[…] né ben si discerne se non da chi analizzi i complicati e mutabilissimi rapporti delle civili combinazioni

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

 
“Ma dove sta, alla fine, il nodo irrisolto, il punto cruciale che ha portato non solo al crollo dell’Urss e del suo impero, ma più largamente a una sconfitta del movimento operaio mondiale nel chiudersi di questo secolo: insomma dove sta l’errore strategico che ha condotto il comunismo allo scacco? Sta nella linea della dittatura militare imboccata subito e fatalmente dai bolscevichi nel 1917? Oppure ha la sua fonte nello stesso marxismo e socialismo europeo, prima ancora di Lenin, facendo salva (ma non proprio tanto) la barba augusta di Karl Marx?”.
Sono domande che si rivolge Pietro Ingrao nel quindicesimo (e penultimo) capitolo, “Liberazione e statalismo”, di un volume inedito concluso nel luglio del 1998. Il libro, con il titolo Promemoria, è in corso di stampa per mia cura presso la casa editrice Ediesse. Due sono, credo, le date che segnano le scelte (e la vita) di Pietro Ingrao: 1936 e 1956. Corrono vent’anni tra l’una e l’altra. Il 1936 (la guerra civile portata nella Spagna repubblicana; la scelta dell’Italia fascista e la contiguità – destinata a metter capo ad una alleanza – con il terzo Reich) il 1936, muove Ingrao, in nome della libertà, verso il comunismo.
“Da che cosa nasce in te la scelta del partito comunista?” chiede a Pietro Ingrao, in una pagina de Le cose impossibili, Nicola Tranfaglia. La risposta è: “prima di tutto per un bisogno di libertà. Questo fu ed è rimasto un punto costitutivo del mio impegno nella politica: ci riuscissi o no. Devo confessare che in me la motivazione della modernità, dello sviluppo non è stato mai il punto determinante. Il ‘progresso’ stava per me in quel processo di liberazione. E vorrei spiegarmi: esso era qualcosa di più e di diverso dalla uguaglianza”
Il 1956 (il ventesimo congresso del Pcus e i carri armati a Budapest) avviano in Ingrao una riflessione, in nome della libertà, non solo sui fondamenti – e qui la lezione di Antonio Gramsci, critica del leninismo, mostra intera la sua influenza – ma motivano la sua elaborazione d’una prassi che assuma le articolazioni della democrazia repubblicana e le nuove complessità della relazione economico sociale dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta. Nel capitolo finale dell’inedito Pomemoria, quelle domande e la tematica relativa alla ‘liberazione’ sono mosse dalle argomentazioni che Bruno Trentin svolge ne La città del lavoro, pubblicato da Feltrinelli nell’autunno del 1997. Credo opportuno soffermarmi sul ragionamento di Ingrao che porta una rilevante critica alle argomentazioni di Trentin.
