(Discorso in memoria di Pietro. Sala Aldo Moro, Camera dei Deputati, 25 ottobre, 2016)
Grazie per la vostra presenza.
E grazie al Centro per la Riforma dello stato, a Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti per questa opportunità (che per me è prima di tutto un privilegio) di riflettere con voi su Pietro Ingrao a poco più di un anno dalla sua scomparsa.
In questi mesi molte cose sono state dette e scritte, ma attorno a una biografia per tanti versi unica molto si era detto e scritto anche negli anni e decenni precedenti.
E al fondo, molto su di sé ha detto e scritto per primo Pietro Ingrao. Lo ha fatto con una incredibile declinazione di generi. Interviste, saggi, articoli, poesie, comizi, memorie. E naturalmente lo ha fatto con i suoi discorsi parlamentari (noi siamo oggi in quella Camera che lui ha frequentato per anni e presieduto nel passaggio forse più violento e drammatico della intera storia repubblicana). Credo si possa dire anche così: esiste una biografia di Ingrao (e ciascuno di noi a modo suo una biografia, corta o lunga, la possiede). Ma esiste anche una bibliografia di Ingrao e su Ingrao, un archivio ricchissimo di opere, testimonianze, parole (e questa, invece, è una dote riservata a pochi).
Naturalmente io mi sono chiesto quale poteva essere una chiave, per quanto parziale, da usare qui con voi oggi nel ricordare l’uomo, l’intellettuale, il militante e dirigente comunista.
E alcuni spunti generosi li ho trovati in uno scritto molto bello dove sono raccolte una serie di riflessioni che Ingrao ha condiviso con Alberto e Maria Luisa Boccia in un dialogo a tappe, scandito in appuntamenti successivi, avviato alla fine del 2009 e proseguito sino all’ estate del 2012.
Dunque a parlare era un uomo anziano che in quelle conversazioni conservava intatta (e dio solo sa se già questo non sia per noi un monito su ciò che stiamo smarrendo), dicevo conservava intatta la potenza della parola. La forza di concetti capaci di tratteggiare i lineamenti di una umanità dolente ma non piegata, e tanto meno arresa. Allora, forse la cosa meno inutile che posso provare a fare è mettermi nella scia di alcuni di questi concetti per capire se e in quale misura parlano anche di noi. O comunque parlano al tempo che ci è dato di attraversare.
Non lo farò – perché non sarebbe onesto – cercando la quota di disputa col presente, e meno che mai con la cronaca. Ma credo che in alcune frasi, e sintesi utilizzate da Ingrao, vi sia una indicazione che merita cogliere. Senza retro pensieri. Ma per la loro acutezza e profondità.
Quindi io seguirei questa traccia. Molto elementare.
Riprenderei alcune frasi che Ingrao condivide in quei dialoghi e ne farei derivare qualche parola di commento.
Può darsi che appaiano come dei flash, anche piuttosto slegati da un filo comune.
Ma al contrario io penso che a volerlo cogliere quel filo esista e possa persino costituire un grammo di certezza in tempi tutt’altro che facili.
*
Ingrao entra alla Camera come deputato nel 1950.
Ma “sceglie” il Parlamento, nel senso di concentrare qui il proprio impegno, qualche anno più tardi: nel 1959.
All’epoca è già un dirigente di primo piano nella rigorosa gerarchia del Pci.
Ha la responsabilità dell’Ufficio di propaganda e siede in una segreteria – quella di Togliatti – che non aveva molto in comune, per influenza e popolarità, con organismi simili sorti molto dopo.
Vuol dire la campagna di Kennedy. Di lì a poco le magliette a strisce del giugno ‘60. Mancano un paio d’anni alla Nota aggiuntiva di La Malfa e alla nascita del primo centrosinistra.
Un’altra epoca.
Ma non è questo il punto, almeno per l’interesse che possiamo avere noi verso quella scelta di un uomo politico – un leader che parla alle piazze, che come pochi sa suscitare l’emozione delle piazze – è che vede nel Parlamento il luogo da dove meglio si poteva capire “ciò che andava maturando”.
