Lo spirito antipolitico di questi tempi ha alimentato una sua mitologia nella quale non solo il presente, ma anche il passato è mistificato. Soprattutto quello del Partito Comunista Italiano il quale, essendo per definizione un partito organizzato e burocratizzato, paga per primo il conto della critica alla politica professionalizzata. Così, nella banalità del racconto pubblico, il Pci appare come un severo partito monolitico, senza un dibattito vero, governato da grigi burocrati senza possibilità di ricambio.
E invece il Pci è stato un luogo di lunghi dibattiti e scontri, vissuti con passione e sofferenza. Su uno dei più famosi di questi, quello che antepose la destra di Amendola alla sinistra di Ingrao, ci riporta questo recente volume di Antonietta Paolino Ingrao e gli ingraiani nel PCI, da Budapest a Praga (1956-1968) (Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2012, pp. 268, Euro 18,00).
L’autrice, allieva di Gianni Cerchia, entra nel vivo di quello scontro scegliendo significativamente di chiuderlo nei dodici anni che vanno dalla Budapest del 1956 alla Praga del 1968. Anni densi di cambiamenti nei quali si svolge una parte significativa dell’avventura di Ingrao e dei dirigenti che si riconosceranno nelle sue analisi.
Durante gli anni ’50 Ingrao è uno dei giovani dirigenti promossi da Togliatti in luoghi chiave del partito. Con lui ci sono altri giovani cresciuti più nelle possibilità offerte dal partito nuovo e dalla via italiana al socialismo che non nella fermezza del mito stalinista. Così, quando nel XX congresso vengono rese note le critiche di Kruscev a Stalin, in molti, tra cui Ingrao, intravvedono la possibilità di ampliare il dibattito all’interno del mondo comunista. Lo stesso Ingrao, segnala la studiosa, inizia ad interrogarsi sulla necessità di maggiore libertà nel dibattito nel partito con un articolo uscito su Rinascita proprio nel giugno di quell’anno dal titolo emblematico: La democrazia interna, l’unità e la politica dei comunisti. I fatti di Budapest raffredderanno le attese, ma la questione, per Ingrao, è solo rinviata.
Intanto il dibattito sul cosiddetto neocapitalismo e sull’avvicinarsi tra la Dc di Moro e il Psi di Nenni e la nascita del centrosinistra accende gli animi del partito e inizia a marcare il progressivo distacco tra le posizioni. Se per Amendola era corretta la scelta dei socialisti, Ingrao vedeva nel nascente centrosinistra solo un aspetto funzionale allo stesso neocapitalismo, dunque non in grado di incidere realmente nei processi di trasformazione. Per questo occorreva costituire un nuovo fronte democratico nel quale fare convergere sia quelle componenti cattoliche e laiche critiche sul centrosinistra, sia i nuovi soggetti emergenti nella società.
Quest’ultimo è un aspetto essenziale nell’elaborazione ingraiana che fin da subito pone l’attenzione a ciò che si muove fuori dai partiti e, talvolta, contro di essi, come i movimenti sociali. A metà degli anni ’60 il tema crea divisioni nel partito e Ingrao intravvedeva nel nuovo movimentismo che si affacciava nella scena pubblica un importante protagonista per la trasformazione della società. Ricorda l’autrice che nel 1965 in un incontro dell’ORUF (organismo rappresentativo universitario fiorentino), Ingrao prospettava già una “una nuova maggioranza al di fuori dell’ufficialità dei partiti” capace di “compiere insieme un passo avanti nella elaborazione di una risposta organica alle questioni fondamentali del nostro paese”.
Le due anime del partito riescono a convivere fino alla morte di Togliatti. Con l’uscita di scena del Migliore, infatti, la dialettica si fa più esplicita e si consumerà nell’XI congresso del 1966. Ingrao riesce a raccogliere il favore di molti dirigenti nel partito che, pur non costituendo realmente una fazione, scontano l’accusa di frazionismo. Amendola, invece, si salda con la segreteria di Longo e ha la meglio. Le posizioni di Ingrao escono sconfitte ed è da questa sconfitta che si consolida il legame tra gli ingraiani che di lì a poco daranno vita al gruppo del Manifesto.
Quello che emerge dalla ricostruzione di Paolino è l’assenza organizzativa e strategica degli ingraiani compensata da un valore aggiunto di tipo valoriale. I vari Magri, Natoli, Pintor, Rossanda, si ritrovano uniti su moltissime analisi con Ingrao, ma restano soprattutto nell’ambito intellettuale. Quando si tratterà di dare una formazione organizzativa, sarà lo stesso Ingrao a bocciarla, giudicandola frazionista e, in definitiva, inutile sotto il profilo del rendimento politico. “Vi cacceranno” ripeteva spesso ai compagni del manifesto prima della inevitabile espulsione.
La ricostruzione di tutti questi passaggi è compiuta con pazienza dalla studiosa che si muove essenzialmente su due fonti: le testimonianze autobiografiche dei protagonisti e gli archivi tra cui, oltre a quello del Pci, spicca anche quello dello stesso Ingrao oggi ospitato presso il Centro per la Riforma dello Stato.
Ripensare a quegli anni e a quello scontro è perciò un buon esercizio che ci aiuta a valutare come vi sia stata una grande lotta politica dentro il Pci che non aveva nulla di personale, ma era mirata soltanto a spostare più in là il campo d’azione di quell’Io collettivo nel quale tutti si riconoscevano.

Un commento a “Recensione di Ingrao e gli ingraiani nel PCI”

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