Mattia DilettiUno degli obiettivi di questo percorso di letture è quello di dare conto della posizione di alcuni autori americani che, meglio di altri, possono riassumere le posizioni emerse negli ultimi anni a proposito di due questioni inseparabili: la riflessione sul ruolo egemonico degli Stati Uniti e la relazione con l’Europa. Il punto di partenza saranno Joseph Nye e una coppia di autori divenuta famosa anche in Europa, Robert Kagan e William Kristol.
Kagan è divenuto celebre anche qui da noi grazie a un pamphlet intitolato Paradiso e potere (Kagan 2002) , estensione di un articolo pubblicato sul Washington Post il 24 maggio del 2002 e dal titolo The US – Europe Divide. William Kristol è inve-ce direttore del settimanale Weekly Standard: i due fanno parte del movimento neoconservatore. Il testo preso qui in considerazione si intitola Present Dan-gers (Kagan-Kristol 2000) ed è un’antologia che raccoglie i contributi, tra gli altri, di Paul Wolfowitz e Richard Perle.
Joseph Nye è invece docente alla Kennedy School of Government di Harvard ed è stato a capo del National Intelligence Council durante l’amministrazione Clinton, ed è un autore piuttosto noto in tutto il mondo: viene qui analizzato il suo Il paradosso del potere americano: perché l’unica superpotenza non può più agire da sola (Nye 2002). Questi due testi, pur non essendo recentissimi, sono estremamente utili per ricordare due delle interpretazioni di maggior successo dell’egemonia americana, senza le quali sarebbe impossibile interpretare il dibattito americano a proposito dell’Europa. Tra questi autori esiste poi un confronto aperto, come testimonia l’ultimo intervento di Nye su Foreign Affairs di questa estate e i numerosi rimandi a Present Dangers contenuti nel suo libro.
Gli altri autori presi in considerazione rappresentano delle posizioni di minoranza. David Calleo e Richard Haass appartengono entrambi al filone del conservatorismo moderato, anche se i loro libri sono piuttosto diversi sia nell’approccio che nelle conclusioni. Il libro di Calleo (2003) dovrebbe essere però una lettura obbligata per chiunque volesse formarsi un’idea sulla storia economica e politica dell’Europa degli anni novanta.
Charles Kupchan è da tutti considerato invece uno strano caso di americano «filo-europeo»: il suo libro, The End of American Era (Kupchan 2002) è in via di traduzione anche da noi in Italia. Anche gli altri autori citati, Hitchcock e Gillingham, mostrano il rinnovato interesse verso il progetto europeo dell’élite politico-culturale americana più cosmopolita.
Prima di entrare nel merito dei testi, va sottolineato un primo elemento: gli americani sanno che l’Europa, nonostante tutto, è l’unica potenza mondiale in grado in questo momento di opporsi con successo al disegno egemonico degli Stati Uniti. Il fatto più straordinario è che sembrano averne maggiore coscienza degli europei stessi, e da più tempo. Questo realismo nell’affrontare il tema dell’Europa dovrebbe essere altrettanto presente anche nel nostro dibattito politico. Un secondo elemento riguarda il tema della sfida tra Europa e Stati Uniti: anche in questo caso solo gli americani danno per scontata questa eventualità, e ne traggono fino in fondo le conseguenze.
Sono rimaste escluse le pubblicazioni che riguardano la Nato e le relazioni tra Stati Uniti, Unione europea e paesi dell’ex blocco sovietico, tema che pure avrebbe meritato un approfondimento. Nei riferimenti bibliografici è riportata l’indicazione relativa al volume del 2002 di Ronald Asmus (della Rand Corporation) sull’allargamento della Nato.

