L'ange du foyer - Max Ernst
L’ange du foyer – Max Ernst

Verso la fine del primo giorno di audizioni della commissione senatoriale sull’11 settembre tenutasi in una scuola del Greenwich Village, fu chiesto a Nicholas Scoppetta, capo del dipartimento dei vigili del fuoco, di immaginare un ipotetico attacco terrorista contro New York. Come avrebbe risposto il suo dipartimento se i terroristi avessero messo a fuoco un grattacielo dal trentesimo piano in su? Scoppetta prese tempo, parlò della necessità di im-pedire a chiunque di salire ai piani superiori, poi di fare periodici aggiorna-menti sulle modalità di evacuazione ed infine ammise che quella era davvero una gran bella sfida. Ma la risposta venne ritenuta sin troppo vaga da uno dei commissari, Timothy Roemer, il quale gli chiese: «Perché il dipartimento non acquista degli elicotteri per salvare la gente sui tetti?». E, ridendo, Scoppetta gli rispose: «Buona idea, signore. Dove si firma per chiederne uno?».

Leggere il rapporto finale della Commissione senatoriale bipartisan (2004) sull’11 settembre aiuta a comprendere meglio le difficoltà nell’organizzazione di una risposta ad un attacco terrorista, soprattutto quando i suoi obiettivi sono molteplici e non è facile localizzarli in anticipo. Scopo principale di una minaccia di questo tipo, scrive Charles Townshend (2004), è il «disorientamento», la dimostrazione cioè che il regime politico in carica non è in grado di garantire l’ordine pubblico e che la struttura sociale è in pericolo. E le conclu-sioni della commissione lo confermano: la struttura dell’intelligence americana non era affatto pronta a prevenire gli attacchi alle Torri gemelle. Tutte le soluzioni per prevenire altri attacchi sono empiriche, lasciano cioè spazio all’immaginazione dei singoli ma difficilmente riescono a inventare un sistema capace di prevenire la minaccia.

Lo stato d’eccezione

Scritto in un linguaggio fluido, non burocratico, attento alla ricostruzione dei fatti quo ante l’11 settembre, ricco di raccomandazioni al governo per adottare una politica di prevenzione più coerente ed organizzata, il rapporto è integralmente pervaso da un elemento perturbante: dopo il crollo delle torri è cambiata un’epoca, la nostra storia non è più come prima. E non vivremo mai più in pace. Da tre anni è insomma avvenuto un cambiamento della realtà: l’ordine tra normalità ed eccezione è stato rovesciato. Si vive in emergenza e tutto può accadere. In queste condizioni la prevenzione è molto problematica perché la riorganizzazione delle quindici agenzie che si dedicano all’intelligence, l’incremento del loro budget (il Dipartimento della difesa ne assorbe l’80 per cento, mentre la Cia solo il 12), la loro ridefinizione in termini militari (la Cia deve poter condurre anche operazioni militari e non solo di intelligence) è costosa. La creazione di un ministero ad hoc per l’antiterrorismo rischia inoltre di creare un concorrente del segretario della difesa, insidiando persino il ruolo del national security adviser nella gestione della sicurezza interna, e non risolve affatto la storica competizione tra Fbi e Cia di cui si consiglia una riforma sul modello del servizio segreto inglese dell’MI5 e MI6.

I costi di una prevenzione integrale rappresentano la prima ragione per cui molti commentatori dubitano della realizzabilità di molte delle proposte della commissione (ad esempio, Richard Posner sul New York Times del 29 agosto 2004). Ne era a conoscenza anche l’ex segretario del Tesoro O’Neill, poi di-messosi, contrario all’invasione dell’Iraq perché si trattava di una decisione insensata rispetto ai seri problemi economici che pone la riforma di un sistema di prevenzione anti-terrorista. Sintomatico è il dialogo avvenuto il 4 settembre 2002 con il presidente Bush, raccontato da Ron Suskind (2004). O’Neill mostrò a Bush i conti dei dieci anni a venire. Il costo dei tagli sarebbe stato di circa 400 miliardi di dollari e avrebbe portato via una fetta del bilancio, tutta spesa in disavanzo. «Se avessimo fondi sufficienti per gestirlo – disse O’Neill – sarebbe un cambiamento strutturale positivo del sistema fiscale. Ma al momento quei soldi non li abbiamo». Era meglio, quindi, occuparsi della «sicu-rezza interna» e della «ricostruzione» in Afghanistan, evitando di invadere l’Iraq. Bush sembrava annuire ad ogni passaggio e pensava ad altro: mettere in una tagliola la testa di Saddam Hussein il 12 settembre successivo davanti all’assemblea dell’Onu. Non diversamente da O’Neill, anche la commissione segnala la necessità di investire maggiori risorse nelle politiche di sviluppo economico nell’ambito di una strategia anti-terrorismo. Ma la presenza americana in Afghanistan è limitata esclusivamente agli aspetti militari e alla sicurezza impedendo così una distribuzione delle risorse alle agenzie adibite a questo scopo.

