamente dall’esterno né a sua volta a valutare le sue azioni in termini di efficacia per i cittadini, ma casomai solo in termini di effetto elettorale (che pure è un criterio di valutazione, basta che un partito lo decida… ma oggi non sappiamo cosa il PD pensa di essere, come organizzazione). Il Rapporto è stato invece costruito come un lavoro accademico, con un gruppo di ricercatori non iscritti al PD e non particolarmente interessati alla politica, per garantire una visione scevra da ogni condizionamento su quanto era oggetto di valutazione, e provenienti da ambiti disciplinari diversi (scienza politica, sociologia, urbanistica, geografia, statistica, economia, comunicazione), per dare un quadro il più possibile sfaccettato della realtà dei circoli romani e del territorio dove essi operano. E ancora, ciò ha permesso di effettuare una revisione di alcuni giudizi a fronte di nuovi dati forniti dai circoli, con l’idea che il lavoro di valutazione, per quanto oggettivo, può non essere perfetto.
Terzo, appunto, l’analisi territoriale della città. Ogni circolo agisce e ha un mandato di responsabilità politica in una particolare area urbana, che configura il suo “perimetro di responsabilità” nei confronti di cittadini, elettori, iscritti ed eletti. La loro valutazione non può quindi essere scollegata dalla capacità di intercettare, comprendere e rappresentare politicamente, nell’interesse generale, ciò che esiste ed emerge nel loro contesto territoriale di riferimento. I risultati dei questionari e la classificazione dei circoli in idealtipi sono stati messi in relazione con le caratteristiche delle aree-circolo, che incidono necessariamente su forme, efficacia e difficoltà della presenza del PD nei vari quartieri. Se è più facile operare nelle aree centrali poco problematiche, è certo più difficile costruire un rapporto efficace con gli abitanti di zone più critiche dal punto di vista sociale ed economico, come Tor Sapienza e Magliana, per citare due tra i circoli classificati nella categoria migliore (“Progettare il cambiamento”). A tale scopo è stato costruito un ampio dataset assolutamente originale (su demografia, composizione sociale, lavoro, dotazione di servizi, scuole e risultati elettorali) che raccoglie per ogni area-circolo tutti i dati statistici disponibili con dettaglio disaggregato e che mostra le diverse “facce” di Roma, una città complessa con divari interni molto forti. Anche in questo caso, sapere dove si vive e a contatto con chi dovrebbe essere un mantra dell’azione territoriale: un partito pensate rafforza o cambia la propria azione territoriale a seconda di quello che conosce, e per davvero. In diverse interviste, il mitologico pacchetto di mille voti del consigliere municipale era simbolo di “rapporto col territorio”. Vero in alcuni casi, tragedia in altri: mille voti frutto di corporazione e chiusura verso chi sta fuori da quel cerchio magico.
Quarto, nella logica della piena trasparenza (“open data”), sono stati immediatamente pubblicati in un formato aperto al riuso tutti i dati elaborati nel corso dell’indagine: la mappa geolocalizzata con le sedi del PD e la delimitazione delle rispettive aree, i risultati delle rilevazioni presso i circoli, gli indicatori statistici sul contesto territoriale. Mettere tutto ciò a disposizione di chiunque ha un duplice scopo. Da un lato, la pubblicazione del materiale di base da cui deriva la valutazione dei circoli permette di favorire e allargare il dibattito, perché ognuno – iscritti, elettori, cittadini, giornalisti – può farsi un’idea diretta del lavoro realizzato e della motivazione dietro i giudizi espressi nel Rapporto. Dall’altro lato, le informazioni raccolte possono così essere utilizzate da ricercatori e analisti che vogliano impiegarli per ulteriori elaborazioni, come base di partenza per approfondire temi solo sfiorati nel Rapporto o per replicare analisi simili in contesti diversi.
Quinto, l’analisi politica sugli ultimi anni di governo di Roma. Stranamente, al centro del dibattito vi sono state le classificazioni dei circoli e le polemiche seguenti, ma poca attenzione hanno ricevuto alcune considerazioni espresse sulle ragioni dell’involuzione politica della città in generale e del PD romano in particolare. Di quest’ultimo, a partire dal 2006, esce un quadro molto peggiore di quello emerso dall’analisi dei circoli. Se ne è parlato poco, oppure né è stato fatto un uso tutto strumentale, basato sui titoli di giornale. Nel Rapporto si parla degli anni del sindaco Alemanno non come di un buco nero tra due periodi felici di amministrazione del centrosinistra, ma come di una degenerazione che ha radici negli anni precedenti e i cui effetti deleteri ancora si avvertono oggi. Già a partire dal 2006, “la ricerca di consenso avvalora una logica di trasformismo e trasversalità che sbiadiscono definitivamente il riformismo romano e l’autonomia della politica dall’economia cittadina. Il PD di Roma finisce per essere un partito mai nato, piuttosto che l’anticipazione di un modello virtuoso” (pag. 35). Ma solo oggi è diventata evidente “la logica frammentaria ed emergenziale con cui sono state gestite da almeno un decennio – da politici, dirigenti e associazioni – le opere pubbliche, la manutenzione urbana e le politiche sociali. […] La deriva criminale si è fatta strada seguendo i soldi di un’emergenza creata ad arte per ogni fenomeno e accompagnata da controlli solo nominali, sulla scia del modello dei grandi eventi o delle calamità della protezione civile” (pag. 36).
Il rilancio dell’azione politica dell’amministrazione comunale, e del PD romano che ne rappresenta (o ne dovrebbe rappresentare) il fulcro, passa quindi necessariamente per una nuova consapevolezza sulla situazione diversificata dei territori della città, sugli errori del passato e sui problemi irrisolti attuali. Il Rapporto Barca avrà un’utilità non se viene preso a pretesto per essere usato come arma contundente contro una corrente o un nemico interno al Municipio, ma se diventa l’occasione per ripensare le forme della presenza politica in città e con gli elettori, per creare una nuova progettualità, per elaborare una visione politica di lungo periodo su Roma, le sue dinamiche socio-economiche e la rappresentanza del suo territorio. Il prossimo progetto per Roma deve essere frutto di una grande elaborazione collettiva, di un cervello collettivo: non sarà salvato da un gruppo di esperti tirati fuori dal cilindro, che affianchino il sindaco attuale o quello in pectore che ne vuole cannibalizzare potere e risorse.

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