L’Europa e l’egemonia americana: due interpretazioni

Sia Nye che la coppia Kristol-Kagan credono fermamente nella necessità dell’esercizio della leadership mondiale da parte degli Stati Uniti, e vedono nell’isolazionismo una fonte di pericolo da allontanare. Ma le somiglianze finiscono praticamente qui. Il dibattito riguarda l’esercizio del potere. Oggi la caratteristica fondamentale del potere, secondo Nye, è data dalla capacità di esercitare quello che egli chiama (con una formula che ha avuto molto successo) «soft power», ovvero la capacità di persuasione sui governi e i popoli del resto del mondo, garantita dal fascino e dall’attrazione generata dai modelli culturali e di vita americani, da istituzioni internazionali a guida americana.
Il ragionamento di Nye è molto chiaro: il mondo vive una fase nuova, segnata dalla globalizzazione e da quella che lui chiama «la rivoluzione dell’informazione». Entrambe diminuiranno la centralità del «hard power» (potenza militare ed economica) e degli stati, mentre cresceranno le reti di interdipen-denza globale. Il terrorismo di bin Laden sarebbe proprio un esempio perfetto di diffusione verso soggetti privati di capacità tecnologiche e militari un tempo appannaggio solo dei governi.
Per quanto la globalizzazione presenti quindi delle insidie, rimane un fenomeno americano da incoraggiare. Per questo l’America deve guardarsi dall’arroganza dell’unilateralismo, che minerebbe pericolosamente le basi del «soft power» e quindi dell’egemonia americana. L’evoluzione possibile che la globalizzazione lascia intravedere è quella di un mondo dove la cessione di sovranità rappresenta un futuro inevitabile anche per gli Stati Uniti. Quindi, una cessione (guidata) di sovranità aumenterà il «soft power» degli Usa, soprattutto se questa avverrà all’interno delle istituzioni internazionali che gli Stati Uniti hanno contribuito a disegnare .
L’11 settembre rappresenta la sfida per il rilancio di questo tipo di politica estera: gli anni novanta vengono definiti da Nye gli anni dell’«autocompiacimento dell’America», da cui ora si è costretti a uscire. Questo vuol dire più multilateralismo (di cui l’America non può fare a meno), ma anche più impe-gno nella gestione dei «beni pubblici globali»: primo tra tutti la sicurezza e la stabilità geopolitica in ogni area del mondo. Il contrario di quanto starebbe fa-cendo l’amministrazione Bush. In più, questo impegno americano legittimerebbe la presenza all’estero e la leadership Usa. Quindi l’egemonia americana sarebbe oggi necessaria, ma il futuro prevede la cessione volontaria della propria sovranità. Una strategia per uscire quasi indenni dall’inevitabile declino che tutte le potenze hanno vissuto, ma anche un’ennesima conferma dell’eccezionalità dell’esperienza politica americana (unica superpotenza della storia a darsi l’obiettivo politico di cedere sovranità, una volta che il mondo diven-tasse più giusto e sicuro).
Ma, afferma Nye, «l’unica entità in grado di sfidare gli Stati Uniti nel prossimo futuro è l’Unione europea» (p. 242). Nye affronta la questione dell’Europa con molto pragmatismo, senza retorica sui valori comuni dell’Occidente. «Chi assomiglia maggiormente a un avversario paritetico degli Stati Uniti all’inizio del XXI secolo, è l’Unione europea» (p. 39). Nye cita uno studioso di Harvard, Stephen Walt, per mettere in evidenza le ragioni di un allontanamento tra Stati Uniti ed Europa: «la mancanza di una minaccia comune riduce la coesione all’interno dell’alleanza […], gli scambi degli Stati Uniti con l’Asia sono una volta e mezzo quelli degli Stati Uniti con l’Europa, e le differenze culturali fra le élite di entrambe le parti dell’Atlantico crescono con l’avvicendarsi delle generazioni» (p. 43). Sarebbero due però gli elementi che possono ritardare l’avverarsi di questo scenario: una politica accorta da parte degli Usa (non unilaterale) e la necessità dell’Europa di adeguare il proprio sistema economico alle regole del capitalismo americano, che continua a mo-strarsi superiore a quello europeo. Per Nye, in sostanza, la nascita di una po-tenza europea è un fatto che non si può più mettere in discussione, e che già oggi è visibile sul piano economico (in particolare si cita la capacità della Commissione europea di orientare le politiche delle grandi aziende americane, come nel caso di Honeywell e General Electrics). Nelle mani degli Stati Uniti sono oggi i tempi e i modi di questa trasformazione: tanto più l’atteggiamento degli Usa sarà arrogante e unilaterale, tanto più l’Europa vorrà ridurre il suo gap soprattutto dal punto di vista militare e non concederà il supporto necessario alla politica estera dell’America. Un’ipotesi descritta un paio di anni fa che oggi trova riscontro.