La necessità di fornire una valutazione oggettiva, e politicamente neutrale, delle politiche antiterrorismo dell’amministrazione Bush impedisce alla commissione di formulare delle critiche alle sue velleità di nation-building nell’area mediorientale, per non parlare delle sue politiche di investimento di risorse, tutte focalizzate sull’aumento delle spese militari: dal 2001 ad oggi, in-fatti, l’aumento è stato del 50 per cento, da 354 a 547 miliardi di dollari. Questa spesa sfiora soltanto gli aspetti della «sicurezza interna» come quello di un maggiore controllo dell’immigrazione clandestina (almeno 9 milioni di persone), la necessità di assegnare una sorveglianza armata sui voli interni di linea (i costi sarebbero altissimi). Il 90 per cento dei 5,3 miliardi di dollari stanziati dalla Transportation Security Administration sono stati utilizzati per combattere l’ultima guerra, mentre rimangono ancora molte falle nel sistema di trasporto aereo, marittimo e terrestre perché non esiste ancora un piano di coordinamento federale.

L’indefinibilità della minaccia rende vulnerabile qualsiasi sistema di difesa, anche quello finanziato con ingenti risorse. La sua natura fantasmatica obbliga chi deve difendersi a votarsi ad una politica di prevenzione totalizzante che può arrivare a modificare la vita civile, l’urbanistica delle città, l’educazione linguistica della popolazione – l’arabo e il farsi devono essere studiati nelle università per «comprendere il mondo musulmano». L’idea è chiara: estendere il conflitto con i potenziali terroristi sin dentro le fibre stesse della società minacciata, allargare lo spettro delle conoscenze – compresa quella della lingua dell’«altro» – alla popolazione, portarla cioè sullo stesso lato della barricata del governo. Avviare in altre parole «una guerra ideologica» sul modello della guerra fredda finanziando i media, fondazioni e scuole nel «mondo musulmano» per combattere l’islamismo radicale dei seguaci di Bin Laden, allargando allo stesso tempo i contrafforti della «difesa militare» tra i civili socializzando l’immagine del nemico.

L’offensiva ideologica neocon

Questa guerra ideologica è iniziata all’indomani dell’11 settembre quando la Casa bianca ha individuato una soluzione non difensiva alla minaccia terrorista. Tra i primi ad averla teorizzata è stato il neocon Robert Kagan, il quale, con un cortocircuito storico, ha usato un’esca a cui molti intellettuali europei hanno abboccato: lo spettro della conferenza di Monaco 1938, quando le potenze europee capitolarono senza colpo ferire davanti alla minaccia di Hitler, lasciandolo libero di invadere la Cecoslovacchia e poi di iniziare la guerra. Chi ammonisce gli europei e gli americani a non ripetere più lo stesso errore di viltà con i terroristi islamici compie tuttavia un errore storico: contro chi dovrebbero combattere gli europei? Non certo contro uno stato che minaccia di occupare i loro confini. È una strategia sottile, ispirata ad una logica binaria, o con noi o contro di noi, che spinge inevitabilmente a schierarsi, a farsi partigiani dello stato e ad entrare in guerra per difendere i propri «valori» e la propria «civiltà».

La guerra ideologica teorizzata anche dalla commissione ha dunque un preciso effetto all’interno: condizionare a tal punto l’«opinione pubblica» da dare un effetto di realtà ad una minaccia che per sua natura è invece generica. Questo è il fondamento della cosiddetta guerra al terrore, l’idea cioè che esiste un nemico capace di colpire ovunque e senza sosta. Ed è per questa ragione che deve essere annientato. Ciò pone allo stato un’alternativa difficile: considerare il terrorista un «nemico politico» oppure un inimicus, un semplice bandito, fargli la guerra oppure limitarsi agli strumenti leciti in tempo di pace.

In questa ottica è evidente che entrambe le parti siano indotte a irrigidire proporzionalmente le loro reazioni. Le risposte più atroci del terrorismo sono semplicemente il riflesso di un atteggiamento dello stato contro di esso. Questa asimmetria si allarga anche a quella tra i mezzi (enormi, spropositati e spesso crudeli) e gli scopi (remoti, se non proprio irrealizzabili) sia del terrorismo, sia degli stati, confondendo i confini tra pace e guerra e, soprattutto, il principio di proporzionalità della reazione sulla quale si regge il criterio stesso della legittimità di uno stato democratico. Le guerre in Afghanistan e in Iraq sono il risultato della crisi verticale della politica del «giusto mezzo» che ha moltiplicato la violenza a livello globale.