Non solo nel Paese. Ma nello Stato: nella sfera delle istituzioni, nel luogo dove si decide. Quello – spiega Ingrao decenni più tardi – era lo spazio dove comprendere in quali forme il potere si distribuiva e si allargava nella società. Lui lo dice così, più o meno, “vado lì perché voglio capire il ruolo effettivo, reale, del Parlamento”. Che poi era il solo modo per comprendere cosa poteva concretamente essere e diventare quella democrazia rappresentativa che era entrata a far parte del disegno storico dei comunisti italiani.
Le forme della democrazia, il ruolo delle autonomie locali e già qui c’è qualcosa che riporta all’attualità.
Cioè fa riflettere che questi titoli non suonerebbero stonati nell’agenda di uno qualunque dei gruppi parlamentari che un piano qui sotto riempiono l’emiciclo dell’Aula.
Nel senso della distanza, del tutto ragionevole, tra l’agenda politica, che viene interamente assorbita dentro il tempo trascorso, e il bisogno contemporaneo di proseguire la ricerca sui punti di forza, e oggi direi soprattutto di fragilità, delle nostre istituzioni.
Insomma, se arrivasse qualcuno a dire adesso: “riapriamo il dossier della scuola media unificata o della nazionalizzazione dell’energia elettrica” l’effetto sarebbe di un certo straniamento. E quello era un pezzo dell’agenda politica del tempo.
Mentre fa riflettere che a quasi sessant’anni di distanza le ragioni che portarono allora uno dei capi comunisti a varcare il portone di questo Palazzo trovino motivo, adesso, di uno scavo tutt’altro che concluso.
Io non credo che questa sia una questione solamente legata alla sopravvivenza di alcuni nodi che non si sono mai veramente sciolti. Leggevo domenica l’editoriale di uno studioso acuto sui limiti persistenti delle specialità regionali che neppure la prossima riforma della Carta mette in discussione.
E del resto sarebbe legittimo ragionare sulla percentuale effettiva di successo del nostro faticoso ordinamento regionalistico.
Ma insisto, non mi pare questo il punto che più colpisce se mettiamo a confronto l’ansia di capire la natura della democrazia nelle istituzioni che interroga Ingrao a fine anni ’50 e i nostri problemi di adesso. E’ altro che colpisce. E in fondo è qualcosa che si può ritrovare in quest’ultimo carteggio provocato da Scalfari e ripreso da Zagrebelsky e altri sul legame tra democrazia e oligarchia. Dice Scalfari: non esiste democrazia che non sia una oligarchia.
E lo motiva con la più ferma ostilità alla retorica della democrazia diretta come approdo di un consenso consapevole.
Non ho titoli per intromettermi. Mi limito a una sottolineatura che è questa.
Tra i diversi filoni della storia d’Italia ce n’è uno che ha certamente avuto un’influenza significativa. Lo si dovrebbe argomentare con altra sostanza. Ma a segnalarlo nella sua vocazione, si può citare il Salvemini del ‘911 che critica duramente crisi e corruzione dei partiti invocando la strada di un governo dei migliori.
E più o meno su quella traccia si muoverà Croce un anno più tardi.
Mentre Einaudi non negherà qualche concessione verso il primo fascismo che egli, da liberale, tende a leggere come risposta, comunque governabile, al disordine sociale del biennio rosso.
Salvemini, Croce, Einaudi: parliamo di monumenti di storia repubblicana. Tutti, certo, hanno rivisto quei giudizi, o parte di essi.
Ma comunque quello è stato – e si potrebbe dire che è tuttora – un filone culturale, una lettura del Paese, con una influenza periodica sulla nostra vicenda storica e politica. La mia è una sintesi molto superficiale.
Ma insomma, l’idea di una nazione che approda tardi alla propria statualità e di un popolo reso storto dai propri vizi – “gobbo” secondo Giolitti – ha alimentato nel tempo l’idea di una élite illuminata che avrebbe dovuto compensare quei ritardi e quelle antiche malattie dell’identità.
Scarso senso dello Stato. Fragile rispetto del diritto e della legalità. Primato assoluto delle lealtà “corte” (famiglia e corporazione) sull’appartenenza a una statualità matura.
Una miscela di sociologia e storia. Con tratti di verità mescolati a diversi luoghi comuni.
Poi però, esiste un altro filone che ha scandito l’evoluzione del Paese.
Un filone che non è meno ambizioso, anzi lo è persino di più.
Ed è l’idea che proprio le radici peculiari del nostro processo unitario chiedessero di investire su una democrazia partecipata. Dove l’aggettivo diviene sostanza. Gobetti, Gramsci, la lotta di Liberazione: profili e pagine che hanno avuto influenza sulla vicenda, tra gli altri, del comunismo italiano e sulla stessa formazione dei suoi esponenti più autorevoli.
Forse profili e pagine che un’influenza hanno avuto anche su quelle parole che Ingrao sceglie per motivare ciò che lo aveva attratto dentro queste Aule e le loro procedure. Il fatto poi che viviamo un tempo segnato – in termini assai più generali – da una divaricazione crescente tra le urne (i luoghi dove di sceglie) e le policy (quelli dove si decide) non fa che accrescere i rischi di un abbandono della via maestra. Ma è appunto su questo pericolo che alcune tra le ultime riflessioni di Ingrao agiscono come una lanterna per chi voglia osservare le cose travalicando almeno in parte il ricatto dell’istante.
Il Parlamento è stato per me il luogo del confronto”, dice Ingrao.
E subito aggiunge, in una lingua che difficilmente si può confondere, “Nell’aula mi trovavo di fronte a “l’altro da me”, ed ero obbligato a interrogarmi, a risolvere nel vivo del confronto, anche aspro, il nodo di fondo che era: quale legge?”. Guardate, non sai se rimpiangere questo modo di concepire l’altro, l’avversario, chi pensa diversamente da te.
O semplicemente invidiare la natura del conflitto politico in un tempo per altro segnato da fratture profonde: ideologiche e culturali, di visione e senso della Storia.
Eppure quella descrizione del Parlamento come sede di una pratica concreta del confronto molto avrebbe da dire e restituire a questo nostro sistema confuso. Nel senso di chiederci quale fosse all’epoca la radice di quella capacità.
O se volete: da dove poteva scaturire una forma così complessa di relazione, in un Paese che si era lasciato alle spalle da pochissimo un tempo che ogni spazio di tolleranza e misura aveva cancellato?
Non fu allora una questione di correttezza o di stile. Ingrao per primo ricorda la durezza dello scontro. E la differenza delle personalità: Scelba non era Dossetti.
Ma credo che la radice di quella prassi nelle istituzioni fosse tutt’uno con la solidità delle culture e delle identità di riferimento. Quei partiti anche in ragione di quella visione partecipata della democrazia avevano un radicamento di popolo. E non dipendevano per la loro sorte né dal destino di una singola personalità, per quanto forte e prestigiosa. Né dalla contingenza degli eventi, per quanto violenti e traumatici.
Cioè esattamente l’opposto della stagione quasi trentennale che abbiamo alle spalle noi e che ha formato le ultime due generazioni che si sono affacciate alla vita e al discorso pubblico dell’Italia e dell’Europa. Con un’aggiunta, ma anch’essa non mi pare un dettaglio. Che quelle culture – Ingrao lo sottolinea – erano anche linguaggio.
Nel senso proprio di una cura della lingua. Erano personalità, spesso carismatiche, che tendenzialmente usavano un lessico e una costruzione del parlato più moderati dei sentimenti che albergavano in una parte larga dei loro elettori. Lo facevano qui dentro, ma lo facevano spesso anche fuori da queste pareti.E non si trattava di mero costume.
Era il frutto di un principio: e cioè che il ruolo di quelle grandi formazioni e culture fosse appunto nell’istradare masse di lavoratori, contadini, donne, giovani lungo il sentiero della democrazia costituzionale e del patto repubblicano.
Non pensavano che la lingua dovesse servire ad incendiare gli animi, ma alla formazione di uno Stato nuovo. Di un nuovo patto, anche istituzionale.
E anche in questo si può dire che l’eredità ricevuta da chi come noi è venuto dopo – per altro eredità tra le più pregiate – sia andata progressivamente dispersa. Su queste basi è più facile, credo, per un ventenne di oggi cogliere la funzione e il peso che il Parlamento ha avuto nella vita politica dell’Italia lungo l’intera seconda metà del ‘900. In fondo era il luogo delle “nuove leggi” che veniva sanando le ferite di un ventennio edificato interamente sul principio dell’illegalità, della violenza: della negazione delle libertà individuali e comuni.
Sino alla pagina più odiosa, le leggi razziali e quella vergogna incisa negli animi. Letta così si capisce meglio perché quel Parlamento, per diverse generazioni, non fu sinonimo di separatezza. O il luogo di una “casta”, concetto per troppi versi osceno. Ora, per la verità allo sguardo già anziano di Ingrao quella lettura non appare inverosimile, nel senso che ne coglie la radice, il sentimento.
Quello che lui contesta, e respinge, è una lettura così semplice di una questione che gli deve sempre essere apparsa nella sua complessità. Che poi è la medesima questione che spinge oggi a interpretare la crisi delle democrazie non come una crisi della governabilità. Ma per quel che davvero è: una crisi della rappresentanza. E di questo si tratta perché in una democrazia è il Parlamento, molto più del governo, a rappresentare la sovranità del popolo. E questa è anche la ragione che fa della legge fondamentale della rappresentanza – la regola di elezione dei parlamentari – un elemento costitutivo del modo di costruire la partecipazione e il consenso.
Se mi permettete una sola parentesi più soggettiva: il tema merita qualche attenzione perché qui si è consumato uno tra i più grandi equivoci della nostra sfinente transizione istituzionale. L’idea, cullata per vent’anni anche in molti contesti della sinistra, che agendo sulle regole – sulla legge elettorale – noi avremmo condizionato, fino a coartarlo, il destino del sistema politico. L’idea che le regole potessero forgiare i partiti. Premessa curiosa che si regge traballante sulle gambe se ti limiti a concepire i partiti come organizzazioni elettorali al servizio permanente di un “capo”. Ma appena torni a considerare la natura dei partiti nella loro matrice storica o nella loro identità, quell’idea per forza di cose tende a smontarsi come un castello di carte. E così è stato, anche se il prezzo pagato si è rivelato altissimo. Con un Parlamento dimidiato nella sua funzione, spento nella sua autorevolezza e destinato sempre di più a sede di ratifica per decisioni assunte altrove.
E’ in questa chiave che Ingrao spiega nella maniera più convincente perché invece quello – il “suo” Parlamento – fu il luogo dove si riaffermò, cito ancora, il “controllo sul potere”. Da parte di chi non aveva mai conosciuto quella dimensione delle istituzioni, e dunque non aveva mai percorso quella strada.
Possiamo immaginare quanto abbia pesato tutto ciò nella passione e concezione della politica di quanti si erano affacciati al mondo durante gli anni della dittatura.
E la Costituzione – lo dico davvero al netto della contingenza di ora – fu il momento preciso nel quale la forza del compromesso, nell’accezione bellissima che ne offre Amos Oz, si impose e mutò radicalmente – e vedete che lì torniamo – il modo di vivere l’avversario.
Dentro questa cornice la ricerca lunga di Ingrao sulla natura della legge (vastissima letteratura) e sul ruolo delle istituzioni assume un valore particolare, soprattutto se misurato all’oggi. Non era la sua una retorica sulla “democrazia” (parola che lui stesso suggerisce di maneggiare con sobrietà).
Il tema è che in lui non è mai prevalsa la volontà, o anche solo l’ipotesi, di ridurre la democrazia a “mera procedura di legittimazione dei governanti”.
Mi permetto di dirlo così: in Ingrao questa ricerca non risponde, per prima cosa, a un bisogno di efficienza, semplificazione. A un problema di costi. E non credo perché egli sottovalutasse ciascuno di quegli aspetti.