Il giudizio di Nye sulla politica di Clinton è piuttosto articolato, ma sicuramente egli guarda con soddisfazione ad alcuni aspetti fondamentali degli anni novanta: sono gli anni dell’ultima globalizzazione, caratterizzata dalla «rivoluzione dell’informazione». Kristol e Kagan partono invece all’attacco contro Clinton e la politica estera americana nel momento di maggiore auto-compiacimento per gli Stati Uniti, il periodo a cavallo tra la fine del ’99 e il 2000. L’antologia Present Dangers è il risultato di un lavoro iniziato nel ’96, quando Kristol e Kagan pubblicarono su Foreign Affairs un articolo dal titolo Toward a Neo-Reaganite Foreign Policy. Gli anni rappresentano l’occasione perduta («The squandered decade»): «The squandered decade of the 1990’s and the “present danger” lies in America’s hesitancy in mantaining its global hegemony against the many emerging challenges». Clinton ha voluto incassa-re il «dividendo di pace» della vittoria sull’Unione Sovietica riducendo le spe-se militari: il contrario di ciò che andava fatto. Le sfide e i pericoli per gli Stati Uniti erano ancora molti, e Clinton ha intrapreso una politica dannosa per gli interessi americani, come fece Nixon ai tempi della distensione. Scegliere di coesistere con regimi che sono la negazione dell’American way of life significa manifestare debolezza, rinuncia alla lotta per i valori della propria società. Ma il vero pericolo – il present danger – non sono i dittatori, i mullah, il narcotraffico o il terrorismo: è la voglia di tornare alla normalità («return to normalcy») e non continuare la lotta contro i regimi che per loro natura sono in competizione con gli Usa (come era per l’Urss: la filosofia odierna dei neo-conservatori è anche il risultato della trasposizione della loro incorruttibile mi-litanza anticomunista dei decenni passati). Le categorie che ritornano con più frequenza sono «Volontà» e «Forza» (di cui non segue un’analisi molto ap-profondita: la forza è quella militare, la volontà significa utilizzarla per i pro-pri scopi). Il libro analizza con otto interventi lo stato del mondo area per area (o meglio, pericolo per pericolo), per poi concludersi con tre saggi sulla leadership americana: Morality, Character and American Foreign Policy, di William Bennett, Statesmanship in the New Century, di Paul Wolfowitz e Strength and Will: A Historical Perspective di Donald Kagan.
Il capitolo sull’Europa è affidato a Jeffrey Gedmin dell’American Enterprise Institute. Se nel 2000 l’Europa non era un present danger come l’Iran, oggi sappiamo che la riflessione dei neoconservatori sull’Europa è andata molto lontano. L’affaire iracheno ha mostrato che l’Europa è la culla del peggior nemico di Kristol e Kagan: il pensiero debole, di cui anche Clinton sarebbe figlio. Il titolo del settimanale Weekly Standard uscito la settimana prima della Conferenza intergovernativa di Roma non lascia dubbi: Against Europe United.
L’intervento sull’Europa parte ovviamente dal Kosovo: secondo Gedmin Clinton ha fallito nell’esercizio della leadership americana nei Balcani, riu-scendo allo stesso tempo ad alienarsi gli alleati europei con un inutile eserci-zio di arroganza. «Every alliance has its horse and its raider, Bismarck once observed» (p. 183). Gli Usa-cavaliere non sono stati in grado di guidare l’Europa-cavallo. La politica multilaterale di Clinton ha introdotto la logica del minimo comune denominatore, per cui gli obiettivi e le strategie si formulano mantenendo il profilo più basso, e allo stesso tempo ha irritato i partner della Nato. Il Kosovo avrebbe favorito l’avvio di trasformazioni strutturali nelle relazioni con l’Europa, favorendo le posizioni delle élite europee più tiepide nei confronti dell’America.
Per Gedmin l’America deve prendere atto che il processo di integrazione e unità dell’Europa è avvenuto in modo autonomo e senza la partecipazione degli Usa (tesi che, in qualche modo, contrasta con quella di Kagan in Paradiso e potere). L’euro è l’evidenza inconfutabile della volontà dell’Europa di voler competere con gli Stati Uniti e la sua specifica risposta ai processi di globalizzazione. Per sostenere la sua tesi Gedmin riporta un campionario di opinioni antiamericane (capofila Hubert Vedrine, che nella traduzione americana diventa «Herbert»). Una reazione comprensibile se si considera che gli Stati Uniti hanno estromesso gli europei dalla definizione delle strategie sull’allargamento a est della Nato. Clinton ha dato per scontata l’esistenza di un oc-cidente unito nei valori e negli obiettivi e non ha saputo dosare né bastone né carota nel tentativo di imbrigliare la volontà di emancipazione europea. Eppure, secondo Gedmin, qualcosa chiamato Occidente deve pur continuare a esi-stere (qualcosa come la New Europe: non è un caso che Gedmin concluda il suo intervento citando Vaclav Havel, ormai icona americana dell’europeo per bene). Il Rubicone invalicabile dagli europei deve restare la creazione di un esercito continentale autonomo.