Ma di tutto questo ci sono pochi cenni nella relazione della commissione. Il suo scopo sta nell’individuare gli antidoti, non le cause del caos. La reazione non è quella di interrogarsi su un nemico molto intelligente che ha sferrato un attacco mortale, ma quella di chiedersi che cosa non ha funzionato nell’apparato della sicurezza interna. Come se, risolvendo tutte le falle del sistema, sia possibile difendersi da qualsiasi minaccia politica la cui natura rimane tuttavia oscura ed imprevedibile.

Due violenze allo specchio

La terribile messe di morti nella scuola di Beslan in Cecenia ha suscitato almeno due reazioni diverse: la prima è la testimonianza dell’impotenza davanti alla morte dei bambini che ha spinto ad imponenti manifestazioni in numerose città europee, tra cui Roma. Davanti ad una violenza che non può essere giustificata in termini umani viene naturale ricorrere al concetto di «male», un concetto che torna utile per nominare una sofferenza indicibile. È la stessa reazione di Ivan Karamazov che interrogava il fratello Alioscia sul problema fondamentale della teodicea: «Perché il male?» – Perché dio non fa nulla per allontanare il male dai bambini?

La seconda reazione è meno emotiva, gronda vendetta e ragion di stato. Contro questo terrorismo disumano è necessaria la fermezza: «Mai più deboli contro questa ferocia» ha detto Putin, subito ripreso da tutti quei capi di stato che si sentono parte della guerra contro il terrorismo, non importa se d’impronta nazionalistica o globale, non importa se schierati, usando le parole di Benjamin Barber, per il Mcmondo contro la jihad globale. Le loro intenzioni sono chiare: non fare prigionieri, sradicare le cause del terrorismo occultandone le origini sociali e politiche, rifiuto intransigente di ogni dialogo o negoziato, decidere misure preventive e sanzionatorie che includano la tortura, l’assassinio, le rappresaglie collettive, la distruzione delle case dei parenti degli attentatori suicidi sino alla guerra. È la tesi aberrante sostenuta in un libro di Alan Dershowitz (2003), ma non del tutto estranea alla reazione di Putin, che non considera una semplice verità: la violenza statale moltiplica il terrorismo, lo alimenta con sentimenti di odio e di vendetta, distrugge ogni umanità nella reazione, sino al punto da indurlo a progettare attentati sempre più sanguinosi. La risposta al terrorismo non può avvenire sul terreno della logica di potenza.

Questo sostiene Luigi Bonanate (2004) nel suo attualissimo volume La politica internazionale tra terrorismo e guerra. Guardati sine ira ac studio, sospendendo cioè ogni valutazione morale per amore di argomento, i kamikaze ceceni, palestinesi e wahabiti di Al Qaeda sanno con certezza che dalle loro azioni atroci non discenderà una vittoria politica. La loro intenzione è invece quella di dire ai potenti: possiamo colpirvi dovunque, e senza tregua, nessuno dei vostri elettori si sentirà mai al sicuro. E presuppone un conflitto senza fine, anche perché non hanno i mezzi (militari ed economici) per abbattere gli stati.

Se questo è vero, la jihad ad uso e consumo di Bin Laden, o di chi per lui, ha già vinto. La spirale della violenza innestata a livello globale dall’intervento armato in Afghanistan e in Iraq ha installato l’idea di un conflitto indeterminato, aggiungendogli un orrendo principio di proporzionalità: ad un’azione efferata dei terroristi ci sarà una reazione statale altrettanto violenta. In quale altro modo, sostiene Bonanate, si può considerare la strategia teorizzata da Donald Rumsfeld, il segretario della difesa americana, dello shock and awe, colpisci e terrorizza, se non some «una nuova forma di terrorismo» statale, «puro e totalitario abbandono alla violenza»? Questa strategia rivela la menzogna di ogni discorso sulla «violenza mirata» contro i terroristi, quell’idea cioè che tale violenza statale derivi da un uso consapevole della loro forza contro un nemico non statale. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: l’Iraq lacerato da una serie di conflitti sovrapposti (guerra civile, di resi-stenza, di guerriglia, oltre che faide tribali e criminalità comune), mentre il conflitto tra la Russia e gli indipendentisti ceceni è diventato un tritacarne di uomini e donne di ogni età.

La guerra al terrore di Bush, Blair e Putin può essere tuttavia considerata coma la forma della violenza statale in un tempo di pace, nonostante i tentativi di mobilitare interi popoli nella loro guerra infinita. È una forma paradossale che gli consente di condurre una guerra nell’illegalità internazionale, senza cioè che ci sia una guerra dichiarata tra stati autorizzata nel rispetto del diritto internazionale. E il paradosso è ampiamente comprensibile: gli stati non dichiarano un nemico individuale contro il quale non è possibile fare guerra, semmai delle rappresaglie. Inoltre perché non possono sospendere legittimamente il loro patrimonio costituzionale più importante: la difesa, e la garanzia, dei diritti individuali, quindi anche quelli dei nemici, se non proprio in caso di una guerra totale e senza regole.