“La tesi centrale del libro, scrive Ingrao, è che, nella sinistra europea, già a partire dalla sua culla tedesca, c’è stata una lettura ‘statalista’ del processo di liberazione della classe operaia”. Una scelta che, secondo Trentin, “opacizza le nuove, radicali forme di alienazione del lavoro subordinato e che, alla fine, affida la fuoruscita dall’oppressione capitalistica e la transizione verso una società socialista alla conquista dello Stato. È così elusa – sostiene Trentin – e alla fine cancellata la questione essenziale della liberazione del lavoro subordinato, espropriato della sua creatività nel luogo della produzione, e quindi ferito nella sua identità umana, schiacciata dall’universo macchinale”. Una fatale deriva: la sinistra ha spostato la ‘rivoluzione’ sociale dal cuore della ‘società civile’, ovvero dal conflitto nel luogo di produzione, alla conquista dello Stato. Trentin, pertanto, contrappone nettamente la ‘società civile’ all’ambito e alla azione del potere politico statale. Ingrao ritiene che non corrisponda ai fatti descrivere, come fa Trentin, una ‘società civile’ che si possa affermare “a sé”, distinta, scrive, da “un potere pubblico che ha il volto (e la complessità articolata) che la sfera dello Stato è venuta via via assumendo nella modernità” dove il nesso tra ‘pubblico’ e ‘privato’ è destinato a dilatarsi. Così Ingrao ritiene necessaria, da parte degli attori sociali, “più politica, ma anche più connessioni fra iniziativa nell’intimo della produzione (per usare l’antico termine gramsciano) e un’immaginazione nuova (oggi quasi inesistente) di istituzioni”. Trentin vede nella ‘creatività’ del lavoro la fonte viva di una liberazione piena della ‘individualità’. Ingrao replica che il “tragico” Novecento ha svelato “una complicazione della soggettività umana”. Allora l’‘individualità’, “rimanda a un universo assai complesso e multiforme, radicalmente ambiguo ed oscillante: mescolare di più le sfere della vita e del produrre, se vogliamo fare i conti con queste complicazioni e oscurità e se non vogliamo che il nodo del lavoro resti drammaticamente isolato e frantumato, e alla fine perdente”.
Cito da Crisi e terza via, finito di stampare nel novembre del 1978. Ingrao è presidente della Camera dei deputati dal 5 luglio del 1976.
Parla di [p. 14-15] “nuove forme di connessione e di intreccio fra processi produttivi e processi politici, fra economia e Stato”. Dice della [p. 13-14] “complessità di un lavoro di questo genere, che tocca questioni difficili, riguardanti la nozione stessa che abbiamo del processo storico, delle sue contraddizioni, dell’iniziativa e della funzione della classe operaia”. Aggiunge [p. 147] “[…] non ho una visione mitologica della classe. La società capitalistica, nelle sue stesse risposte alle sue crisi, interviene dentro la classe operaia, la scompone, la condiziona e la influenza. La coscienza di classe non è un dato fisso, acquisito un volta per sempre. È un dato storico, mobile, contestato e contestabile, che si realizza e si verifica sempre su nuovi contenuti, connessi ai cambiamenti della società e dello scontro sociale.” E riguardo alla dinamica delle forze che agiscono nella relazione economico sociale  precisa: [p. 36] “[…] trovo più giusto parlare di vere e proprie ‘costellazioni politico-sociali’, che definiscono una varietà e molteplicità di rapporti con ceti e con momenti diversi”: [p. 15] “non dimenticherei mai, per stare a Gramsci, che si tratta di una maturazione, di una processualità”.
Del resto, in un intervento del gennaio del 1977 ad un seminario su Antonio Gramsci raccolto in Masse e potere, Ingrao rileva – “secondo una trama che va oltre Lenin” – le [p. 149] “[…] concrete connessioni che si sono stabilite nel nostro paese, tra la lotta contro lo sfruttamento e la lotta per lo sviluppo della democrazia politica”. E sottolinea come in Gramsci analista [p. 150] “dei processi attraverso cui si forma […] una proposta di Stato […] il partito politico operaio viene visto come il centro di una larga trama di istituzioni sociali e politiche […]”.
Torno al testo di Crisi e terza via là dove Ingrao avverte: [p. 40-41] “[…] uso l’aggettivo ‘complesso’ […] perché si eviti una lettura meschina, oppure settaria, non laica, appunto, di quanto è accaduto nel secolo […] scontare i limiti che il campo stesso in cui combattevamo recava con sé, le sue tare […] un esame dei limiti, degli errori strategici, delle debolezze che hanno determinato l’immaturità attuale”.
Insomma: ecco i termini ai quali Ingrao richiama: ‘costellazioni’, ‘maturazione’, ‘processualità’, molteplicità, correlazioni, intrecci, ‘connessioni’, ‘scomposizioni’, ricomposizioni’. Ammette: [119] “riconosco i rischi che si corrono nel sottolineare questa processualità e contraddittorietà della transizione, ma conosciamo anche i prezzi che abbiamo pagato al dogmatismo del modello unico ed univoco”. E aggiunge: [p. 159] “questa concezione nuova dello Stato è scritta nella Costituzione”.
Ragionando all’interno dell’ordine di questioni che la connessione di libertà e comunismo comporta, nell’intento di lumeggiare alcuni aspetti della riflessione di Ingrao, intendo soffermarmi su due termini che troviamo accostati nella risposta: progresso e processo. Accostati si, ma, ad essere attenti, combinati in modo che l’uno – progresso – si elide nell’altro – processo. E libertà, poi, vien raccordata significativamente con processo e non coordinata con progresso.
Mi provo dunque a operare un cauto sondaggio, una prima sommaria ricognizione della messa a punto fornita dalla risposta di Ingrao.
Secondo Ingrao non si dà adeguata e proficua cognizione d’una realtà col solo metterla in evidenza e, una volta estratta dal suo nucleo, col definirla sotto una luce radente che la enfatizzi. Al contrario la adeguata e proficua cognizione d’una realtà si consegue grazie a una ricognizione delle realtà che essa implica, coinvolge e collega, comprese le realtà che evoca o solo suggerisce per via d’allusione e d’analogia o, invece, ricusa o declina in opposizione o a contrasto. Su queste premesse, con buona ragione, Ingrao richiama, come ha avuto più volte occasione di dichiarare, ad “una visione polimorfa delle cose e della soggettività”. Essa comporta, tra altre molte, una categoria d’ordine concettuale: ‘complessità’. Sia detto di passata: il concetto di complessità assume una forte rilevanza nella filosofia moderna a partire almeno dalla messa a punto di Cusano nel De coniecturis. Il rapporto tra varietà e ordine studiato da Leibniz e poi Kant critico di Leibniz e la teorica dell’appercezione. E Sigmund Freud complesso, in psicanalisi termine già introdotto da Carl Gustav Jung nel 1910, quale insieme di istinti, idee, rappresentazioni etc. Niklas Luhmann e A.S McFarland, ripresero i temi, a partire dagli anni Sessanta, della complessità sociale. Luhmann possibile fonte di Ingrao? Ritengo che la vera curiosità di Ingrao al complesso viene dalle riflessioni sulla poesia e, su la scorta di Rudolf Arnheime e del suo Film als Kunst, sul montaggio cinematografico.
Le realtà, vuoi soggettive, vuoi di relazione, si affermano complesse, producono complessità e come complessità agiscono. “Dar conto della complessità”: tale, dice Ingrao, è il compito della politica. Della politica, puntualizza, che sia intesa a “esprimere un allargamento dell’esistere” e si faccia dunque capace di articolare una praxis che determini le condizioni di allargamento dell’esistere, ovvero di espansione delle libertà. Il proposito, meglio forse dire il programma, inteso ad affermare ed estendere e qualitativamente incrementare i margini di libertà, non sta, è privo di efficacia se non foggia lo strumento operativo idoneo al suo conseguimento. Ingrao dedica nel corso degli anni, nella pratica dell’impegno attivo, una cospicua parte delle sue energie a rendere il partito comunista un dispositivo adeguato a dar conto della complessità, nella situazione storicamente determinata dell’Italia repubblicana, dentro la regola e nello spirito della Costituzione del 1948. Dico dispositivo, per significare non un mero strumento o un congegno. La polemica è qui rivolta ai meccanismi organizzativi a impianto gerarchico. Al contrario, nell’idea di Ingrao, il partito è ricercato e valorizzato come l’assetto che dispone, appresta, prepara – accordando e componendo – fino ad affermare e realizzare, dando loro una riconoscibile forma, i presupposti non arbitrari, corrispondenti, invece, alle istanze che emergono mature nella effettualità della relazione economico sociale. Le istanze e i presupposti, appunto, sui quali poggia la cogente trasformazione che l’allargamento dell’esistere esige, richiede. Numerose, diverse e, per essere intese alla realizzazione di differenti programmi, distinte sono le forme entro le quali i partiti politici si costituiscono, la forma comunista di partito va modulata, nell’avviso di Ingrao, sul convincimento che le realtà soggettive e di relazione vanno assunte come complessità. Ogni costrutto di senso è il risultato di una difficile capacità di combinare, un connettere secondo accostamenti non gratuiti, non strumentali, non forzosi i molteplici elementi che ci stanno d’attorno disposti nella tale o tal’altra maniera. Dinamiche che vanno attentamente studiate se l’intento, il compito è quello di dar loro, grazie ad un corrispondente controllo che sia possibile esercitare, un orizzonte di senso. Non si tratta, allora, di operare, a mezzo del partito, una reductio ad unum delle plurali realtà.
La funzione del partito sta nel disporre la complessità riconoscendone i peculiari flussi e conducendoli secondo un andamento, ovvero secondo un processo. Ingrao giunge per questa via a configurare la proposta politica come un risultato, non come una presa di posizione. Una elaborazione che si arricchisce e precisa nel corso degli anni e mette capo alla tematica del processo ed alla critica del progresso sulla base di convincimenti che risultano da riflessioni e giudizi formulati alla stregua d’una attenta e costante meditazione partecipando alle vicende sociali e politiche di un quarantennio.
Valga un esempio:
Il termine ‘modello’ – termine privilegiato da Ingrao nella discussione e nel confronto sullo sviluppo italiano negli anni Sessanta – vuol significare coerenza, la tenuta, per dir così, di un ragionamento critico che si dipana nel confronto con i fatti, i termini, i rapporti determinati del conflitto di classe e per questo con i modi, ovvero gli strumenti specifici, le conseguenti nuove forme e i mezzi che consentono l’articolazione dei movimenti di trasformazione, i soggetti e le istituzioni.
Nel 2007, Ingrao, in La pratica del dubbio, [p. 30] confessa: “Mi appassionava la ricerca. E il dubbio mi scuoteva, vorrei dire: mi attraeva. Vedevo in esso una apertura alla complessità della vita. Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare: aprirsi al molteplice del mondo. [p. 35] […] sentivo mancare sulla bocca dei miei interlocutori la pratica del dubbio. Come avessero in testa letture rigide, già catalogate, del mondo. E non sembravano aver voglia di metter in forse i codici. [p. 58] […] dunque il molteplice, questa parola che mi ostino a mettere al centro dei miei discorsi
Dal modello alla complessità. Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta.
La complessità richiede non progresso, ma processo.
Processo è il modo che Ingrao si propone di tenere quale forma adeguata d’un organismo politico inteso ad affermare una prospettiva di crescita delle libertà.
L’orizzonte comunista verrebbe così delineato da la praxis del connettere, dell’intrecciare, del combinare soggetti e istituzioni, coscienza e partecipazione, ruoli e interazioni facendo ricorso e valorizzando le istituzioni della Repubblica e le articolazioni volta a volta nuove che si danno i movimenti.
Dunque processo versus progresso.
Progresso
Dimensione subliminale dell’andar noi innanzi, muovere in ranghi ordinati e progredire sicuri, marciare, noi soggetti singoli e plurali, in ogni caso pronti, perfezionati, maturi nella nostra integrale e compiuta identità individuale e sociale, che ci fa capaci di avanzare nella direzione giusta, di esprimere una volontà convinta, “una fede c’è nata in cuor” e, dal nostro consapevole impegno, sorge, illuminata dal sole dell’avvenire, la futura umanità. L’organizzazione coincide con la direzione.
Progressio [più che progressus]
Gradior, eris, gressus sum, gradi [dep. 3]
andare, camminare
Processo
Con  procedere si intende il dar luogo d’attorno. Cedere vale aprire, vale disporre, vale preparare. Creare gli alvei
Cedo, is, essi, essum, ere
Pro
° avanti, innanzi, dinanzi
° secondo, conforme, giusto
° in luogo, in vece
° come, a maniera, a modo
° per, in favore
Procedo
° procedere, avanzare, andare innanzi, inoltrarsi
° crescere, estendersi, divenire, riuscire, avvantaggiarsi
° venir fuori, uscire, nascere, comparire, accadere,
° avvenire
Processio [più che processus]
Ove si consideri il significato del termine una pur sommaria indagine elabora a noi una immaginativa intimamente, costitutivamente altra rispetto a quella custodita e espressa con progressio.
Cedere è dar luogo.
Gradi  è camminare.
Cedere è accadere, avvenire.
Gradi è avanzare dunque lasciarsi indietro alcunché.
Cedere è crescere d’attorno e innanzi.
Cedere è raccordarsi ad altro, non occupare altro.
Sicché cedere è innanzi tutto un conoscersi in fieri, non un affermarsi compiuto e cedere è crescere nella relazione che istituisce, che connette, che combina.
Lo spazio-tempo di cedere è l’ambito e l’imperfetto, contesto di passato e presente. Lo spazio tempo di gradi è la linea tesa tra perfetto, passato remoto, e futuro.
Ambito, campo, cerchia, circuito, orbita, giro, sfera, perimetro, area.
E Ingrao, almeno dal 1966 in modo esplicito ha indicato in questa attitudine dell’aprire, del disporre la linea da perseguire. Sta questa attitudine dentro la pratica del dubbio e va, qui dentro, decrittata, svelata.
Creare gli alvei
Dal 1956. Il 1956 – Ingrao ha quarant’anni – è il primo avvio ad un riesame del senso della scelta del Pci e mette capo alla interrogazione sulla complessiva vicenda del comunismo ragionata e posta in discussione in rapporto non ai meri principi ideali, ma verificata sulla condizione effettiva della concreta situazione italiana e mondiale.
Un ragionamento critico che si dipana nel confronto con i fatti, i termini, i rapporti determinati del conflitto di classe e per questo con i modi ovvero gli strumenti , le forme, i mezzi che consentono e regolano il movimento e la sua direzione. Dal 1956 al 1966 è il rapporto tra fine e mezzi che viene indagato. E questo rapporto, dopo il 1966, verrà messo alla prova dentro i termini della democrazia parlamentare assunta secondo lo spirito della Costituzione del 1948. Se è da attestare entro il significato che attribuiamo al concetto di processo il modo che Ingrao si propone – tenta, prova – di tenere quale forma adeguata della politica coerente con una prospettiva comunista, non è una linea da indicare diritta né una gerarchia che diriga lo strumentario al quale applicarsi.
È la pratica del connettere, dell’intrecciare, del combinare soggetti e istituzioni coscienza e partecipazione ruoli e interazioni facendo ricorso e valorizzando le istituzioni della Repubblica e le articolazioni volta a volta nuove che si danno i movimenti, ecc.
Non alla tradizione della II e della III Internazionale ricorre Ingrao, ma, come scrive in un testo del 1986, alla cultura “della crisi, della scoperta della soggettività e del problema del definirsi del soggetto, rispetto alla quale – asserisce – la cultura politica è rimasta molto indietro. […] ho vissuto in prima persona questa ricerca, ho riservato – durante la mia formazione – una certa attenzione alle varie forme d’espressione artistica.[…] il cinema […] l’attrazione verso tutta la problematica che veniva sollevata dalla poesia del Novecento”.
Combinazioni di senso a che la soggettività si costituisca: se questo è l’impegno da svolgere, Pietro Ingrao avverte che “[…] ripensare il problema dell’agire […] significa avere un’altra visione di tutte le tematiche dell’incompiuto. Cioè come assumere nell’azione i problemi, le domande, le potenzialità che recano con sé una serie di forze che sono [state, fino ad oggi,] emarginate, escluse”.
 
Alberto Olivetti

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