La tesi dell’ “Imperial overstretching”

Un altro punto di vista americano sull’Europa è quello di David Calleo (2003), autore di Rethinking Europe’s Future. Calleo è uno degli specialisti di affari europei della John Hopkins University. È anche un esperto di politica economica e si è occupato a lungo della storia economica e politica della Germania. Uno studioso conservatore e liberale, estremamente acuto e appassionato alle vicende europee e alla cultura delle sue élite politiche. Il suo libro è apparso per la prima volta nel 2001, per subire poi delle modifiche nel 2003. All’edizione più recente sono state aggiunte anche una nuova introduzione e una nuova conclusione. Nel volume di Calleo non esiste una vera conclusione sul futuro dell’Europa: gli scenari possibili ipotizzati sono in realtà molto diversi tra loro. Non solo: preoccupato dall’allargamento della frattura tra Europa e Stati Uniti, Calleo spera in una nuova collaborazione per la guerra al terrorismo, ma appare molto critico nei confronti della politica di Bush, accusato di sottoporre gli Stati Uniti a una tensione insopportabile («the imperial over-stretching»), soprattutto dal punto di vista economico e fiscale. Una tesi che a Washington trova sempre più consenso all’interno del Partito repubblicano.
Le parti più interessanti di questo volume sono due: la ricostruzione della storia economico-politica dell’Europa degli anni novanta e la rilettura dello scontro Europa/Stati Uniti come scontro tra visioni del funzionamento del sistema economico mondiale inconciliabili. Un tassello in più che arricchisce il consueto dibattito unilateralismo/multilateralismo. Anche Calleo, come molti altri americani, si stupisce del fatto che l’Europa sia riuscita a raggiungere l’unione monetaria, considerando le molte crisi che si erano aperte negli anni novanta: quella finanziaria del ’92, quella del modello socialdemocratico e quella generale del sistema economico, con un corollario assai pesante di nuovi problemi sociali e alta disoccupazione.
Secondo Calleo l’Europa ha resistito e proseguito nel suo progetto di unio-ne monetaria nonostante tre fattori che avrebbero potuto condizionarne pro-fondamente il futuro prossimo: il «Soviet schock», il «German Shock» e una élite americana ancora fortemente «Europe oriented» e incline a nutrire l’idea di un ulteriore rafforzamento degli Usa sul piano internazionale : la presenza in Medio oriente, l’attenzione verso le economie asiatiche, l’apertura dei mercati internazionali, l’impegno nei paesi ex comunisti.
Il «Soviet shock» viene superato brillantemente con l’idea di Maastricht, mentre l’euro (aperta sfida agli Stati Uniti) è la risposta europea alla globalizzazione. Il «German shock», insieme alle misure draconinane imposte per raggiungere l’obiettivo della moneta unica, è una della cause della crisi economica dell’Europa: la Germania riesce a distribuire il costo dell’unificazione su tutti i paesi europei attraverso la sua politica fiscale. Quanto agli Usa, c’è da resistere all’avanzata di un paese che secondo Calleo non mira a una Pax americana su modello di quella britannica, ma ha in mente piuttosto un progetto che definisce «napoleonico», e che ha l’obiettivo di rendere uniforme l’intero pianeta: l’imposizione dei modelli anglosassoni di regolazione dei mercati al resto del mondo corrisponderebbe all’imposizione del codice napoleonico nei paesi di conquista, e non a una politica vittoriana.
La nascita dell’euro, passata in secondo piano a causa delle difficoltà economiche dell’Europa, ha posto però una questione fondamentale: può l’America continuare a sostenere all’infinito il suo deficit in presenza di un concorrente così forte? Per quanto ancora si può mantenere questo eccezionale af-flusso di capitali, un livello di consumi così alto e un livello di risparmio così basso? Secondo Calleo si tratta di lussi imperiali che l’America non è in grado di sostenere ancora per molto tempo. Calleo sembra invocare un patto di stabilità anche per l’America, che tutto al più invece chiede all’Europa di assorbire un po’ del surplus della produzione economica mondiale quando gli Stati Uniti sono in fase di stanca (e non si possono permettere di fare la «locomotiva»). Per Calleo la visione dell’economia mondiale dell’Europa e della Banca europea sono necessariamente in contrapposizione e conflitto con quella americana: «European policies in the 1990s seemed informed by a fundamental different economic worldview from American policies: Europeans seemed influenced by a more classic vision of economic balance. Instead of a world economy where one radical imbalance (the American deficit) sustains another (the Asian surplus), European favored a global regime where all countries and regions stay in external equilibrium because they guard their own internal balances» (p. 367).