Il terrorismo è l’occasione storica che ripresenta puntualmente il rimosso delle democrazie sotto ogni latitudine. Quando esso appare, infatti, la democrazia si ritira spingendo gli stati ad abbracciare la violenza. Il terrorismo invece non si sconfigge con la guerra, né la guerra con il terrorismo. E, forse, nemmeno interrogandosi sulla natura del «male».

I neolib: guerre sante al servizio della democrazia

I neoconservatori li conoscevamo. Ecco a voi i neoliberali. Entrambi credono che quella in Iraq sia «una guerra per la democrazia» perché, citando Woodrow Wilson, vogliono «rendere il mondo più sicuro per la democrazia». Si sentono liberali, sia nel senso filosofico, sia in quello specifico americano e di sinistra. E assomigliano come una goccia d’acqua ai cugini oggi politicamente più fortunati. «L’America non potrà vincere la guerra contro il terrorismo – scrivono Richard Asmus e Kenneth Pollack, già consiglieri dell’amministrazione Clinton – se non attribuendo un ruolo centrale ai valori e ai principi del mondo occidentale».

Ciò giustifica l’idea che quella attuale sia una guerra democratica contro le idee totalitarie che i «terroristi» vogliono imporre in Iraq. Michael Tomasky, editorialista del New York Magazine, sostiene che questo non significa rincorrere la destra sul suo stesso terreno, ma «adattarsi al mondo così com’è». La parentela evidente, anche se sdegnosamente rifiutata, degli argomenti per metà realistici e per l’altra metà idealistici dei neoliberali con quelli dei neoconservatori la si può leggere nel manifesto Per cosa combattiamo dell’Istituto per i valori americani, sottoscritto nel 2002 da sessanta intellettuali, tra cui Samuel Huntington, Francis Fukuyama e Michael Walzer. Qui i «valori americani» non appartengono solo agli Stati Uniti, ma rappresentano l’eredità condivisa dell’umanità e quindi la speranza per una comunità mondiale basata sulla convivenza pacifica. Una legge naturale rivendicata anche da sinistra, ha commentato maliziosamente il neoconservatore Robert Kagan, quando si è trattato di bombardare la Jugoslavia, il Sudan o l’Iraq durante l’amministrazione Clinton.

Il dibattito sulla guerra per la democrazia in Medio oriente non tocca quindi soltanto la destra, ma scuote profondamente la sinistra americana, sino al punto che i neoliberali arrivano ad usarne gli stessi argomenti interventisti. In Berman 2004 la guerra al terrorismo in nome dei valori democratici diventa una guerra contro il fascismo, rappresentato in Medio oriente dal partito Baath in Iraq e in Siria e dal regime khomeinista iraniano. L’equazione fondamenta-lista islamico = fascista allude all’idea di un soggetto «nemico della civiltà» da rinchiudere a Guantanamo o da uccidere a Falluja e si rispecchia perfettamente nella dottrina della National Security di Bush (sarebbe comunque interessante sapere l’opinione di Berman sulle torture praticate da soldati americani nella prigione irachena di Abu Ghraib, visto che hanno provocato reazio-ni negative nella destra neoconservatrice, ma sopratutto nell’opinione pubblica liberal che pure aveva appoggiato la reazione militare americana dopo l’11 settembre).

Il padre nobile del liberalismo americano, John Rawls, ha scritto pagine alquanto sorprendenti, ma utili per capire la natura dell’equazione. Nel volume Il diritto dei popoli (Rawls 2001), egli ha compiuto una distinzione, a dir poco problematica, tra «popoli liberali», occidentali, e «popoli non liberali», o «indecenti», in particolar modo mediorientali, che non riconoscono i diritti fondamentali dell’individuo. Ciò che rivela, ad un tempo, la natura cosmopolita e neocoloniale della società mondiale liberale descritta da Ralws, e ripresa nelle sue linee fondamentali da Berman, è l’idea che i popoli liberali debbano «tol-lerare» i popoli «non liberali», a condizione che rispettino i trattati internazionali, che non scatenino una guerra offensiva, onorino i diritti umani.

Qualora questi ultimi appoggino reti terroristiche, gli stati occidentali hanno il «diritto di intervenire» e abbattere gli «stati fuorilegge», sospendendo l’ordine internazionale. La loro non sarebbe una guerra di aggressione, ma una guerra giusta per raggiungere la pace duratura tra i popoli. Come la «guerra antifascista» teorizzata da Berman che permette di annientare il nemico della civiltà proprio perché è «indecente», in altre parole al di fuori dei confini dell’umanità sanciti dalla razionalità politica occidentale. E, non diversamente da Walzer 1990, invocando l’«emergenza suprema», Berman auspica l’adozione di qualunque mezzo di distruzione preventiva del terrorismo in quanto nemico assoluto.

