Materiali

Greenberg e Tronti

Il testo di Francesco Matarrese e il Post scriptum di Mario Tronti sono stati presentati nel 2012 a dOCUMENTA (13) di Kassel. Sono stati tradotti in inglese e in tedesco, “Greenberg and Tronti, Being Really Outside?”, Ed. Hatje Cantz – dOCUMENTA (13), 100 Notizen 100 Gedanken, No. 093, 2012, 48 pp., 5 ills.

Essere realmente fuori?

1. Lottare contro se stessi

Alla seconda metà degli anni sessanta risalgono due brevi scritti che chiedono oggi di essere riletti e accostati. L’incontro estremo che come artista voglio favorire è quello tra Clement Greenberg, il più celebre critico d’arte americano, e Mario Tronti, il più radicale filosofo italiano della politica. Sul mio tavolo ho voluto così mettere insieme, Recentness of Sculture di Greenberg, dal catalogo American Sculpture of the Sixties (singolare copertina argentata, anno 1967) e Lotta contro il lavoro! (1965) di Mario Tronti, dal suo celebre libro Operai e capitale, pubblicato a Torino nel 1966. Credo che questo incontro a distanza si collochi in uno dei punti più alti che oggi sia possibile immaginare per una discussione su arte e politica. Tutti e due sono animati da una stessa preoccupazione, non riuscire a pensare sufficientemente l’inaudito. Per Tronti la sconfitta operaia, per Greenberg il Good design, la cultura middlebrow, veleno per l’arte. La insoddisfazione di Greenberg emerge oggi come un fantasma tra le rovine ancora fumanti del suo modernismo. Così come la intransigente “critica dello stato di cose presente” è ciò che permane inattuale nella fortunata attualità di Operai e capitale. Si pongono come due vere e proprie eredità a distanza, due posizioni sul Moderno che ci interrogano, a causa di una emergenza senza paragoni. Mai si era avuta una totalità organica, dice Mario Tronti, come questa. Il Moderno è oramai occupato interamente dal Capitalismo. Mai nessun Impero o Chiesa avevano raggiunto questo livello. Non è libero un mondo diventato unico. Da questa radicale “Critica dell’ideologia” Manfredo Tafuri, lettore acuto di Mario Tronti, fece partire negli anni sessanta una delle più importanti opposizioni al Modernismo. Poco tempo dopo l’uscita di Recentness l’autorevole critico d’arte americano Michael Fried notava tempestivamente, in un memorabile numero di “Artforum” (special issue dell’estate 1967), che Greenberg aveva parlato di una “condition of non-art” e aggiungeva che si era aperta una fase esplicitamente conflittuale nell’arte, “a war”. Oggi tutto ciò appare quasi come una profezia. Credo che la condizione di non-arte aperta da Greenberg sia il campo abissale che si è spalancato dopo la sconfitta delle speranze dell’avanguardia. In questo luogo c’è solo conflitto, una guerra senza fine. Tutto ciò sembra preannunciato dai due testi. Il breve scritto di Greenberg denunciava la scandalosa “presence” di un’arte d’avanguardia “far-out”, anticonvenzionale, irregolare, diversa ma solo a parole. Le opere di quest’arte alla prova dei fatti risultavano essere penosamente ammansite dalla cultura middlebrow, “in good safe taste”. A questa egli opponeva la visione di un’arte alta, assoluta, unitaria, “integrally abstract”, in guerra con le insignificanti forme d’arte della società dello spettacolo. Per Tronti l’irruzione del soggetto operaio nel novecento è da iscrivere alla grande esperienza della cultura della crisi. Per lui la guerra era contro l’intero stato di cose presente. Il “rifiuto” del lavoro capitalistico doveva essere totale. Compito della classe operaia era oramai quello di “lottare contro se stessa”. Alla irrisolvibilità della crisi, all’asfissiante mancanza di identità e unità si rispondeva con un pensiero impossibile. Esiste una unità al di fuori dell’unità? Si può contrapporre un tutto a un tutto, una unità ad un’altra unità? Si può essere realmente fuori? E’ appena il caso di ricordare, che la questione della “unità” negli anni sessanta usufruiva in America di un eccellente tavolo di discussione tra Greenberg, Fried e due artisti minimalisti della forza di Donald Judd e Robert Morris. Anche in questo caso decisiva fu all’epoca una riflessione di Fried in Art and Objecthood (1967). Importanti gli apparivano le critiche di Greenberg alla “presence” delle opere minimaliste, proiettate troppo pericolosamente verso l’esterno. Ciò rompeva inevitabilmente l’unità della forma verso cui si erano diretti gli sforzi di alcuni importanti artisti dell’espressionismo astratto. Ma gli “objects” di Judd (cioè non-soggetti) non a caso erano pensati come letteralmente presenti in un esterno. Alla loro presenza esterna era affidato il compito di eliminare la tradizionale separazione illusionistica tra fondo e piano. A questa discussione si univa anche Robert Morris che inserendo l’opera in uno spazio gestaltico riteneva di poter bloccare la separazione percettiva, “resistance to perceptual separation” (“Artforum”, febbraio 1966), e tenere sotto controllo, “the entire situation“ (“Artforum”, ottobre 1966). Greenberg era in totale disaccordo con questa via all’esterno, difendeva sino in fondo una rigorosa autonomia interna all’arte, profonda e radicale. Solo questa poteva garantire unità all’opera. Tutti i protagonisti di questa discussione avevano in comune la speranza di poter chiudere la crisi delle forme da cui era partita l’avanguardia. La divergenza sulle soluzioni rese tuttavia conflittuale la discussione. La process art, che venne dopo il minimalismo, coraggiosamente si incaricò di mettere in luce la volontà di potenza che era dietro all’intero progetto modernista. Ma non bastò, la crisi delle forme non era superata. La mia proposta, ora, è di trasferirci altrove, dove è possibile riannodare i fili della discussione e riprendere il cammino. Negli stessi anni in cui in America si consumava l’avventura del tardo modernismo in Italia Mario Tronti guidava una delle imprese teoriche più originali e politicamente influenti di fine novecento, l’operaismo. Ritengo che il suo contributo sia sicuramente pertinente e decisivo anche per la nostra discussione. In Operai e capitale aveva elaborato un “punto di vista” cosiddetto copernicano (come lo si chiamò all’epoca), secondo il quale era oramai giunto il tempo di abbandonare nella lotta politica l’idea di contrapporre un tutto a un tutto, un’unità ad un’altra unità, un interesse universale ad un altro interesse universale. Anche recentemente ridiscutendo le pagine di questo suo libro ha ribadito che “la conoscenza che il tutto si propone di se stesso è sempre falsa e ideologica. Essa porta sempre a una falsa apparenza. L’unica conoscenza vera e realistica è quella che una parte può fare della totalità.” (da “Perché ancora l’operaismo”, intervento presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2006, ora in Noi operaisti, Roma 2009, p.105). Tronti avanza l’idea di una parzialità assoluta, di una verità assoluta di parte, non di una verità che vale per tutti, ma di una verità che vale per una parte, per un pezzo di mondo. E’ un riposizionamento strategico del tradizionale concetto di assoluto. La questione dell’unità, in questo contesto di parzialità, è riproposta al di fuori di qualsiasi volontà di potenza. Questo perché è differenza “assolutamente” differente. E’ unità assolutamente differente, separata. E’ il cosiddetto pensiero italiano della differenza, come ha evidenziato recentemente Toni Negri in La differenza italiana (Roma 2005), accostandolo al femminismo italiano della differenza e in particolare a Luisa Muraro. Tuttavia ciò che rende ai miei occhi veramente singolare l’intervento di Tronti in questa discussione è che la parzialità a cui lui pensava all’epoca, quella dell’operaio-massa italiano (“la rude razza pagana”), era in esplicita continuità con l’operaio-massa americano. Più volte Tronti ha sottolineato che ciò che era avvenuto negli anni trenta (il contesto politico di partenza di Greenberg) in America, era poi avvenuto negli anni sessanta in Italia. Ma mentre Tronti dalla radicalizzazione operaia degli anni sessanta traeva l’idea vertiginosa di una parzialità assoluta, di un esterno assoluto, Greenberg dall’America degli anni trenta ricavava l’idea di una rigorosa autonomia, di una legittimità solo interna all’opera d’arte. Greenberg insomma non ammetteva un assoluto di parte o a parte o separato,
così come gli artisti minimalisti non erano riusciti mai a concepire una parzialità assoluta. Il tema dell’unità, dell’assoluto, era in Greenberg una preoccupazione che possiamo ritrovare già in Avanguardia e kitsch del ’39 dove egli espone l’idea che l’avanguardia aveva raggiunto il suo livello alto di arte astratta grazie a una vera e propria “search of the absolute”. In Recentness, dunque a distanza di molti anni, con grande indipendenza intellettuale, non solo ribadisce questa posizione ma la radicalizza facendo riferimento a un arte “integrally abstract”. Certo, il suo concetto di assoluto era indebolito dalla mancanza di volontà decostruttiva. Ma a sopperire, almeno in parte, a questo limite e a rendere ancora importante la sua posizione c’è l’altezza dell’intransigenza critica. Non si può naturalmente nascondere che in quegli anni egli sostenne un’arte non in accordo con le grandi questioni da lui stesso sollevate. La domanda, la richiesta di anticonvenzionale era però reale ed autentica. Questo forse potrebbe spiegare perché ancora oggi gli antimodernisti pur avendo efficacemente dimostrato l’infondatezza della risposta di Greenberg e di gran parte della sua costruzione teorica non hanno minimamente scalfito la pertinenza della sua insoddisfazione per lo stato dell’arte, come credo Rosalind Krauss abbia più volte cercato di spiegare. Era corretto chiedere un uso assoluto dell’anticonvenzionale o come lo chiamava Greenberg “far-out «in itself»”? Il bersaglio era sempre lo stesso, ieri come oggi, l’arte irresponsabile, scandalo senza fine per la cultura.

2. Dov’è finito l’anticonvenzionale?

La mia battaglia in questo testo è in corso. Ora però si tratta di sfuggire, nell’affrontare la questione dell’assoluto, a qualsiasi posizione “in generale”. Procedo in questo territorio con cautela e sospetto. Provo a chiedermi, c’è un assoluto che non è assolutista, totalitario, potente e virtuoso? Oggi sappiamo che a dominare nel nostro mondo c’è solo l’assoluto globale. Forse questa è la ragione del perché non riusciamo ad essere assolutamente anticonvenzionali o anticonvenzionali in sé. Tuttavia Greenberg e Tronti non accettano la sconfitta, cercano un rifiuto finale. Anche io ritengo che la partita possa essere riaperta. Mario Tronti ha recentemente detto in una conversazione con Pasquale Serra che “tutto ciò che c’è è il contrario di quello che io sono” (da Mario Tronti, Non si può accettare, Roma 2009, p.38). Ora provo a stabilire una differenza. A me sembra che il rifiuto dell’esistente (mediocre e spettacolare) porti Greenberg a essere fuori, ma al punto da dimenticare il mondo e questo non va bene. Abbiamo imparato da Roland Barthes che non c’è nessun fuori al di là del deserto quotidiano. Per Greenberg il mondo esterno non può che portare danno all’arte. Come risponde Tronti? Certo, anche per lui la genericità e la non qualificazione dell’operaio-massa sono il riflesso del mondo. Ma è proprio su questo punto che si registra il più importante spostamento strategico della discussione. La critica di Tronti dell’operaio-massa non specializzato e in generale, che passa indifferentemente da un lavoro all’altro non è mai fatta contro questo operaio. La sua critica è sempre una decostruzione della sua condizione. L’operaio non specializzato (come l’artista della cultura middlebrow) è solo il punto di partenza per legittimare la resistenza e l’attacco. E’ la “lotta dell’operaio contro se stesso”. E’ importante poi liberarlo dalla sua condizione passiva di lavoro morto per raggiungere il lavoro vivo. Il lavoro morto domina e succhia il lavoro vivo, scrive Marx nel Capitale “tote Arbeit, welche die lebendige Arbeitskraft beherrscht und aussaugt” (Karl Marx, Das Kapital, MEW 23 S.446). Viceversa la critica dell’arte come buon design, come è svolta in Recentness, non permette a Greenberg di emanciparsi, di andare oltre lo sdegno nei confronti di una cultura inautentica. Non riesce insomma a considerare quella passività, quella inautenticità come il punto di partenza per una resistenza. Tronti reclama invece la necessità di essere dalla parte dell’operaio non qualificato, indisciplinato e indifferente. Avverte che la mancanza di specificità nel suo lavoro riflette direttamente o indirettamente l’indifferenza della merce, di cui certo è vittima. La sua critica decostruttiva ci permette di capire che non c’è alcuna specificità, alcun lavoro vivo (come sperava Greenberg) capace di oltrepassare il problema, capace di staccarsi dalla gabbia d’acciaio che lo lega al lavoro morto. L’errore di Greenberg è di non aver concepito a sufficienza la doppia natura del lavoro (lavoro vivo e lavoro morto). Il nipote di Rameau è ancora fra noi. Greenberg non si accorge che il lavoro vivo, l’anticonvenzionale in sé, è intimamente connesso con il lavoro morto. Tronti in Lotta contro il lavoro! invece spiega che la doppia natura del lavoro impone una separazione solo per lotta, per guerra, persino contro se stessi. La separazione non può essere decisa solo con un atto di sdegno. La separazione, l’anticonvenzionalità vera, per sfuggire a qualsiasi condizione di assoluto in generale (e cioè globale) non può che tentare di essere un assoluto parziale che trae vita solo dalla differenza, dal “non”. L’operaio di Tronti ha solo da combattere se stesso, “deve negarsi come forma produttiva”. Per questo è fondamentale ribadire che “la verità assoluta di parte” è diversa dall’assoluto totalitario. Questa “verità assoluta di parte” è dentro il non-assoluto. Ecco perché è stato un errore per Greenberg trascurare le risorse nascoste presenti nella “condizione di non-arte” che lui stesso aveva contribuito a portare alla luce proprio in Recentness. Avrebbe così scoperto che la non-arte era l’altro nome del non-lavoro e del rifiuto. Tronti avverte che è fondamentale considerare la doppia natura del lavoro e ritorna a raccomandarlo proprio all’inizio di Lotta contro il lavoro! E’ evidente che questa è una condizione spettrale. Lavoro morto e lavoro vivo ovvero per Marx “abstrakt Arbeit” e lavoro concreto, oltretomba e terraferma. I passages parigini ritornano.

3. Incontrarsi all’inferno

Ecco l’evidenza delle cose! In quale altro luogo posso trovarmi come artista se non nel campo disegnato dai due scritti che io stesso sto analizzando? Ricevo la benedizione dai fatti stessi. Ma c’è di più. Mi chiedo, che cosa permette strategicamente a Greenberg di essere anche lui in questo territorio di lotta? E’ bene subito dire che Recentness è un testo di non facile lettura. Mascherature, ambiguità, doppiezze lo mortificano dall’inizio alla fine. In più l’apparenza di scritto d’occasione è ingannevole. Non penso che l’obbiettivo fosse solo quello di stroncare i minimalisti del tempo. Questo aspetto era probabilmente il coup de théâtre (il padre che fa fuori i figli illegittimi in nome del rigore politico) del consumato e temibile critico d’arte. Greenberg parlava agli artisti della sua generazione, quelli che avevano letto la “Partisan Review”. Ricordiamo che l’antifascismo italiano, da Silone a Chiaromonte (successivamente si aggiunsero la Arendt e Sartre) aveva dato un contributo insostituibile a quella memorabile impresa di cui egli era stato un protagonista eccellente. Io leggo Recentness come il testo di chi non vuole spietatamente rinunciare allo spirito di resistenza nei confronti della cultura bassa, di massa, fascista. E’ stato Italo Calvino, molti anni dopo, a usare il termine spietatezza per descrivere il modernismo neorealista e antifascista (come ha sottolineato Timothy J. Clark in Farewell to an Idea, Yale 1999). Questo concetto potrebbe aiutare a garantire il passaggio dalle intenzioni irrealizzate di Greenberg al “rifiuto del lavoro” di Tronti. Per far questo proviamo ora a stabilire qualche relazione estrema. Dicevamo che l’assoluto di Tronti va cercato nel non-assoluto, nella parzialità. Poi abbiamo aperto una parentesi per chiarire che un possibile destino dell’idea di anticonvenzionalità di Greenberg, transitoriamente sospesa in Recentness, possa essere ritrovata nel rifiuto di Tronti. Ci chiediamo se questo rifiuto (rifiuto del lavoro astratto e in generale), esito strategico massimo della “separazione” in Lotta contro il lavoro!, possa alla fine in qualche modo utilizzare l’assoluto irrealizzato di Greenberg. Tronti in quel testo scriveva “Tenere la classe operaia dentro di sé e contro di sé, e su questa base imporre alla società le leggi del suo proprio sviluppo, – questa è la vita del capitale, e non esiste per esso nessun’altra vita all’infuori di questa”. Per il capitale dunque non c’è nulla al di fuori di questa vita fittizia. Nella pagina successiva scrive “L’obiettivo è di nuovo il rifiuto, a un livello più alto” e ancora “L’apertura del processo rivoluzionario è tutta posta al di là”, cioè fuori. Di qui parte il suo “rifiuto” radicale. Se vuoi essere antagonista e “rifiutare”, egli dice, non puoi che chiedere una differenza radicale. Questa non può che essere trascendente, ma si badi in un senso tutto da decostruire. Chi vuole andare contro lo stato di cose presente, chi vuole “andarci contro, usa mezzi a dir poco disperati” (da Mundus pulcherrimus nihil in “Diotima”, rivista online della comunità filosofica femminile, numero tre, 2005 ). In un testo del 2009 sulla teologia di Paolo e la politica, Tronti precisa che nella “politica della trasformazione dei rapporti e della trasvalutazione dei valori, in questa politica l’assoluto c’è. Ed è sempre qualcosa che è trascendente rispetto al tuo agire qui e ora” (ora in Mario Tronti, Dall’estremo possibile, Roma 2011, p.92). La sua visione è così radicalmente separata dal mondo (pur dentro il mondo) da essere vertiginosamente trascendente. Anche questa separazione assoluta però è parziale e non astratta, e soprattutto non in generale. Deve rimanere inflessibile il rifiuto del lavoro astratto e in generale. Anche la separazione deve essere decostruita dallo stesso mondo del lavoro. La relazione estrema che voglio stabilire tra Greenberg e Tronti va cercata nelle viscere dell’inferno del lavoro morto. Qui sono destinati a incontrarsi. Solo la radicalità dell’idea di “separazione” di Tronti può offrire la parola non all’anticonvenzionale in generale di Greenberg (in lui specificità e in generale alla fine si identificano) ma alle intenzioni che sono nel destino di quell’anticonvenzionale. La “condition of non- art” individuata da Greenberg in Recentness può essere riletta alla luce di questi sviluppi trontiani intorno all’idea di separazione. La non-arte, non come inutile contrario dell’arte, potrebbe alludere a un “non” di tipo “trascendente” nel senso indicato da Tronti, un trascendente dentro il mondo. Questo ci porta a fare alcune considerazioni. Il limite del modernismo riduttivo greenberghiano probabilmente non fu tanto nel non aver immaginato un medium allargato al “non” (l’Expanded Field della Krauss). Forse la sua visione dichiaratamente kantiana e trascendentale della purezza artistica (è per me molto discutibile il Postscript del ’78 a Modernist Painting) mancò di un esito radicale. Questo gli avrebbe permesso non solo di superare la vecchia metafisica dell’origine e dell’originario ma anche di approdare ad una coraggiosa nuova separazione. Lo stesso discorso vale per gli antimodernisti. La loro esplicita critica all’essenzialismo greenberghiano non è riuscita a immaginare la possibilità di usare l’altezza della richiesta di “assoluto” di Greenberg proprio in un contesto antigreenberghiano. Questo ha loro vietato l’accesso ad una vera e propria nuova separazione. Non senza stupore oggi constatiamo che il trascendente di Tronti può ricevere luce paradossalmente proprio dall’arte “integralmente astratta” evocata da Greenberg. Ancora una volta è necessario disordinare il mondo dell’arte (e non solo) per raggiungere qualche obiettivo reale.

4. Metafisica, mon amour

Il mio cammino d’artista in questo testo sta lentamente rendendo visibile il suo medium, il suo mezzo di lavoro. La mia arte si apre dentro questo mondo che sto descrivendo. Torniamo a Tronti e proviamo a ragionare nuovamente intorno all’idea di separazione e di trascendente, tentando di disordinare nuovamente i rapporti con l’arte. Che significa decostruire e acquisire un punto di vista trascendente sulla questione? Nato nella lotta, dall’estrema volontà di chiamare in vita una risorsa ulteriore (dopo la fine delle avanguardie e dopo la sconfitta della classe operaia a fine novecento), questo trascendente potrebbe usufruire delle allusioni a un paesaggio metafisico più volte apparse nella storia del modernismo. Sono ombre transitate sulle pareti alte dell’arte moderna. Come continuare il lavoro sull’assoluto di Picasso e Pollock, sembra chiedersi più volte Greenberg? La nostra strategia per rispondere a questa domanda è stata quella di risalire al segreto politico di Recentness messo in relazione con Lotta contro il lavoro! E’ emersa, dalle nebbie della coscienza infelice di queste due eredità a distanza, una forte e paradossale volontà di separazione metafisica. L’orizzontalità della pittura astratta è un sorta di immanentismo metafisico. Cerca di separarsi dal mondo stando nel mondo. Qual’è il paesaggio nel quale mi sto inoltrando e che potrebbe ospitare le nuove forme? E’ stato Timothy J. Clark in Farewell to an Idea a richiamare la mia attenzione sulla descrizione che William Rubin fece nel 1972 di “Ma Jolie” di Picasso, in occasione di una retrospettiva al MoMA. Rubin parla di una composizione come “the most profoundly methaphysical in the Western tradition” (in William Rubin, Picasso in the Collection of the Museum of Modern Art, New York 1972). Qualche rigo prima nota che “the light in early Cubist paintings did not function in accordance with physical laws; yet it continued to allude to the external world”. Dentro e fuori? La strategia politica di Tronti in Lotta contro il lavoro! è impedire qualsiasi unità dentro il capitale. Il capitale costruisce una unità fittizia, in modo tale che al mondo non esista “nessun’altra vita all’infuori di questa”. Per Tronti è fondamentale viceversa “impedire questa unità” del capitale. La vera unità è fuori, è separata. E pur provenendo dal di “dentro” bisogna saperla costruire “fuori”. E’ un compito quasi impossibile. Tronti chiede una “organizzazione dell’alienazione”, che sarebbe “uno di quei miracoli d’organizzazione che sono possibili solo dal punto di vista operaio” (quest’ultima frase, presente nel manoscritto originale, manca nella edizione a stampa). E questa è anche una risposta a Recentness. E’ tempo ora che io tiri fuori dal mio scaffale il numero due della “Partisan Review”, della primavera del ’55 e il numero unico di “Possibilities” del 1947 curiosamente con lo stesso colore giallo in copertina. Nel primo c’è il celebre saggio di Greenberg “American-Type Painting”. Tra gli artisti del dopo ’29 Greenberg individua Pollock come il più promettente erede del cubismo analitico. A lui tocca continuare dove Picasso aveva lasciato, tra indeterminato e limitato. Ora apro “Possibilities” a pag. 79. dove Pollock scrive “On the floor I am more at ease. I feel nearer, more part of the painting, since this way I can walk around it, work from the four sides and literally be in the painting.”. Nell’originale il dentro (in) è in corsivo. Anche per Pollock “dentro” e “fuori”? Ritorno sul locus classicus, come dice Clark, della discussione, la pagina di Fried in Three American Painters dedicata a Number One, 1948, di Pollock. Qui confesso di non essere tanto impressionato dalla difesa dell’autonomia ottica dell’opera, quanto dal primato visivo di questa sull’esistente. Come se esistesse una possibilità di vedere oltre l’esistente o meglio, come se solo il visivo permettesse la separazione dall’esistente, da un certo esistente. Leggo a pag. 14 “conditions of seeing prevail rather than one in which object exist”. L’ombra della metafora, sollevata da Clark come barriera insormontabile in Pollock, potrebbe essere allontanata solo da una visione forte della separazione, come quella avanzata da Tronti. Se vuoi separarti, egli dice, devi essere fuori ma anche disperatamente dentro, perché solo alla luce concreta del mondo la metafora fugge via. A questo punto della discussione non mi lascio sfuggire l’evidente constatazione che ciò che per Tronti “dovrebbe” essere separato, nel visivo alluso da Pollock sembra in procinto di esserlo. Non “il” visivo ma “un” visivo promette di realizzare la separazione. E a sua volta la separazione di Tronti potrebbe essere uno degli “oggetti” di pensiero inscritti nel destino del “vedere” di Pollock. E’ come se il visivo, per esempio la luce dei quadri cubisti, fosse capace di separarci dal mondo. Ed è come se la volontà di farlo fosse il significato ultimo del perché del visivo nel mondo. Siamo vicini a una seconda astrazione o astrazione di secondo grado dopo quella delle avanguardie e neoavanguardie? Le metafore in Pollock viste da Clark esistono concretamente, nel senso che sono attive, ostacolano il percorso. Queste ombre non sono altrove ma dentro il tessuto connettivo della cultura, il territorio nel quale molto concretamente ci stiamo inoltrando, dove non ci sono immagini nel senso tradizionale, ma gesti sociali, di classe. La Teoria delle figure (Théorie des figures, 1973-‘74) di Marcel Broodthaers ne è una prova. La sua complessità critica (capace di allargarsi sino al gesto di Piero Manzoni), “neither language nor icon”, è stata messa in rilievo da Rosalind Krauss e da Benjamin Buchloh (Rosalind Krauss, “A Voyage on the North Sea”, London 2000, p.60). Questo mi riporta all’intuizione di Timothy J. Clark, che dietro alle immagini di Pollock ci fosse quasi un “dramma di classe”, “drama of class” (Timothy J. Clark, Farewell to an Idea, Yale 1999, p.363). Tutte buone ragioni per aver provato a immaginare l’orizzonte artistico di Greenberg dentro un contesto politico trontiano.

5. “The condition of non-art”

Ora mi chiedo, il campo nel quale mi sto inoltrando è quello della “condition of non-art”? La non-arte per Greenberg è quasi sempre qualcosa che prima c’era e poi non c’è più. Come se qualcosa avesse bisogno di sbarazzarsi di qualcos’altro. In Recentness è grande il suo stupore per le opere minimaliste che rimangono non-arte, non essendo riuscite a riciclarsi come arte. E’ la singolare “condition of non- art”, cioè della non-arte che permane. E’ come se i crolli ontologici a cui ci avevano abituato i poststrutturalisti si fossero improvvisamente bloccati. Ciò che chiamiamo non-arte dovrebbe avere un altro nome. Se permane vuol dire che è qualcosa. In tal modo la sua esistenza non sarebbe più provvisoria e postmediale. La separazione, il rifiuto, aprono a un vero e proprio paesaggio metafisico che non è questa volta “in generale” ma incredibilmente parziale, singolare. Questo paesaggio nasce dalla scomparsa e mancanza di assoluto che però in qualche modo resta e si conserva (come nell’Aufhebung di Hegel). Forse abbiamo bisogno di un diverso significato del concetto di mancanza. Scrive Jean-Luc Nancy “Soit qu’on déplore l’épuisement de la puissance mythique, soit que la volonté de cette puissance accomplisse des crimes contre l’humanité, tout nous conduit à un monde où fait profondément défaut la ressource mythique. Penser notre monde à partir de ce «défaut» pourrait bien être une tâche indispensable” (da La communauté désoeuvrée, Paris 1983-1999, p.118). Ricordo che il giovane György Lukács in apertura di Die Theorie des Romans scrisse una pagina profonda su una mancanza, che non è assolutamente nostalgia. Una mancanza che permane, a tal punto da aprire un orizzonte, un campo. L’idea che la non-arte permanga (la condizione della non-arte) ci permettebbe dunque di entrare nella mancanza, in una sorta di oltretomba del lavoro morto e di farvi penetrare una luce. Questo è il fuori e il dentro, il luogo della separazione. Stiamo andando via da un mondo? “Denn das ist das tragische bei uns, daß wir ganz stille in irgend einem Behälter eingepakt vom Reiche der Lebendigen hinweggehn, nicht daß wir in Flammen verzehrt die Flamme büßen, die wir nicht zu bändigen vermochten” si chiedeva Hölderlin nel 1801, in una lettera a Boehlendorff. E’ un territorio singolarissimo quello che incontriamo. E’ abitato da strani oggetti o elementi, fatti di menzogne, paure, cecità ma anche di luce. E’ ciò che accade lottando con se stessi. In alcune raffigurazioni magnogreche dell’oltretomba le ombre e le allegorie sembrano saper riconoscere i loro visitatori. E’ proprio un mondo dentro il mondo. Sono i palinsesti del capitalismo. Come artista riesco ad essere dentro e fuori? Il luogo separato di un artista del rifiuto non è in un deserto ma è in un territorio preciso di questo mondo. L’accesso è tra queste parole, tra i punti di vista.

6. Dentro e fuori

Lo status di non-arte sia pure nella sua condizione spettrale e provvisoria descrive un campo, una estensione. La non-arte assieme al non-lavoro è nel territorio marxiano del lavoro morto. E’ una sorta di oltretomba. L’oltretomba è il tema che ci attende per terminare. Prima però una parentesi. E’ importante ritornare sulla questione delle astrazioni. Il merito del Picasso cubista secondo me è di aver drammatizzato il chiaroscuro portando l’ombra a livelli quasi teosofici, goethiani. La sua strategica utilizzazione della luce lo dimostra. Certo, il fallimento di questa impresa è ben noto. Non sono però d’accordo sull’idea che l’obiettivo mancato fosse la piattezza più vera. La piattezza perfetta non doveva essere più vera ma più viva rispetto all’illusoria grisaille classica (ecco la sua insistenza sulla luce). Ciò può aiutarci a intendere l’intera avventura dell’astrattismo come un viaggio alla ricerca del lavoro vivo e la sua archeologia come una discesa negli inferi, il regno baudeleriano e benjaminiano del lavoro morto. L’evoluzione del palinsesto astratto da Picasso a Pollock è un’evoluzione interna al lavoro astratto, in generale e morto, esattamente come quello descritto da Marx nel Capitale e nei Grundrisse. L’arbitrarietà del linguaggio in ambedue, in Picasso attraverso per esempio l’uso di elementi esterni, in Pollock nella gestualità anti-industriale e antitayloristica, denota un modello di artista privo di linguaggio specifico, come nell’operaio-massa non qualificato descritto da Tronti. Le opere astratte di Picasso del periodo analitico e il Pollock del ’47-‘50 sono fabbriche, palinsesti di fabbriche. Sono la via di accesso all’oltretomba del nostro tempo. Sono fabbriche di lavoro morto. Il medium si à ridotto al solo uso della visione del pensiero, secondo la tabella di marcia ordinata dall’arbitrarietà del segno, oramai destino irreversibile dell’arte occidentale. L’otticità modernista è vertiginosamente catapultata in un mondo che è tutto modernista in un inferno di niente. Ma Jolie e Number One sono leggibili ora non in base a uno stile artistico ma al tipo di lavoro che li caratterizza. Un lavoro astratto, nel senso marxiano di lavoro in generale e morto. Peter Bürger, nel suo Theorie der Avantgarde (Frankfurt, 1974), sulla base delle analisi marxiane dei Grundrisse, sottolinea che grande ruolo dell’avanguardia è stato quello di aver reso comprensibile proprio nella nostra epoca borghese le categorie “generali” e astratte dell’attività artistica. Anche Meyer Schapiro sosteneva che un arte astratta avanzata aveva il compito di criticare la stessa società industriale che l’aveva prodotta. Ma nessuno dei due forse fa il passo definitivo e considera l’arte astratta non un semplice riflesso della società industriale ma una vera e propria fabbrica di lavoro astratto, in generale e morto. Le impressioni metafisiche sull’astrazione di Rubin potrebbero essere un accesso al lavoro morto, all’oltretomba del lavoro. Così si potrebbe spiegare meglio la volontà di separazione avanzata dal modernismo. Dopo il First American Artists’ Congress del 1936, a seguito dell’influente presenza di alcuni antifascisti italiani nella “Partisan Review”, dell’invito all’indipendenza delle arti espressa da Lev Trockij (sia pure in funzione antistaliniana), del fallimento della politica del Fronte Popolare, si fece strada in America una volontà esplicita di separazione nell’arte astratta, culminata nel ’39 con Avant-Garde and Kitsch di Greenberg. Il testo archetipo di Schapiro sull’arte astratta americana, Nature of Abstract Art del 1937 (gli artisti americani, a differenza delle prime avanguardie artistiche, prenderebbero le distanze dal mondo dell’industria) potrebbe essere utile nella discussione su un Pollock come primo non-artista, come artista-operaio non qualificato, dentro un’attività industriale per così dire sospesa, bloccata. Pollock era un operaio massa trasfigurato in un mondo diventato modernista? Yve-Alain Bois insiste opportunamente in La lesson de Khanweiler (in Cahiers du Musée National d’Art Moderne, vol. 23, 1988) sulla funzione determinante svolta dall’horror vacui nel Picasso cubista. A questo proposito penso che la paura, lo sgomento domini dantescamente non l’accesso a un panorama indeterminato ma a un vero e proprio oltretomba del mondo capitalistico. Mi avvio verso la fine di questo testo. Cosa ho tentato di fare? Forse non avevo voglia sin dall’inizio (quale inizio?) di lasciar perdere l’idea di Greenberg, l’opera o non-opera integrally abstract. L’arte autenticamente e integralmente astratta, un’arte realmente fuori non è mai un’arte inutilmente e genericamente fuori dal mondo (l’arte astratta e in generale è pari al lavoro astratto e in generale del capitale). Credo esista solo un’arte astratta capace di essere integralmente fuori, radicalmente fuori, ed è quella che riesce a saltare, a passare autenticamente da una “Form im Leben” a un’altra “Form im Leben” come suggeriva il giovane György Lukács in Die Seele und die Formen, agli inizi del novecento. Questo salto (il volo magnifico) è garantito da un gesto. Solo con questo gesto si può arrivare ad esprimere una vita (l’unità o univocità forse non potente,“die das Eindeutige klar ausdrückt,”). Noi conosciamo ancora solo la parte di infelicità di questo gesto, che ci appare drammaticamente opposta alla promesse de bonheur, su cui avevamo elevato tanto tempo fa i nostri sogni. “Die Geste allein drückt das Leben aus, — aber kann man ein Leben ausdrücken?”. Questa è la domanda finale, terribile. L’artista deve scendere dentro il lavoro morto, dentro la vecchia forma di vita, per vedere e ancora vedere nel pensiero. Non deve temere di rimane fedele al suo punto di vista.
7 gennaio 2012

Post scriptum

Si può essere realmente fuori? E’ la domanda che ho rivolto a Mario durante le nostre ultime conversazioni. Ricevo oggi, otto gennaio, la sua risposta, importante, straordinaria. Ora è qui, naturalmente, nella lotta del testo, di questo testo.
In arte come in politica non c’è che lotta
Si può essere realmente fuori? Questa è la domanda. Io rispondo: sì. Io lo sono. Sento di esserlo. Per sensibilità, prima ancora che per ragione. Questo mondo, così com’è, come è storicamente organizzato e dominato, non mi appartiene, non fa parte di me, e dunque è a me estraneo. Non mi fermo qui. Registro un dato: trovo di fronte a me una forma dell’essere nel mondo, anch’essa non metafisica ma storicamente determinata, che chiede e ottiene un rapporto di ostilità. Questo modo d’essere, o questo mondo dell’essere, mi combatte e io lo combatto. Le forme di lotta non le subisco, le scelgo: naturalmente nei limiti del possibile. E tutto lo sforzo, intellettuale e pratico, consiste nell’ampliare e nel possedere la sfera delle possibilità. C’è un mutamento nelle contingenze. E tutto dipende dai rapporti di forza. Il “dentro e contro”, il lavoro che dall’interno del capitale aveva sufficiente potenza per bloccare il meccanismo della sua riproduzione, descriveva un livello alto della lotta, e proponeva l’utopia concreta di una messa in crisi soggettiva dell’organismo sistemico. Tutto questo è un passato. Non si dà più nel presente. E’ possibile una lettura utopica del passato? Benjamin ha dimostrato che, non è solo possibile, è necessario. Seguo quella traccia. Con un di più. Il passato, che per me ha un nome, il Novecento – scrivo sempre il mio secolo con la maiuscola, per marcarne la maestà – non è l’edenica età che chiama nostalgia, è piuttosto l’epoca del massimo pericolo per l’ordine secolare del dominio e dello sfruttamento. E so, con Hölderlin, che là dove il pericolo è più grande, lì c’è la salvezza. E’ dal disordinamento del mondo della vita che solo possono nascere nuovi cieli e nuove terre, ovvero nuove forme di vita. Le avanguardie novecentesche non sono neoromanticismo, sono neue Revolution. Se è vero che tra ieri e oggi, tra passato e presente, in mezzo c’è il macigno della sconfitta operaia, in comune, per l’arte e la politica, ci sarebbe la non accettazione di questa sconfitta e la ricerca di un’altra modalità di rifiuto, che possa valere, in modi diversi e autonomi. Io così la metto. Nell’attuale, profonda, strutturale, crisi dei fondamenti della politica moderna, che ruolo può avere, quale funzione attiva può svolgere, lo sperimentarsi, esistenziale, dell’arte contemporanea? Accettazione della sconfitta da parte dell’antagonismo e rifiuto dell’ordine del mondo che ne è seguito, devono costruirsi insieme e ridiscendere, per poi da lì ripartire, per ciascuno di noi, nel fondo dell’anima, a dirla con Maestro Eckhart. Un altro costruttivismo per un’altra dissoluzione. E tuttavia, dobbiamo sapere, con una coltivata lucidità, che quel macigno della vittoria del capitale sul campo del lavoro, sta lì e se non possiamo saltarlo, bisogna fare in modo di aggirarlo. Qui politica e arte si dividono i compiti, al di la dei muri di ostruzione che sono stati sollevati nella nuova presente pace dei cento anni. Spetta all’artista riconoscere, creativamente, le pieghe del mondo entro cui si nasconde l’alienazione della vita delle persone, spetta al politico misurare, realisticamente, le forze disponibili e suscitare le energie indispensabili, alla buona battaglia, a una lotta che sia credibile e che sia affascinante. Non-lavoro e non-arte, forme dunque del rifiuto, e però nuovi mondi vitali, dove riconoscersi, appartenersi, organizzarsi. Che fare invece di queste retroguardie intellettuali del post-moderno? Cantano il mai visto, ma ripetono il già detto. Si allineano sull’opinione delle maggioranze democratiche. Galleggiano sull’onda del nuovo che avanza, finché non ne vengono inghiottiti. Non è tanto il mercato che mi preoccupa, è l’adesione, lo schiacciamento, al gusto di masse acculturate subalterne, armate, o meglio disarmate, di politically correct, è l’omaggio alla società dello spettacolo, l’assunzione della civiltà dell’intrattenimento, la fuga precipitosa dal reale per cadere nelle braccia del virtuale, l’abbandono dello spirituale nell’arte senza raggiungere una corporalità dell’ispirazione. L’astrazione era una scelta del soggetto pensante e agente, forma di rifiuto di ciò che si vede, il vuoto, l’insignificanza, l’indifferenza, sono al contrario l’imposizione dell’oggetto che conta, che magari fosse solo merce, in realtà è sempre il tavolo di Marx che, una volta prodotto, si autonomizza, anzi si mette a ballare sulle proprie gambe, con tanti grilli per la testa. E tutti, lì, ad ammirare la tecnologica performance, che finalmente vince sulla forza gravitazionale della storia, umana, troppo umana. Io sto ben saldo dentro una tradizione di sovvertimento dello stato di cose presente, dal punto di vista di quello che è stato il movimento operaio. Lenin diceva: la verità è rivoluzionaria. Oggi si può ben dire: il passato è rivoluzionario. Perché il passato è la verità. Mentre il falso è l’attuale: una sovrapproduzione di artifici, che non a caso ha finito per mettere in crisi la stessa produzione di beni. E’ bello vedere i padroni del mondo che non sanno come uscire dalla weberiana gabbia d’acciaio, che avevano costruito per comandare sul lavoro. Ricordiamolo: in arte come in politica, non c’è che lotta. E’ vero, bisogna che la guerra diventi inutile. Ma non perché subentri al suo posto una improbabile pace perpetua kantiana, piuttosto perché si instauri una forma, legale e legittima, civile e civilizzatrice, di conflitto permanente tra diverse e opposte Welt-und-Lebensanschauungen. Al pensiero unico va ri-contrapposto un pensiero duale. Come all’armonia sociale va di nuovo contrapposta una società divisa. Questo del resto è il principio di realtà, che varie modalità di mascherature ideologiche oggi occultano. E le maschere varie hanno un modo unico di occultamento, quello di restituire, demonizzata, questa realtà a un passato estinto, donde il meccanismo logico del post, il post-storico, il post-politico, il post-ideologico. La verità del non lavoro diventa il falso della società del post-lavoro. La verità della non-arte diventa il falso del creativo della post-arte. Non c’è altro modo per spezzare questo meccanismo perverso che restaurare la presenza di punti di vista alternativi: che si combattono ma che si riconoscono. E che dunque sollevano la lotta all’altezza di un confronto/scontro mai definitivo, cioè che mai presuppone l’eliminazione dell’altro. Non esiste una verità per tutti, esiste la verità per una parte e la verità per un’altra parte. E’ possibile dunque una parzialità assoluta, o un assoluto parziale? Bisogna rendere, questo, possibile, garantendo, con le leggi, che il conflitto non diventi guerra. E pensando, e praticando la propria verità, il proprio assoluto, in termini non totalitari, non integralisti, non fondamentalisti. Lo spazio per la presenza, attiva, dell’artista nella vita del mondo in questo contesto si allarga e si approfondisce. Non è tanto necessario schierarsi, come era necessario appunto in tempi di guerra, è necessario stare dentro il conflitto, con le risorse della solo propria, specifica, insostituibile, esistenza interiore. Allora, ecco, tenendo fermo il contro, va rivista la dialettica del dentro/fuori. Dialettica, appunto, perché movimento di opposti, che nelle fasi cambiano di posto nella predominanza, pratica e teorica. Pollock, che gira intorno al quadro, si tuffa dentro, ne fuoriesce, lo domina e ne è condizionato, è la metafora giusta. Che cos’è il fuori? Non è il sopra. E’ l’oltre. L’über, “il passaggio del punto zero”, che attraversa il nulla fece discutere Jünger e Heidegger: se si trattasse del trans lineam o del de linea. Per il nostro problema, è tutte e due le cose. Il mondo così com’è, l’esistere storico del capitale, per combatterlo devi stare dentro, per conoscerlo devi stare fuori, per esprimerlo, nel suo contrasto di fondo, devi stare dentro e fuori. Trascendere quello che vuoi contrastare, per questo ci vuole la buona forza, e la sua organizzazione, sia quando
sei insieme agli altri, sia quando sei solo con te stesso. Un salto, è vero, kierkegaardianamente inteso, ma non una volta per tutte, ogni giorno, ogni ora del giorno, nel fare, nel pensare, nel creare, cioè nel vivere.

Mario Tronti , 8 gennaio 2012
Il testo di Francesco Matarrese e il Post scriptum di Mario Tronti sono stati presentati nel 2012 a dOCUMENTA (13) di Kassel. Sono stati tradotti in inglese e in tedesco, “Greenberg and Tronti, Being Really Outside?”, Ed. Hatje Cantz – dOCUMENTA (13), 100 Notizen 100 Gedanken, No. 093, 2012, 48 pp., 5 ills.

2 commenti a “Greenberg e Tronti”

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