La potenza americana è al tramonto?

Un inatteso ammiratore americano della Banca europea si troverà quindi in sintonia con alcune delle tesi di Charles Kupchan, che come Calleo crede che gli Stati Uniti siano all’inizio del loro declino (torna qui l’ipotesi di «Imperial overstretching». Kupchan è docente alla Georgetown University e senior fellow al Council on Foreign Relations, ed ha collaborato con l’amministrazione Clinton. Il suo ultimo libro, The End of the American Era (Kupchan 2002), è di prossima traduzione in Italia. Kupchan concorda con l’idea di Nye di un’America destinata a scontrarsi con l’Europa se manterrà un approccio eccessivamente unilaterale, con l’idea di Calleo di un feroce scontro all’orizzonte tra Federal Reserve e Banca europea, e ammette una definitiva inconciliabilità di propositi riguardo al Medio oriente. Il dibattito sulla Cina sarebbe solo un diversivo rispetto allo scontro già in atto tra Washington e Bruxelles, la cui separazione potrebbe essere paragonata a quella di Roma e Bisanzio, con un corollario di dispute infinite a proposito di dottrina, spazi commerciali, autorità, prestigio. A cominciare, soprattutto, dalla competizione per arrivare ad aggiudicarsi quei capitali di investimento che negli anni novanta sono fluiti in direzione dei mercati americani e che con l’arrivo dell’euro potrebbero cambiare rotta in modo sensibile. Kupchan prevede per l’Europa un futuro a cui nessuno sembra credere, nemmeno da queste parti: autonomia nel settore della dife-sa, (non competizione, perché gli Usa saranno sempre troppo forti, ma ricerca di autonomia nella capacità di difesa del proprio continente e quindi dissoluzione inevitabile della Nato); supremazia europea nel settore strategico dell’industria satellitare; piena adesione della Gran Bretagna (!) al progetto europeo; rilancio del modello economico-politico europeo.
Per Kupchan si profila la fine dell’ordine occidentale basato sulla leadership americana e una nuova era europea e multilaterale. A mio avviso l’idea del declino americano di Kupchan, per quanto esposta con pacatezza e razionalità, appare tinta quasi di un furore biblico. Gli Stati Uniti sembrano essere vittima del loro peccato imperiale: l’Europa da satellite americano diverrebbe una potenza autonoma, così come gli Stati Uniti sono divenuti il paese leader del mondo dopo essersi affrancati dal colonialismo europeo. Chi vuole farsi impero è quindi destinato a soccombere (come in L’uomo che volle farsi Re di Rudyard Kipling): il peccato dell’America sembrerebbe ancor più intollerabile proprio perché verrebbe tradita l’origine libertaria e antimperialista della repubblica.

Europa-Stati Uniti, i sostenitori della complementareità

Su questo tema della competizione inevitabile converge Richard Haass (1999), attualmente direttore dell’ufficio del Policy Planning al dipartimento di stato e stretto collaboratore di Colin Powell. All’epoca dell’uscita del libro di Haass (famoso per aver coniato la definizione di «Reluctant Sheriff» per descrivere il ruolo degli Usa nel mondo del dopo guerra fredda) egli era direttore del Foreign Policy Studies program alla Brookings Institution. Nel 1998 organizzò una conferenza internazionale dal titolo Transatlantic Tensions, a seguito della quale venne dato alle stampe un volume dal titolo omonimo, che tenta di osservare le fonti di tensione tra Europa e America mettendo in evi-denza alcuni casi concreti su cui esistono divergenze e frizioni: Cuba, Libia, Iraq, Iran e Nigeria. Sullo sfondo quindi, le politiche di embargo e la questione dei diritti umani, la politica nei confronti del Medio oriente e quella energetica.
Il libro ha qualche anno, ma è importante perché ci ricorda l’origine delle tesi della scuola realista e moderata che è uscita sconfitta nella battaglia interna all’amministrazione Bush. Dobbiamo tenere a mente che l’approccio di Haass, oggi minoritario, potrebbe di nuovo far comodo all’amministrazione Bush nel caso in cui il progetto neoconservatore fallisse miseramente. L’idea è molto semplice: la visione del mondo degli Stati Uniti è destinata a differenziarsi sensibilmente da quella europea. Prendiamone atto e sfruttiamo la base di valori che storicamente ci accomuna per trovare un terreno di dialogo per risolvere le crisi internazionali quando esse si presenteranno.
Il libro di Haass raccoglie i saggi di specialisti europei e americani su ognuno dei cinque temi già citati. Haass riconosce quindi che lo scontro tra Europa e Stati Uniti appare inevitabile, specialmente quando si tratta di difendere i propri interessi nelle regioni che forniscono energia al resto del mondo, ma il suo obiettivo è trovare un metodo di risoluzione per questi conflitti e alcuni obiettivi di fondo comuni, pur tenendo fermo che possa esistere un certo grado di competizione tra i due partner occidentali. Il più grande timore di Haass è quello che da una parte e dall’altra si cristallizzino le immagini peggiori di Usa ed Europa: «a European view of US foreign policy as heavy handed and dominated by domestic politics, an American view of European foreign policy as amoral and dominated by a search for profit. These caricatures need not be-come reality» (p. 228). Haass propone il rafforzamento di una vasta gamma di canali istituzionali e informali per raggiungere un certo grado di coordinamento e continuità nelle consultazioni bilaterali. Questa visione dei rapporti euro-americani continua a essere perorata, e alcuni circoli intelletuali e politici (in Europa come negli Usa) continuano a sostenerla strenuamente, utilizzando la formula magica della «complementarità» tra Stati Uniti ed Europa (vedi Joshua Moravcsik sul penultimo numero di Foreign Affairs, o le posizioni di Dominique Moïsi in Francia): un’alleanza capace di gestire con pochi traumi i conflitti che la attraversano, dividere i ruoli sulla scena internazionale tenendo bene a mente la realtà dei rapporti di forze (il riferimento è alla superiorità militare Usa e all’abilità europea nella diplomazia e nel nation building), prose-guendo insieme nell’opera di diffusione del libero mercato e della democrazia. Una sorta di ritorno allo status quo precedente all’11 settembre, cercando di smussare i lati peggiori dell’unilateralismo americano e le pretese di «eccessiva» autonomia dell’Europa.