La guerra contro il terrorismo è dunque una guerra «ideale» in nome della quale la sinistra liberale deve liberarsi del suo veterorelativismo culturale. A parere di Berman, infatti, non è possibile accettare l’idea che gli arabi vivano volontariamente sotto dittature grottesche e non siano capaci di immaginare un altro tipo di regime politico. In questo senso il liberalismo americano si distanzia da quello europeo: la democrazia è un istinto naturale che, se non riconosciuto, deve essere prima imposto dai suoi legittimi rappresentanti occidentali al di là di ogni differenza culturale e, poi, compreso da parte di quei popoli che non l’hanno ancora riconosciuta come regime naturale. L’intera storia del novecento, aggiunge Berman, è la storia della lotta contro i «nemici acerrimi» del liberalismo. Ma questo neoliberale sembra ignorare che il liberalismo ha impugnato la teologia secolare della guerra contro il «Male assolu-to» per imporre l’idea di una democrazia armata a difesa dei suoi stessi valori improntati alla tolleranza e alle libertà.

L’ottica di Berman è quella di un’idea puramente strumentale del diritto internazionale che non può esistere se non in funzione di una guerra per la democrazia, come quella contro il nazismo e il comunismo. La guerra al fonda-mentalismo è una sua variazione estesa ai paesi arabi. Il fondamentalismo islamico sarebbe nato dalle letture un po’ pasticciate che i fondatori del panarabismo, al-Husri, dei Fratelli musulmani, Hasan al-Bann, insieme allo scritto-re egiziano Sayyd Quob, fecero della filosofia di Marx, insieme a quelle etno-nazionalistiche di Fichte, che sarebbero alla base del «totalitarismo comunista e fascista».

Anche il «socialismo» del Baath troverebbe ispirazione nel nazi-fascismo, il quale si coniugherebbe con la teocrazia islamica rivendicata da Khomeini e dai whaabiti sauditi di Osama Bin Laden. Per queste ragioni, a dire il vero piuttosto imperscrutabili, la ricorrente analogia tra Saddam Hussein e Hitler, uno scioglilingua funzionale alla rappresentazione del nuovo nemico assoluto della civiltà occidentale dopo Miloševi?, usata disinvoltamente nelle con-ferenze stampa del presidente Bush, non sarebbe del tutto estranea alle armi retoriche usate dal liberalismo politico contro Stalin durante la guerra fred-da.

Giungiamo così ad una conclusione paradossale: la garanzia militare dell’universalismo dei diritti umani coincide con l’eversione del diritto internazionale e l’imposizione di uno stato di eccezione permanente globale. Una soluzione che ricorda quella del despota di Montesquieu il quale, desiderando mangiare una mela (sconfiggere il terrorismo) decise di abbattere l’intero albero (la giustizia internazionale).

Folgorati sulla terza via del riformismo debole: i neoprog

Si chiamano prog, neoprog. Per chi in Italia rimpiange un mezzo di trasporto più veloce del triciclo, meno infantile del girotondo, ugualmente avveniristico della lista unica, può consolarsi scegliendo questo acronimo per definirsi neoprogressista. Il neoprog è ciò che negli anni novanta era noto per socialismo della «terza via», i liberali e moderati di sinistra che partecipavano al tavolo dell’Ulivo mondiale con Clinton e Blair, prima che quest’ultimo lasciasse la coperta di Linus e indossasse l’elmetto.

Un neoprog è l’anima bella che difende i diritti fondamentali dei popoli con la guerra umanitaria, ma rifiuta la guerra preventiva in Iraq teorizzata da Donald Rumsfeld o Paul Wolfowitz, i superfalchi neoconservatori che da quattro anni tengono in ostaggio l’inquilino della Stanza ovale. Un neoprog vive nell’economia del tavolo della cucina: lavoro, salari, educazione, salute e pensioni, quelle cose di cui i genitori parlano in cucina quando i bambini sono andati a dormire, pensando ai prestiti che dovranno chiedere alle banche per mandare il rampollo all’università o ai loro fondi pensione che hanno perso metà del valore negli ultimi anni.

Per chi fosse interessato ad una sinistra politicamente pragmatica, disposta a discutere pacatamente sulla responsabilità che oggi il potere imperiale americano dovrebbe sostenere insieme all’Onu e alla Nato per governare gli indisciplinati popoli mediorientali, non ancora appassionati allo sport della democrazia liberale, può leggere i contributi raccolti in un volume curato da Roberto Festa (2004).
In questa antologia, il neoprogressismo è una felice definizione editoriale, ma politicamente a dir poco astrusa, che raccoglie un arco molteplice di forze che va dalla sinistra moderata di Michael Walzer (2004) a quella radicale dei rapper del Queens (Chuck D 2004), passando dagli ecologisti antinuclearisti (Schell 2004) e lo storico sociale del movimento operaio Howard Zinn (2004). Difficile riannodare i fili di questa nebulosa teorica e politica che da una parte rivendica il ruolo imperiale degli Stati Uniti e dall’altra invoca le Black Panters, Malcom X e la nazione islamica per l’autodeterminazione della comunità nera. Non è affatto detto che i liberal e i radical americani condividano oggi la stessa piattaforma politica, se non quella dell’Anyone but Bush, chiunque ma non Bush alla presidenza Usa, un po’ poco per estendere il progressismo ai saperi critici e ai movimenti antisistema.

