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Le battaglie del Migliore. In un volume le lettere inedite del leader del Pci

La recensione di Mario Tronti al volume “La guerra di posizione in Italia – Epistolario 1944-1964”, a cura di Gianluca Fiocco e di Maria Luisa Righi (Einaudi, 2014)
Pubblicato il 20 Luglio 2014
Materiali, Officine Tronti, Scritti

Ecco un libro da leggere. E da cui imparare: per che fa politica, per chi vorrebbe farla, per chi cerca di pensarla, soprattutto per chi avrebbe bisogno di sapere che dietro di noi c’è una storia e che non tutto quello che accade oggi è cominciato questa mattina, o ieri sera, con l’ultimo telegiornale. La guerra di posizione in Italia – Epistolario 1944-1964 titolo eloquente dovuto, credo, alla intelligenza tutta politica di Giuseppe Vacca, che lo giustifica subito nella sua Prefazione con le parole del leader comunista, 1962, X Congresso del partito: «Ciò che prevediamo è, in Paesi di capitalismo sviluppato e di radicata organizzazione democratica, una lotta, che può estendersi per un lungo periodo di tempo e nella quale le classi lavoratrici combattono per diventare classi dirigenti e quindi aprirsi la strada al rinnovamento di tutta la struttura sociale». Concetto gramsciano, questo, della guerra di posizione, strettamente legato alla lotta per l’egemonia. E infatti troviamo qui un Togliatti molto gramsciano, ma che non smette mai, nemmeno per un momento, di essere togliattiano.
Le lettere scelte per questo volume, per due terzi inedite, sono una piccola parte di quelle possedute dalla Fondazione Gramsci. E si sa che queste forme antologiche vanno sempre incontro a obiezioni critiche sul perché e sul come. Ma i due curatori, Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi, hanno fatto un buon lavoro di contestualizzazione delle singole lettere, con utili rimandi a notizie storiche e bibliografiche. La lettura si presenta così molto agevole. Si è quasi esclusivamente puntato sui rapporti con uomini politici e figure intellettuali. E quel Togliatti «che privilegia la penna al telefono» e scrive e risponde e ribatte, al giornalista, allo studioso, al compagno di base, viene avanti ai nostri occhi nella sua originale consistenza umana, e il tutto ce lo restituisce così com’era e non come lo dipinge la pubblicistica corrente. Incontra Croce, parla di Pietro Giannone e dell’illuminismo italiano, legge il carteggio Labriola-Spaventa, discute con l’editore Einaudi, risponde a un compagno di Campobasso su come vada definita la Rivoluzione russa e consiglia «Rivoluzione socialista d’Ottobre».
In questi giorni e mesi, stiamo sperimentando che tanto risulta difficile parlare di Togliatti quanto risulta facile parlare di Berlinguer, nei due anniversari concomitanti. E questo perché? Ma perché si espunge dalla figura di Berlinguer proprio il fatto di essere, egli, un prodotto del ceto politico di formazione togliattiana. Uno dei capolavori di Togliatti è di aver creato, con l’autorità di pensiero e azione, attraverso un partito di tipo nuovo, un ceto politico di tipo nuovo: in alto e in basso, dirigenti e militanti. Condizione essenziale perché ci sia politica, e non quelle altre cose strane che si raccontano adesso intorno a noi.
Il libro si apre simbolicamente con un’intervista a un inviato speciale della Reuters, aprile 1944, dove alla domanda sul Pcd’I dei primi anni troviamo questa risposta: «Nei primi anni della sua esistenza il Partito comunista italiano commise gravi errori di settarismo, non seppe fare una politica di unità del popolo per la difesa delle libertà democratiche contro il fascismo. Di questi errori trasse profitto la reazione e noi oggi ci guarderemo bene dal ripeterli».
Quegli errori non furono più ripetuti, vivente Togliatti ed esistente, appunto, una classe dirigente che veniva da quella suola, compreso il tutto Berlinguer. Per il dopo, lasciamo stare. Il libro si chiude altrettanto simbolicamente con gli auguri di guarigione che don Giuseppe Dossetti, dal ritiro di Monteveglio, invia a Togliatti, 15 agosto 1964, due giorni dopo il grave male che lo ha colpito: «La notizia della Sua malattia mi ha profondamente toccato emi determina a fare ora quello che tante volte avrei desiderato, cioè assicurarla del mio costante ricordo… Passando gli anni e purificandosi in me, nel mio nuovo stato, tante cose, ritornavo solo agli aspetti più essenziali e profondi di un rapporto, che mi sembra sia stato ricco di umanità e sincerità».
Da registrare tra le cose più interessanti del volume lo scambio epistolare, costante, con la straordinaria figura di don Giuseppe De Luca. Ricordava Togliatti alla sorella Nuccia, a un anno dalla morte di don Giuseppe, il 28 febbraio 1963, come dai troppo rari incontri, fosse scaturita una corrente non solo di comprensione e simpatia, ma di amicizia. «Vi era qualcosa di comune, mi pare, negli orientamenti della nostra cultura. In questo senso, che entrambi avevamo vissuto, anche se partendo da posizioni diverse e con diverso punto di arrivo, la grande crisi e svolta del Novecento». Approdati a rive diverse, «lui sacerdote, io non credente». Ma con in comune, un cammino. E quando don De Luca inviava quello che considerava «il suo biglietto da visita», l’Introduzione all’Archivio italiano per la storia della Pietà, ricordava a Sua Eccellenza quella volta in cui «augurai un archivio, non certo della Pietà ( ma avete anche voi la vostra, e lo dico chiaro lì dentro ) ma della redenzione sociale». La lettera è datata 4 giugno 1951. Il 25 maggio, le elezioni amministrative a Roma avevano visto il tentativo, appoggiato da ambienti ecclesiastici e contro il parere di De Gasperi, di una lista civica anticomunista comprendente le destre. De Luca si rivolge a Togliatti: «E in questi nostri giorni di irrespirabili parole, quasi tutte cattive e, peggio, false, è un piacere, anzi è una gioia e quasi una gloria un rapporto così…». Questo è Togliatti: nel totus politicus, nulla di ciò che è umano risulta estraneo.
Ma questa scelta di lettere ruota tutta intorno a quel tema tipicamente togliattiano che, dal confronto con Bobbio in poi si declinerà come politica e cultura. È incredibile la cura quasi quotidiana, puntigliosa, spigolosa, con cui interviene sui prodotti intellettuali, film, romanzi, opere storiche, musica, arti figurative. Disputa con Vittorio Gorresio per una virgola in un sonetto di Guido Cavalcanti. Bacchetta i suoi politici, e i suoi giornalisti, quando, secondo lui, commettono errori di giudizio. Accenti, a volte comprensivi, altre volte intolleranti, con notevoli errori anche suoi propri, e incomprensioni e chiusure. Ma Togliatti, alla scuola di Gramsci, è stato un combattente nella «battaglia delle idee», come non a caso titolerà la sua rubrica su Rinascita.
Noi, giovani intellettuali politici di allora ci siamo formati su quelle pagine. Ci è rimasto il gusto della lotta sul terreno del pensiero come parte integrante dell’impegno pratico. Penso ai giovani in formazione di oggi. Dove vanno a nutrire la loro testa? Sull’Espresso o Panorama? Su Micromega? Togliatti era un polemista temibile, nella scrittura e nella parola. Se lo poteva permettere. Faceva grande politica perché era armato di alta cultura. E questo erano i comunisti, italiani. Ricordiamolo a chi lo ha dimenticato. E aver dimenticato è colpa minore rispetto a chi ha rimosso, e dissipato, e seppellito.

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