Ancora sull’integrazione europea

In conclusione, andrebbero segnalati due testi che hanno come soggetto la storia dell’integrazione europea. Da un po’ di tempo a questa parte il ristrettissimo pubblico dell’accademia americana sembra mostrare una certa attenzione verso questo tema, dopo il disinteresse e lo scetticismo palese manifestato negli anni novanta.
Il primo testo appartiene a Wiliam Hitchcock (2003) e si intitola The struggle for Europe. Il secondo è European Integration 1950-2002: Superstate or new Market Economy? di John Gillingham (2003). Il libro di Hitchcock (docente al Wellesley College) dovrebbe rappresentare per molti una lettura obbligata: l’autore è un giovane professore americano che riesce ad andare in profondità in ogni aspetto della storia europea del dopoguerra, senza mai perdersi e senza banalizzare in modo eccessivo gli eventi, mantenendo il giusto (e inevitabile, per un americano neanche quarantenne) distacco. Più di una volta Hitchcock utilizza, con successo, la citazione lette-raria per fornire le immagini dell’Europa di quegli anni. I periodi affrontati sono tre: quello della ricostruzione e del boom economico (’50 e ’60), quello delle lotte sociali (’60 e ’70) e quello della caduta del muro e del rilancio del-l’integrazione europea (’80 e ’90). Non viene tralasciato nulla, dal dibattito sulla decolonizzazione a un attento capitolo sulla Rivoluzione dei garofani. Le conclusioni sono poi una sorpresa, perché affrontano in un intero capitolo finale il problema irrisolto dell’identità europea, con riferimento ai temi del-l’immigrazione, dello scambio interculturale, delle relazioni con le comunità di immigrati presenti in Europa e con i paesi del Mediterraneo, temi che per Hitchcock appaiono come una sorta di pericoloso tabù del dibattito politico europeo. Invece del solito scenario sul futuro dell’Europa di qui al 2100, Hi-tchcock affronta il tema delle trasformazioni culturali che attraversano l’Europa e delle tensioni che esse generano, anche in questo caso con originalità e misura.
Gillingham invece si concentra maggiormente sul ruolo delle élite europee nel processo di integrazione europea, ricostruendo lo scontro sul ruolo dello stato nell’economia: da una parte Jean Monnet e dall’altra Von Hayek, ovvero due modi di intendere il capitalismo in Europa. Il libro ha una sua tesi piuttosto netta e difficilmente condivisibile, ma ha il pregio di essere chiaro e ben scritto. Uno dei passaggi di maggior rilievo nella storia di questo ultimo ventennio (il fallimento della politica economica del primo mandato presidenziale di Mitterrand) trova uno spazio adeguato: viene ricostruita una delle più importanti sconfitte della sinistra europea, un momento su cui non si è ancora riflettuto abbastanza: è stato proprio allora che la mano invisibile del mercato è cominciata ad apparire invincibile.
Nel periodo precedente l’Assemblea generale delle Nazioni unite (tenutasi il 22 settembre) e la Conferenza intergovernativa di Roma in molti hanno sparato le proprie munizioni contro l’Europa. La rivista di William Kristol, The Weekly Standard ha titolato, come detto, Against Europe United; Thomas Friedman (un tempo definito liberal, oggi non saprei) ha invece sostenuto sul New York Times che la Francia è un nemico degli Stati Uniti. È probabile che queste urla rappresentino un segno di debolezza: i neoconservatori sono in difficoltà per gli insuccessi palesati in Iraq, e in rotta di collisione con il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, fermo sulla sua opposizione all’invio di nuove truppe in Medio oriente. Troppi nemici: le correnti repubblicane realiste e isolazioniste, l’Onu, l’Europa. Non sappiamo dove andrà la politica americana: le prossime elezioni presidenziali ci diranno quanto buio potrà essere ancora il futuro. Quanto all’Europa, la sua autonomia è ancora solo sulla carta: di certo l’America di oggi aiuta a confrontarci con le ambiguità rimaste ancora irrisolte.

Riferimenti bibliografici

  1. ASMUS (2002), Opening NATO’s Doors, New York, Columbia University Press.
  2. CALLEO (2003), Rethinking Europe’s Future, Princeton, Princeton University Press.
  3. GILLINGHAM (2003), European Integration 1950-2002: Superstate or new Market Economy?, New York, Cambridge University Press.
  4. HAASS (1999), Transatlantic Tension,, Washington DC, Brookings Institution Press.
  5. HITCHCOCK (2003), The struggle for Europe, New York, Doubleday.
  6. KAGAN (2002), Paradiso e potere, Milano, Mondadori.
  7. KAGAN-W. KRISTOL (2000), Present Dangers, San Francisco, Encounter Books.
    CH. KUPCHAN (2002), The End of American Era, New York, Knopf.
  8. NYE (2002), Il paradosso del potere americano: perché l’unica superpotenza non può più agire da sola, Torino, Einaudi

Un commento a “L’Europa vista dall’America”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *