Il voto di febbraio registra la confluenza di molteplici crisi che da anni si approfondiscono senza trovare una risposta adeguata. C’è anzitutto una crisi sociale che incentiva la precarietà, l’insicurezza e produce risentimenti e ostilità di massa verso le forme e gli istituti della politica. E c’è una crisi delle istituzioni rappresentative che sono contestate in nome di spontanei e orizzontali rapporti immediati che evocano magnifici (e troppo facili) ritorni all’Agorà in tempi che però svelano una profonda alienazione politica, una visibile anomia sociale. Tutto ciò interroga il costituzionalismo democratico e sollecita uno sforzo di comprensione dei fenomeni che sappia resistere alle vulgate dominanti che con l’antipolitica alimentano credenze superficiali che scavano esse stesse nella crisi senza prospettare altro che miti illusori.
“Divide frequenter” esortava san Tommaso: davanti a ogni problema distingui, analizza, separa fin dove ti è possibile, giudica partitamente sui diversi profili. Giornali e televisioni nostrane non seguono da tempo questa massima al punto da essere i principali costruttori di un senso comune antipolitico che rischia ora di far esplodere la fragile democrazia repubblicana. Durante gli anni dello sgoverno berlusconiano i media hanno lanciato una campagna contro “la politica” tutta e i partiti tutti sono stati denunciati come appartenenti a una casta da smantellare. L’ingrediente principe di una rivoluzione passiva. Dopo le elezioni, si sono lanciati a capofitto nel gossip delle trattative occulte e dei tradimenti, dove ogni posizione è uguale all’altra: tutto è legittimo, ogni pretesa vale l’altra, il passato non conta. Chi ha sgovernato è colpevole; chi ha perso le elezioni non è stato capace di interpretare i “processi”, e dunque è colpevole anche lui, con in più un peccato di ingenuità nella manutenzione della comunicazione politica.
In questo contesto il tentativo di Bersani è stato appiattito sulle grida della destra, sulle manovrette dei piccoli e sulle parolacce di Grillo. Non può non stupire la generale considerazione di questo tentativo solo in termini di possibilità di riuscita. Il CRS ha sostenuto con forza che la rappresentanza politica non è solo la somma registrata delle preferenze dei cittadini, ma è la indicazione di un dover essere della società “resa presente” davanti ai cittadini dai soggetti politici organizzati. Se si toglie quest’aspetto della mediazione politica resta solo la lotta tra i branchi. Ma proprio questo processo di ricostruzione di una trama di condivisione civica con i soggetti del pluralismo politico e sociale è ciò che viene negato: l’idea che il punto di partenza per sfidare la crisi e le marginalità sia un’idea di società giusta, e un’idea di politica aperta al sostegno che la società chiede (l’idea che Bersani impersona) viene dileggiata.
Con l’avversione al tentativo di riconnettere società e istituti della rappresentanza si dimostra la falsità delle critiche che venivano mosse “alla” politica, incapace di prendersi cura della società e ripiegata solo su se stessa. Ciò che chiedono a gran voce i realisti per i quali dinanzi all’onda populista occorreva assumerne il lessico e la simbologia dandogli un segno appena diverso è un ritorno a quella politica, che la rivoluzione passiva innescata (e che poi ha oltrepassato il limite) voleva in realtà rafforzare. Nelle pagine successive le lacrime di coccodrillo sui senza lavoro. La restituzione di una soggettività politica al lavoro e la ricostruzione di una democrazia costituzionale sono percorsi intrecciati.
Il voto di febbraio che avvicina il sistema all’ingovernabilità censura la risposta alla crisi offerta con strane maggioranze prive di coerenza programmatica e smentisce le ritornanti velleità di normalizzare la sospensione della disputa ideale e politica con riedizioni frequenti di governi tecnici votati all’immobilismo o alla forzatura di consolidate pratiche di coesione sociale. Le scarne indicazioni della costituzione sul processo che conduce alla formazione di un governo non possono essere assunte come una apertura illimitata di circuiti fiduciari alternativi a quelli parlamentari e di partito. Il fatto che la Costituzione consapevolmente non richieda la maggioranza assoluta per l’approvazione della mozione di fiducia – e la chiarezza del dato scritto rende inutili complesse cautelosità – deve valere piuttosto come una opportunità offerta al sistema politico di aggirare le sue giunture critiche più gravi ricorrendo a quei governi di minoranza che solo in aula trovano la verifica del sostegno e che comunque sono la fisiologia per tante altre esperienze costituzionali (non solo europee).

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