In realtà il neoprog è un club politico esclusivo che poco o nulla vuole avere in comune con i radical di sinistra. È una specie politica che si è affermata già da alcuni anni nella scala dell’evoluzione del riformismo socialista, preferisce assumere il sussiego del professore universitario lib-lab piuttosto che quello del militante, aspira al ministero del culto del welfare delle opportunità e della società dell’accesso, pallida versione di una società ferocemente classista, forgiata nella legge della precarietà, un po’ come l’Italia dopo il pacchetto Treu e la legge Biagi.

Un giro di giostra a bordo della navicella neoprog potrebbe tuttavia deludere il pubblico pagante, forse desideroso di nuove e rischiose sperimentazioni dopo anni di restaurazione conservatrice. L’inveterata abitudine di stigmatizzare la sinistra critica, rappresentata dal radicalismo di vecchi e giovani leoni come Noam Chomski, Gore Vidal o Michael Moore, e l’attrazione per un programma politico moderato e neocentrista potrà forse tranquillizzare i riformisti di casa nostra, ma calerà definitivamente il sipario sugli errori compiuti da quella sinistra che ha esplorato il pianeta del centrismo mondiale alla fine degli anni novanta.

Torniamo al piccolo mondo antico, sembra dire Walzer nel suo saggio, per rimediare alla drammatica crisi di consenso dell’egemonia americana. L’America non può pensare di dominare il mondo attraverso il superimperialismo di George Bush, ma deve puntare sul consenso del suo potere mondiale e su una classe dirigente che non usa soltanto la forza militare, ma anche la governance economica per ridistribuire le risorse sul mercato mondiale. Siamo un «Impero» che deve regolare pacificamente i conflitti, non moltiplicarli creando nuove occasioni di essere colpito mortalmente. È la tesi dell’Impero light proposta recentemente da Michael Ignatieff che riprende nei suoi termini essenziali il clintonismo e le parole d’ordine dell’idealismo wilsoniano: il libero mercato, i diritti umani e la colonizzazione culturale.

Riproporre gli anni novanta, il tempo della retorica sui diritti umani e le pari opportunità dei popoli sul mercato mondiale, l’apologia del lavoro flessibile e delle pensioni fai-da-te, un improbabile New Deal mondiale che nascondeva i grotteschi squilibri lasciati in eredità dalla vittoria americana nella guerra fredda e dall’aggressione neoliberista ai diritti sociali del welfare state europeo? Il programma neoprog la dice molto sull’ampiezza di vedute e sulla capacità analitica di questa «nuova» sinistra.

Anche l’idea di una maggiore cooperazione nella risoluzione dei conflitti internazionali, tesi diffusa anche tra i pacifisti no-neoprog, e riproposta da Jonathan Schell (2004), tradisce la realtà dei fatti. L’idea del candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti John Kerry di inviare le forze della Nato in Iraq, per rispedire a casa almeno 20.000 soldati americani, aggira il problema dell’illegalità della guerra ed accetta la presenza americana sul terreno come un fatto compiuto. Lungi dal contestare l’esistenza di un’organizzazione come la Nato dopo la fine della guerra fredda, a dispetto di ogni logica di riappacificazione con i membri dell’Unione europea che hanno osteggiato la guerra unilaterale contro l’Iraq e più recentemente l’invio delle truppe Nato in Iraq, Kerry ha continuato a ragionare sull’opzione multilateralista all’interno del consolidamento dell’egemonia americana.

Nella famiglia neoprog è probabilmente il ceppo inglese ad avere le idee più chiare sul senso della propria missione imperiale. E non da oggi. Com-pendio ideale dell’antologia einaudiana è un volume curato da Anthony Giddens, inesauribile coniatore di parole d’ordine del laburismo blairiano (Giddens 2003), che raccoglie le migliori performance della new wave progressista insulare: il multilateralismo non esclude l’uso della forza contro i regimi mi-nacciosi per la sicurezza internazionale, ma ha un ruolo determinante nella promozione della cooperazione globale e della pace.

Ma un’antologia ideale sul neoprog-pensiero non può certo rinunciare ad un articolo di Robert Cooper (2002), uno dei consiglieri di Blair per la politica estera, intitolato significativamente «Il nuovo imperialismo liberale». La guer-ra preventiva non è del tutto inconciliabile con una cornice multilaterale, sostiene Cooper. Non diversamente dal XIX secolo, nelle attuali relazioni inter-nazionali vige la legge della giungla che impone ai paesi dell’occidente capitalistico di mantenere ancora a lungo il monopolio della forza. È una questione di civiltà: Stati Uniti ed Unione europea sono le nuove forme di una sovranità «postmoderna» che garantisce i diritti fondamentali degli individui a livello transnazionale, mentre il resto del mondo ragiona ancora con i criteri moderni dell’interesse nazionale che spesso contrastano con i principi demo-cratici della società civile internazionale.

Il compito dei postmoderni wasp cristiani con accento texano o oxfordiano rievoca il «fardello dell’uomo bianco» che Rudyard Kypling attribuiva alle teste coronate dell’impero inglese: portare la democrazia liberale nei territori coloniali non diversamente da quanto oggi accade, con pochi successi per il momento, in Afghanistan con Karzai e in Iraq con Allawi. La guerra per la democrazia ha un grande futuro. Quello anteriore.

Quando si ha il diritto di fare la guerra?

Londra chiama. Ma a Washington qualcuno ha già risposto. È uno strano connubio, quello tra laburisti inglesi e neoconservatori americani. In realtà si tratta di piccole minoranze intellettuali che hanno una virtù particolare: spadroneggiare sul mercato delle idee e dare la tremenda impressione di avere sempre ragione. Ciò non vuol dire che la loro posizione sia quella di consiglieri del principe e che i loro presunti consigli si traducano immediatamente in decisioni politiche. Forse. A dispetto di alcune insospettabili alleanze, ristrette a circoli che solo da qualche tempo hanno preso voce, e peso sugli scaffali delle librerie, qualcosa in effetti tra gli europei e gli Stati Uniti è cambiato. In meglio o in peggio? Non è questa la domanda giusta, il cambiamento è avvenuto nell’ordine delle loro relazioni geopolitiche: gli Stati Uniti si sono trovati ad essere in un mondo unipolare l’unico potere politico in un mondo condannato al caos. E hanno scoperto che la loro autorità riscuote sempre meno consensi, in altre parole, è in crisi di legittimità.

Lo sostiene Robert Kagan (2004) nel suo Il diritto di fare la guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità. Un titolo, quello italiano, che non rende giustizia di quello originale, a dir poco più ponderato, American Power and the Crisis of Legitimacy, ma che può essere considerato come il riflesso condizionato proveniente da un dibattito nazionale tanto virulento quanto significativo: cosa devono fare le democrazie se vengono attaccate? E sono soggette alla subdola minaccia del terrorismo? Prendersi, anzi riprendersi, il diritto di fare la guerra, visto che hanno un intero magazzino di armi ideologiche, non ultima la teologia della guerra giusta, capace di mobilitare infiniti titoli in prima pagina, oltre che la sorprendente capacità di giustificare un discorso che già in partenza si pretende autoevidente.

Rispetto all’argomentazione di Paradiso e potere, il pamphlet schematico e in fondo brutale con cui Kagan ha conquistato nel 2003 la fama mondiale, questo libercolo parte da un assunto un po’ più meditato: alla caduta del Muro di Berlino l’Europa non si è solo sorpresa ad indossare le vesti di Venere, amante dell’amore e della pace e non della guerra e del conflitto, ma ha iniziato a dubitare della legittimità del potere americano sull’ordine mondiale. Gli europei, in fondo, non credono che il loro paradiso geopolitico possa essere esente dal caos che ha portato un attacco terroristico a colpire il cuore di Manhattan. Argomento impreciso e tendenzioso, naturalmente. La Spagna colpita dall’attacco terroristico dell’11 marzo 2004, altrettanto atroce rispetto a quello dell’11 settembre 2001, ha risposto sposando la linea di Francia e Germania, ritirando tutte le sue truppe dall’Iraq e ponendo un problema di risoluzione multilaterale della questione irachena.

L’esigenza degli europei è piuttosto un’altra, sostiene Kagan: chi deve ri-coprire il ruolo di sorveglianza dei sorveglianti (dell’ordine mondiale)? È una domanda pericolosa, sostiene Kagan: per gli europei, innanzitutto, che non capiscono affatto la minaccia del terrorismo e delle armi di distruzione di massa (anche se non necessariamente in quest’ordine e trascurando anche il fatto che l’uno non è la precondizione delle altre com’è stato dimostrato nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein). Per gli americani, poi, questa domanda è addirittura devastante: non potere infatti contare sul consenso degli europei, o meglio per essere più precisi, di Francia e Germania, significa affrontare la questione della sicurezza globale da soli, vale a dire con la forza dei loro eserciti. Se gli Stati Uniti, in preda ad un resipiscenza pacifista, do-vessero cedere alle insidie di una simile domanda, ecco che condannerebbero il loro stesso potere al fallimento.

E allora, che fare, visto che da una parte gli americani non sembrano avere intenzione di mantenere all’estero le loro truppe, pagando tutte le spese e rinunciando ai dividendi di una flebile ripresa economica, e dall’altra la Francia non ha proprio l’aria di volere cambiare idea e anche la Germania, pur senza Schröeder dopo il 2006, avrebbe delle difficoltà a rinnegare il suo asse con Parigi? Kagan non trova una risposta alla sua domanda. Si limita a consigliare gli europei a ricorrere a ben altri «principi liberali» che non siano il «multilateralismo», cioè la ricerca del consenso nell’uso della forza per non vedere nel prossimo futuro la loro ricchezza, e sicurezza, minacciate da potenze – la Cina, è evidente – che fanno della competizione egemonica il loro scopo, e la negazione dei diritti fondamentali il loro mezzo.

Un’alternativa del tutto pretestuosa, è chiaro, visto che la debolezza di quelli che Kagan chiama «gli europei» è dovuta ad un’accurata operazione politica condotta dalla Casa bianca tra il 2002 e il 2003 nel dividere la «vecchia Europa» dalla «nuova Europa», spaccando sulla guerra in Iraq alleanze consolidate, quella ad esempio tra Italia, Francia e Germania, e precipitando l’Unione europea in una vera e propria crisi politica di cui non si vede ancora l’uscita. Una debolezza che si spiega non nell’incapacità di usare le armi (gli «europei», poi!), ma con una sconfitta politica dovuta alla grave mancanza di un progetto di politica estera dell’Unione europea incapace di concepirsi come attore politico globale.

La tesi di un’alleanza Europa-America sulle guerre per la democrazia è particolarmente velenosa perché sembra persuasiva, almeno in superficie. Ed è su questa base che anche in Italia ci si meraviglia ancora dell’esito delle elezioni spagnole subito dopo l’attentato dell’11 marzo: «Ma come – si dice – si ritirano dall’Iraq dopo aver subito quell’attacco in patria? Questo significa cedere ai terroristi!» Ed ecco lo scandalo. Il comportamento spagnolo è indice invece di un riconoscimento della minaccia e dell’idea che la guerra sia un formidabile moltiplicatore di terrorismo. Il nuovo premier Zapatero ha così dimostrato di avere compreso che in un conflitto come quello attuale non serve l’uso della forza militare, ma quello della mediazione e della trattativa. Ma si sa che per gli epigoni delle guerre sante in nome della democrazia riconoscere il nemico è un po’ come tradire l’ideale democratico. Salvo poi dimenticare che uno dei principi liberali fondanti della nostra civiltà giuridica è proprio quello della garanzia dei diritti di chi viola la legge. E quindi anche di un «nemico» o presunto tale.

Le strane e molteplici idee sul liberalismo politico dei guerrieri democratici dei nostri tempi derivano da un’idea quantitativa del potere: mettere in-sieme i due blocchi oggi divisi, Europa e America, per ottenere un riequilibrio sulla bilancia della minaccia globale. Kagan è il primo tra gli altri a rivelare la sua debolezza teorica: la minaccia in questione non è mai uniforme, deriva spesso dall’immaginario di chi si sente minacciato e a quel punto non basta più ricorrere alla saldatura di alleanze per impedire che la marea tracimi l’orlo della brocca dentro la quale è stata rinchiusa. L’ingenuità dell’idea per cui il potere sia il risultato di una somma di forze è l’assioma che domina gran parte del pensiero del realismo politico a cui Kagan si richiama opportunisticamente. Ma tale assioma deriva dalla necessità di prevenire il caos secondo un calcolo delle probabilità e non è affatto il tentativo riuscito per cancellare la possibilità stessa del caos. L’idea che un potere onnipotente possa riuscire a farlo, ordinando l’esistenza degli uomini come quella degli eventi, deriva da un’illusione di potenza che si è impadronita anche di Kagan.

Se poi il discorso è soltanto quello di ricorrere ad un principio liberale migliore di quello del «multilateralismo», lo dice lo stesso Kagan nell’ultima pagina, cioè al diritto di fare la guerra contro regimi illiberali e ogni soggetto che minaccia la sicurezza delle democrazie, dovremo cercare di compiere uno sforzo disumano, ma ancora possibile, quello del realismo. Abbandonare cioè una volta per tutte queste semplificazioni e dire che l’uso unilaterale, ed arbitrario, della forza non servirà affatto ad arrestare la crisi di legittimità del potere americano quanto piuttosto ad aumentare il caos da cui esso intende immunizzarsi. A quel punto non è detto che i guerrieri democratici, americani o continentali, del liberalismo politico di guerra ribadiscano che la conquista del consenso non ha bisogno di un progetto che ha nella forza solo l’extrema ratio. Allora saranno forse sempre più convinti che la guerra rimane il vero fondamento della democrazia.

Riferimenti bibliografici

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