Interventi

Riepiloghiamo. Otto giorni fa diciannove milioni e mezzo di elettori, poco meno del 60% di un’altissima percentuale di votanti, boccia una cattiva riforma costituzionale e, con essa, il governo di Matteo Renzi, il quale prima si era indebitamente arrogato il potere di scriverla e di imporla al parlamento con metodi impropri, e poi ne aveva fatto lo strumento di un giudizio popolare ultimativo su se stesso, ripetendo per mesi “se vinco vinco tutto, se perdo mollo tutto”.
Perde, annuncia le dimissioni in tv – altro metodo improprio -, poi traccheggia, infine molla solo metà, il governo, e solo dopo aver ottenuto un successore di suo gradimento. Tiene l’altra metà, il partito, senza pronunciare una sola parola non dico di autocritica, parola del secolo scorso, ma di analisi, e puntando a farne il trampolino, epurato dall’opposizione interna, per una supersonica rivincita.
Il tutto invocando elezioni subito con la stessa, identica retorica del suo diretto avversario a 5 stelle. Intanto, mentre si levano da ogni parte alti lai sul ritorno dei “rituali estenuanti” da prima Repubblica “voluti dal no” (ma quei rituali sono rimasti sempre gli stessi, anche nella seconda), il Quirinale gestisce e risolve la crisi di governo più lampo che si sia mai vista. Cinque giorni fra consultazioni e incarico et voilà, il governo Gentiloni è fatto.
Cambiato il capo, che annuncia chiaro chiaro di voler continuare l’opera del capo precedente (ma almeno ci farà prendere fiato con un po’ di stile in più), il corpo è lo stesso, rifatto con la chirurgia plastica. La riforma bocciata dai suddetti 19 milioni e passa sta lì come l’ombra di Banco, nelle sembianze della madre (Boschi) e della madrina (Finocchiaro) della riforma medesima, entrambe premiate per il brillante lavoro svolto, la prima con la carica di sentinella del nuovo premier a palazzo Chigi, la seconda col ministero che fu della prima e che non perde né il vizio né il nome: ci sono solidarietà che alla lunga rendono.
Un’altra riforma, bocciata non dagli elettori ma dalla consulta, è premiata anch’essa: Madia resta dov’era. Una terza, bocciata dalla valanga di giovani che al referendum hanno votato no a tutto, idem: Poletti, il mago dei voucher, resta dov’era anche lui. Idem anche per la ministra dei creativi, Lorenzin, irrinunciabile per la sua riuscitissima campagna di comunicazione sul fertility Day.
Altro che instabilità: più stabili di così si muore. Dev’essere stato per questo che un po’ di movimento l’hanno fatto fare ad Angelino Alfano, anche lui premiato con gli Esteri per la statura dimostrata sul caso Shalabayeva, e a Marco Minniti, promosso agli Interni ma solo per togliergli l’unica cosa che funzionava, cioè i servizi, perché li voleva Lotti e per suo tramite Renzi, e non certo perché adorano le spy stories.
Chissà che sfregio per Lotti accontentarsi del ministero allo sport, uno schermo pop per poter continuare a maneggiare nell’ombra editoria e nomine. Delle altre permanenze, annunciate, non merita parlare. Della sostituzione di Giannini con Valeria Fedeli nemmeno. Meno ancora del ritorno di un ministero intitolato al Mezzogiorno, come se bastasse la parola per parare quel no meridionale al referendum più sonoro della sguaiataggine da pescivendolo di De Luca.
Non c’è nessun ritorno alla (cosiddetta) prima Repubblica. Ai tempi, la stabilissima Dc (a proposito, sarebbe ora di finirla con la favola della storica instabilità del sistema Italia) aveva qualche pudore o qualche velo in più nell’uso gattopardesco del potere. Qui invece il messaggio, senza pudore e senza veli, è uno solo: come dicono a Roma, “m’arimbalza”.
Il no ha stravinto? Ecco scodellato il governo del sì. Senza una piega, un forse non si può fare, un pensiamoci un attimo, un bisognerebbe dare un segnale di ascolto a quelli che non ce l’hanno mandata a dire. Niente di niente: hic manebimus optime, la più fragorosa, perfino comica smentita della favoletta renziana sui rottamatori anti-casta che non s’incollano alle poltrone.
Se non suonasse, invece, tragica la frattura che così si istituzionalizza con il paese reale. Quello che ha detto di no. E che bisognerebbe piantarla di trattare, come continuano a fare giornali e tv orfani di Renzi, come un paese di incoscienti (“ma che cosa vuole quell’accozzaglia di no?”), di disperati accecati dalla povertà (il no “sociale”, che c’è ma non è né cieco né disperato e merita qualcosa di più di un’occhiata condiscendente, l’altra faccia dell’ossequio ai manager e ai banchieri testimonial del sì), di Peter Pan annebbiati dalla precarietà (il no dei giovani, che da fluviale diventerà oceanico di fronte a tanto paternalismo ignaro e stupefatto).
In quei diciannove milioni di no c’erano certamente tante cose, ma altrettanto certamente una su tutte: un voto per la qualità della democrazia, e contro l’uso arrogante, “esclusivo ed escludente” per dirla con Prodi, del potere. Se gli si risponde riscaldando la stessa minestra di prima, condita con una dose più massiccia di gigli magici, poi non si dica che saranno stati quei no a regalare il paese ai 5 stelle. Ci sta già lavorando egregiamente il governo del sì.
Ida Dominijanni (tratto dall’Huffington Post)

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