Ma perché la biografia di quella generazione e la forza della sua elaborazione personale da subito rende inseparabile la sfera delle istituzioni dalla società per come si esprime, si aggrega, si trasforma. In questo la dinamica del potere non è mai un’entità a sé.
Un corpo scisso. E’ parte di quella “storia in atto” per mutuare la formula di un altro dirigente di quel partito.
E’ il popolo che si organizza e assume su di sé una quota di quel potere, che è prima di tutto il potere di decidere sulla propria vita condizionando fino a stravolgerlo il proprio destino.
Destino individuale, mai davvero separato da quello collettivo.
E così siamo al punto.E cioè che a dare costruzione a questo bisogno – in quello scorcio di storia dell’Italia – sono stati i partiti.
Partiti: senza i quali quella rappresentanza non vi sarebbe stata. Perché solo nella trasparenza delle Assemblee elettive si poteva – ma forse dovremmo dire “si può” – coinvolgere chi è più lontano dal potere nel processo di formazione delle scelte e delle decisioni.
Se quel miracolo non si fosse compiuto, inevitabilmente la stessa vicenda repubblicana avrebbe avuto più marcati i tratti di quella oligarchia che non a caso torna a occupare lo spazio del dibattito teorico nel momento in cui i partiti collassano. O comunque precipitano al minimo storico del loro prestigio: stretti tra leadership sempre più condensate all’ombra di stagioni brevi e deleghe obbligate a una tecnocrazia che finisce col supplire il vuoto di una qualche visione o prospettiva lunga.
Potere senza popolo, si potrebbe chiosare. Con una sintesi che dovrebbe suonare offensiva per entrambi i termini.
E non per quel tanto di orgoglio che quelle appartenenze producevano sulla platea vasta dei loro elettori e militanti. Ma per un motivo assai più serio: ed è che una democrazia incapace di organizzarsi e distribuire una quota del potere, è destinata a vedere restringere l’ambito della politica: non solo per il numero di quanti la frequentano, ma per il senso che assume. Il suo significato.
A quel punto – è ancora Ingrao a ricordarcelo – anche i conflitti sociali cambiano natura.
E può facilmente riprodursi quella frattura tra ceti più popolari e classi dirigenti che battezziamo come ribellismo, rivolta contro gli establishment. E che non è una scoperta dell’oggi. Ma affonda in un percorso più lungo dove sono state le culture dei grandi partiti nel “secolo breve” a consentire a quella forbice di ridursi come mai prima era accaduto nella storia moderna.
E allora attraverso questa porta d’ingresso – e per parte mia davvero in punta di piedi – è possibile forse ricongiungersi con l’intellettuale, il poeta.
Il dubbio dei vincitori”: lo si può anche interpretare come un titolo definitivo.
Il che può sembrare un ossimoro ma forse non lo è, perché a suo modo definitivo è il dubbio, quando si fa metodo dell’esistenza.Lì si incontra più facilmente l’Ingrao che declina la condizione umana come bisogno. E che scava nella unicità dell’essere umano, respingendo ogni possibile cancellazione, soppressione, di quell’unico.
Con la presa d’atto che la sola sfera della legge, della norma, mai potrà comprimere o assorbire in sé l’intera relazione ed esperienza umana.
Ho detto che mi muovo su un terreno per me impervio, ma mi sono chiesto a volte quale “potenza della parola” avrebbe accompagnato un discorso di Ingrao sui confini normativi del vivere e del non sopravvivere quando la stessa dimensione della vita giunge a violare la dignità e l’umanità del singolo, in quanto unico.
C’è differenza ha scritto anni fa il teologo Giovanni Reale tra l’espressione “fammi morire”, e l’altra, “lasciami andare”.E quella è esattamente la distanza del dubbio. Della dignità dell’umano. E del confine della norma.
Ora, so io per primo che tutto questo, e molto di più, ha segnato la biografia di una figura che ha attraversato il secolo. Che lo ha studiato con gli occhi di chi “volendo la luna” immagino mirasse molto più in alto che a una buona riforma del procedimento legislativo.
“Sono stato immerso, incollato alla politica, nel suo farsi quotidiano, ma ho sempre avvertito chiaramente una riserva interiore…c’è un di più che la politica non esaurisce in se stessa. E dal quale, tuttavia, non può prescindere”.
E ancora: “non credo alla separazione tra sfere distinte: privato e pubblico, individuo e collettivo, società e Stato”. Cosa dire? Che da queste due frasi potrebbe prendere le mosse una ricerca altrettanto lunga e intensa.
Ma naturalmente servirebbe qualcuno assai più attrezzato di me nel farlo.
Perché in quelle immagini – il “di più che la politica non esaurisce” o il legame senza cesura tra individuo e la collettività – c’è il percorso di una vita segnata dalla forza condizionante degli eventi.
Con i paradossi. Come la sincerità sulla passione espressiva riversata ai Littoriali e al contempo la coscienza che fu quella cornice – la più imprevedibile tra tutte – a favorire con i coetanei le prime discussioni su un “possibile percorso antifascista”. E’ un lungo romanzo di formazione quello che da lì prende le mosse.
Che forse si può provare a racchiudere in due parole accostate – siamo già qualche decennio dopo la Liberazione – che Ingrao dedica alla figura di Curiel.
Dice Ingrao: “Agiva cercando”. Che è una sintesi formidabile: agire proseguendo nella ricerca di ciò che è più giusto. E il fatto che, per gli accidenti della storia, questa azione e ricerca siano state per quella generazione una formazione autodidatta, o quasi, rende l’impresa ancora più intrigante.
Perché aiuta a comprendere la curiosità e la passione per forme diverse dell’espressione culturale, artistica, letteraria.
E’ l’Ingrao che più ha stupito generazioni di giovani comunisti. L’intellettuale che parla del fordismo. E il politico che racconta Charlot. E l’una cosa e l’altra – il fordismo e Charlot – in quella miscela di cultura e politica, non sono più soltanto analisi sociale o critica artistica. Ma diventano un’altra cosa: un altro modo di entrare nella modernità.
Forse anche per questo in quel vecchio partito al quale ho aderito da ragazzo, l’ingraismo non era prima di tutto una piattaforma politica, ma un abito mentale. Se dovessi spiegarlo proverei a farlo così, con quest’ultima citazione. In uno scritto di prossima pubblicazione curato da Alberto, a un certo punto per descrivere il sentimento di euforia, ingenuità e speranza che accompagna la generazione in uscita dalla guerra, Ingrao scrive “Pareva che avessimo tante cose da sperimentare e mi sembrava che fossimo senza cattiveria”.
Senza cattiveria, dopo quello che avevano alle spalle. Ma appunto, non era disincanto né rinuncia alla durezza dello scontro politico (sarà in epoca repubblicana che spesso quei dirigenti e militanti dormiranno fuori casa, e non per scelta). No, era davvero l’abito mentale di un agire politico destinato ad assorbire tanta parte di molte vite. Ma quell’abito funzionò un po’ come una corazza e preservò quel movimento, quel partito, non da singoli errori anche gravi. E infatti molti ve ne furono. Ma lo preservò da una incapacità di dialogo con la realtà. Nonostante la scomunica di Papa Pacelli. Nonostante la scomunica del Cominform. Nonostante gli stessi drammatici errori dei comunisti. Fosse solo per questo ci sarebbe da togliersi il cappello.
Ecco, mi fermo perché ho già parlato troppo.
Ho letto che Ingrao amava Saba. E allora, magari possono essere i versi finali di Città Vecchia a chiudere il cerchio di queste immagini. Lì dove per descrivere non le vie ma l’anima che le attraversa, Saba lo risolve così.
Qui degli umili / sento in compagnia / il mio pensiero farsi più puro / dove più turpe è la via.
Non lo so. Ma mi piace immaginare che Pietro Ingrao possa aver letto questi versi come in uno specchio.
Gianni Cuperlo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *