Intervento al seminario “Le regole del voto. Rappresentanza e sistema elettorale dopo la sentenza della Consulta”, organizzato a Roma dal Centro per la Riforma dello Stato (6 febbraio 2017)
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1. – Il 4 dicembre 2016 rimarrà nella storia, oltre per quel che concretamente è stato, anche come una data emblematica: permarrà nel nostro immaginario collettivo con un surplus di simbologia. Finirà per evocare due possibili, contrapposti, scenari. A secondo di quel che sarà.
Nel peggiore dei casi, una nuova occasione perduta. Così come lo sono state le straordinarie vittorie referendarie del 2006 e del 2011, seguite però dal tradimento, dalla rapida ricomposizione della frattura provocata dall’esito del responso popolare e dalla successiva infausta riesumazione dei vecchi discorsi. Referendum di enorme portata simbolica, convertiti in sgradevoli intralci, rapidamente superati dal progressivo avanzare della nuova razionalità del mondo; fagocitati da quel che – con qualche genericità ed eccessiva approssimazione – suole chiamarsi il pensiero unico del neoliberismo; divorati da quel che, nella prospettiva del diritto costituzionale, si può definire specificatamente come neo-funzionalismo costituzionale.
Se anche questa volta questo fosse l’esito, il 4 dicembre segnalerebbe – credo in modo definitivo – la forza di quell’orizzonte che da tempo andiamo contrastando, segnerebbe la sconfitta storica dell’idea del costituzionalismo democratico per come si è andata definendo nel secondo dopoguerra, e, di contro, il consolidamento di un altro costituzionalismo, che potremmo convenzionalmente chiamare post-moderno.
È sgradevole segnalare questo scenario oggi, subito dopo un’entusiasmante e non scontata vittoria. Alcuni potrebbero ritenere che si tratti di un futuro da incubo, che sarebbe meglio esorcizzare. Eppure, l’esperienza passata, i reali rapporti di forza, le debolezze culturali delle forze politiche, la grande confusione che regna sotto il cielo, non permettono di escluderlo. Un sano pessimismo della ragione, allora, consiglia di individuare sin d’ora i rischi cui andiamo incontro, non foss’altro per renderci consapevoli che non ci si può acquietare sulle pur fondamentali vittorie. Con il successo referendario abbiamo evitato il peggio, ma non potevamo pretendere anche di costruire il meglio.
Il 4 dicembre potrà, però, essere ricordato – nella prospettiva da noi desiderata – come l’inizio del cambiamento, se saprà porsi all’origine di una lunga fase di riflessione critica sul passato e di lenta ricostruzione del futuro. Una data di svolta, a condizione di essere in grado di ricostruire dalle macerie del presente. Desidero qui discutere questa seconda prospettiva, nella convinzione che essa, se ben coltivata, possa servire a farci allontanare dalla deprimente situazione attuale.
Prima vorrei solo aggiungere un’ulteriore annotazione sul futuro possibile. Ciò che mi sento di escludere è che il 4 dicembre possa essere ricordato come una vittoria che ha permesso di ristabilire uno status quo ante, magari riportandoci all’età dell’oro del costituzionalismo del secondo dopoguerra, che invece è ormai definitivamente perduta. E forse non c’è mai stata.
Un ritorno al futuro è da escludersi non fosse altro perché le ragioni strutturali di crisi che hanno portato a progettare l’ultima revisione costituzionale sono ancora in gran parte sul terreno. Spetta pertanto a noi estirpare le radici se non vogliamo tra qualche tempo trovarci di nuovo di fronte ad un nuovo revisionismo costituzionale ancora una volta ispirato alle visioni neo-funzionali.
Non ci si può acquietare sulla vittoria referendaria anche perché le aspettative che abbiamo creato – abbiamo anche noi concorso a creare, opponendoci con rigore e coerenza alla riforma costituzionale – sono enormi e deluderle sarebbe letale. Se, come abbiamo sostenuto, il voto contrario al referendum era un voto per il cambiamento e di contrasto allo stato di cose presenti, alle degenerazioni della politica incapace di ascolto delle reali esigenza dei cittadini, dei giovani, dei diseredati, dell’intellettualità diffusa, e questi hanno in effetti votato in massa contro la riforma delle oligarchie, è ora giunto il tempo di dare prova che s’è fatto sul serio e che il cambiamento può avere inizio.
Insomma, quel che voglio dire è che sulle nostre spalle grava ora una responsabilità enorme di ricostruzione della città, di rifondazione della comunità civile, di rilegittimazione della politeia.
A farci desistere dall’impresa non possono farsi valere le condizioni di evidente difficoltà delle forze politiche organizzate cui solitamente facciamo riferimento. Non sottovaluto affatto le convulsioni cui stiamo assistendo: sembra che nulla riesca in Italia a far uscire la sinistra dalla cupio dissolvi che l’attanaglia. Però, a ciascuno il suo. A noi – organizzazioni politico-culturali, intellettuali impegnati, cittadini preoccupati – spetta il compito di prospettare soluzioni ed elaborare idee, nella speranza che presto o tardi saranno questa a prevalere sugli interessi costituiti (secondo l’auspicio keynesiano). Questo può essere il nostro più serio contributo anche alla ricostruzione di una sinistra. Nulla di più si può pretendere, nulla di meno bisogna dare.
2. – Iniziare un lungo percorso ricostruttivo, dunque. Di fronte a questo così gravoso impegno lascia assai perplessi la reazione cui si è assistiti dopo il 4 dicembre: è prevalso “il chiacchiericcio sulle sorti del governo e sulla durata della legislatura” (così Mario Dogliani). Tutto sembra essere cambiato, anche se nulla in realtà lo è. Il nostro orizzonte futuro sembra dipendere dalla sorte di Matteo Renzi o magari da quella di Paolo Gentiloni Silvieri. Dovremmo riuscire a chiarire che a noi di Renzi e Gentiloni – pur nel pieno rispetto delle persone – non ci importa granché. Nulla ci interessa delle sorti personali dei leader, quel che ci preoccupa sono le strategie. Ed è per questo che con ancor maggior coraggio dovremmo convincerci che in fondo – di fronte alla storia – poco ci importa anche delle convulsioni di qualsivoglia forza politica: se Sinistra Italiana si lacererà ancor prima di nascere o se il Partito Democratico si dividerà sono questioni che hanno un loro pur considerevole rilievo, ma non di questo dovremmo occuparci. Sia detto anche in questo caso con il massimo rispetto per le persone e per le diverse prospettive di configurazione politica che ciascuno legittimamente propugna, ma non saranno né Nicola Fratoianni né Massimo D’Alema a salvare la democrazia costituzionale. Nessuno lo farà se non avrà il coraggio della rottura. Se non si avrà il coraggio di sondare le correnti profonde, rompendo paradigmi dominanti, indicando strategie di innovazione sociale e istituzionale.
3. – Per costruire il futuro cerchiamo di capire, anzitutto, il presente e quel che è stato.
Non ho qui il tempo per esaminare il passato. Mi è capitato altre volte di farlo e ora non posso che limitarmi a ribadire la necessità di una visione di lungo periodo che deve governare le nostre riflessioni: non siamo giunti nella palude per sbaglio o per caso, né per colpa di alcuni sciagurati ed occasionali governanti. La legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi non è stato un prodotto estemporaneo, è stato il frutto di un lungo regresso. Discutere ora del passato ci porterebbe, però, troppo lontano. E allora, limitiamoci qui a riflettere su quel che è stata l’ultima tappa. Torniamo al 4 dicembre per cercare di comprendere il senso ultimo: la sua essenza di valore.
Non commetterò l’errore di molti, di tutta la politica politicante, che vuol assegnare un univoco significato al responso del corpo elettorale. Ciascuna forza politica – con sfacciata disinvoltura quelle populiste – desidera attestarsi la vittoria in toto, abbiamo assistito persino all’incredibile tentativo di attestarsi in toto la sconfitta che apparterebbe ad un solo partito. Non è così, le ragioni che hanno spinto le persone concrete, il corpo elettorale diviso, a votare in un senso o in un altro sono diverse. Dovremmo distinguere la brezza di superficie dalla corrente di fondo, quest’ultima meno visibile ma più rilevante.
Guardando in superficie si scorge un voto motivato dalla sola rabbia: contro i gufi ovvero contro gli oligarchi; un voto di mera insofferenza: contro il vecchio che trattiene ovvero contro la politica che corrompe; un voto populista: un populismo dall’alto che ha sorretto la riforma contro un populismo dal basso che l’ha contrastata. Un voto, dunque, rancoroso e irriflessivo.
Poco riusciremmo a costruire se ci fermassimo a questo. Lo sdegno è una categoria pre-politica, la quale o riesce ad assumere una sua razionalità politica ovvero si esaurisce nel gesto di ribellione. Non è un caso che si parla solo di questo tipo di voto, nel tentativo di sterilizzare la portata destabilizzante e potenzialmente di forte innovazione del 4 dicembre.
È necessario guardare più nel profondo, considerare le diverse Weltanschauungen, le culture per come si sono divise, quelle che hanno portato alcuni a prospettare un cambiamento dell’assetto costituzionale e quelle che hanno indotto altri a contrastarlo. Non può negarsi infatti che nel referendum si siano anche scontrati due diversi modi di intendere il rapporto tra governanti e governati, diverse visioni di democrazia costituzionale. Da un lato, coloro che hanno ritenuto – e ancora ritengono – essenziale semplificare la complessità sociale, rendere autoreferenziale il sistema politico e le istituzioni rappresentative, concentrare i poteri nelle mani degli esecutivi (seguendo il modello classico della democrazia d’investitura); dall’altro, all’opposto, chi crede si debba estendere la partecipazione e legittimare i conflitti sociali, rendendo le istituzioni rappresentative il luogo della composizione e del compromesso politico (secondo un diverso e altrettanto tipico modello di democrazia pluralista e conflittuale). La prima prospettiva è quella perseguita negli ultimi vent’anni, non solo in Italia. La seconda ha vinto il referendum.
4. – È da qui, io credo, che dovremmo ripartire per risalire la china. Una risalita difficile perché si tratta di ripensare le forme reali della democrazia costituzionale. Anzitutto individuando i punti più esposti di crisi. Tralascio, per ovvie ragioni, di soffermarmi sulla questione sociale che pure è parte integrande della crisi della democrazia pluralista e conflittuale, per limitarmi a qualche considerazione sugli aspetti più propriamente istituzionali.
Per questi profili ritengo che siano tre le questioni decisive, le tre vie che è necessario cominciare a percorrere per cambiare la rotta.
Due sono condensate nel titolo di questa mia relazione, e sulle quali dirò: (a) La rappresentanza politica ormai svanita e da ricomporre; (b) il ruolo del Parlamento ovvero l’intero sistema parlamentare che è evaporato e a cui è necessario ridare corpo e anima. Non tratterò, per ragioni di tempo e per non allargare troppo il discorso già assai ampio, del terzo aspetto che pure ritengo non possa essere eluso se si vuole affrontare la crisi della democrazia costituzionale e della sua configurazione come democrazia pluralista e conflittuale. Lasciatemi solo dire che (c) anche l’Europa e la dimensione del costituzionalismo nei grandi spazi rappresenterà un banco di prova su cui verremo giudicati. Una questione che non può essere separata da quel che mi accingo ad esporre.
5. – Dunque la rappresentanza politica. Su questo punto vorrei iniziare con una sorta di provocazione ovvero di détournement. Il sistema politico sta affrontando finalmente la questione della legge elettorale. Dopo il referendum, a seguito di ben due interventi della Corte costituzionale che hanno fatto l’inimmaginabile (hanno scritto in vece del Parlamento la più politica delle leggi, quella elettorale), infliggendo due sonori schiaffi agli altri poteri costituiti (al Parlamento, al Governo, alla stessa rappresentanza popolare, tutti ne sono usciti malconci, sebbene i diretti interessati sembrano non rendersi conto), stiamo probabilmente alla vigilia di una nuova legge che – con qualche ottimismo – possiamo sperare recuperi un equilibrio tra le ragioni della governabilità e quelle sin qui pretermesse della rappresentanza. Bene. Su questo fronte non possiamo che auspicare che siano tenute nel massimo conto le ragioni della rappresentanza reale. Per non apparire reticente mi spingo a dire – senza però avere lo spazio per motivare, e me ne scuso – qual è a mio parere il migliore dei sistemi elettorali possibili oggi in Italia: un sistema di riparto proporzionale dei seggi, con un significativo sbarramento (al 4 o forse, ancor meglio, al 5%), con liste uninominali distribuite in piccoli collegi. Stante il bicameralismo paritario non diversificherei in nulla i sistemi adottati per le due Camere (l’indicazione costituzionale dell’elezione a base regionale dei senatori verrebbe garantita dalla delimitazione dei collegi e dall’uninominalità delle candidature, non da altro).
Ma – qui è la deviazione di piano prospettico che provo a sollecitare – non mi sembra sia questo il punto essenziale. Ove anche ottenessimo il migliore dei sistemi elettorali possibili (quale che esso sia), pensate avremmo risolto i problemi della rappresentanza politica svanita? Mi rendo conto che c’è anche della provocazione in quel che sto affermando e buon gioco avrebbe colui che mi facesse rilevare che l’approvazione di una buona legge elettorale rispettosa del principio di rappresentanza segnerebbe una netta discontinuità dopo ventiquattro anni di infatuazione maggioritaria. Avrebbe ragione, lo scontro politico sulla legge elettorale è oggi decisivo. Ma, questo ragionevole interlocutore immaginario non avrebbe risposto alla mia domanda. Verrei allora sospinto a chiedergli, in modo martellante e animo turbato: ma su quali fondamenta vuoi ricostruire la rappresentanza politica in seno al Parlamento? Certo, si realizzerebbe in tal modo, finalmente, una rappresentanza reale; ma di chi, di cosa? Di un popolo scomposto, smarrito, privato di legami sociali e di visione collettiva? Non credi si incorra nel rischio di garantire una rappresentanza dimidiata, invertebrata, di partiti privati di legittimazione sociale e pieni solo del senso di sé? Su quali basi credi si fonderebbe questo cambiamento improvviso? Imposto dalla forza dei giudici costituzionali, ma nel vuoto della politica.
Se vogliamo dare solide fondamenta al cambiamento auspicato dobbiamo guardare anche, soprattutto, a ciò che v’è dietro, che si pone come presupposto di legittimazione della scelta dei sistemi elettorali, di quelli ispirati dal principio proporzionale. In sostanza si tratta di mettere a tema la realtà della rappresentanza politica e non soltanto le sue forme istituzionali.
Eviterò in questa sede discorsi teorici sulla materialità della rappresentanza politica ed i soggetti che danno senso reale al concetto, contrapposti alle teorie formalistiche della rappresentanza. Mi limiterò a rilevare che non ha senso parlare del rapporto di rappresentanza senza volgere lo sguardo anche, soprattutto, al rappresentato. Questo mi induce a ritenere che oggi affrontare la questione della crisi della rappresentanza deve voler dire toccare almeno altri due aspetti, oltre a quello delle modalità di voto. Da un lato, la questione delle altre forme di espressione della volontà popolare, dall’altro quella delle forme di organizzazione di questa stessa volontà.
Si tratta, in sostanza, di riflettere sulle trasformazioni della rappresentanza in un’epoca in cui il popolo non si sente più rappresentato dalle istituzioni (dal Parlamento in particolare) e i cittadini non concorrono più a determinare la politica nazionale associandosi in partiti, ma, eventualmente, in altro modo. Potremmo deprecare entrambi i fatti, tuttavia questo è il dato di realtà dal quale partire. E allora delle due l’una: o si ritiene si possa fare a meno del Parlamento e dei partiti oppure diventa necessario e urgente ricollegare questi alle diverse espressioni in cui si manifesta la volontà popolare.
6. – Ripensare le forme della partecipazione. Un tema complesso, ma per iniziare basta poco, è sufficiente riscoprire il ruolo degli istituti di partecipazione già previsti in Costituzione. Ad esempio, il referendum che deve trovare ancora una collocazione certa nell’ambito della nostra forma di governo parlamentare. Modificare la legge del 1970 per anticipare il giudizio di ammissibilità della Corte, favorire il sistema di raccolta delle firme mediante l’uso degli strumenti informatici, imporre per via di regolamento parlamentare l’obbligo al Parlamento di dare seguito a – o almeno di discutere – le decisioni di natura puramente abrogativa che un esito positivo del referendum determina. Non sarebbe male anche un ripensamento della giurisprudenza costituzionale sull’ammissibilità, da auspicare meno ondivaga e indeterminata.
L’iniziativa legislativa popolare potrebbe rappresentare un altro strumento non solo di efficace partecipazione, ma persino pedagogico per ridare fiducia al popolo sul ruolo alle istituzioni, se solo si ponesse in essere quel che da tempo andiamo teorizzando: non c’è bisogno di nessuna grande riforma per resuscitare uno strumento ucciso dalla sordità del Parlamento. È l’assenza di ogni obbligo di discutere i disegni di legge popolare e la mancanza di una corsia privilegiata per tali disegni di legge che hanno reso queste iniziative solo fonte di frustrazione e rabbia, concorrendo alla delegittimazione del Parlamento. Credo sia giunto il tempo per pretendere quella piccola modifica dei regolamenti parlamentari che da tempo auspichiamo: si garantisca la calendarizzazione entro sei mesi dei disegni di legge di iniziativa popolare e l’obbligo di giungere a decidere nel merito.
Tornare a pensare al referendum e all’iniziativa popolare sono solo due esempi per indicare una rotta.
7. – Un’avvertenza sembra necessario aggiungere. Riscoprire le virtualità della partecipazione per non rinchiudersi dentro i palazzi della politica e delle istituzioni può costituire un inizio, ma può anche rappresentare un rischio.
Può costituire un inizio se tramite la partecipazione si riesce a ricostruire un rapporto tra cittadini e istituzioni della rappresentanza, riproponendo al centro dell’organizzazione dei poteri il Parlamento come luogo del compromesso politico e sociale. Può altresì rappresentare un rischio qualora le dinamiche della partecipazione finissero per rivoltarsi contro il Parlamento facendo prevalere lo spirito populista e antiparlamentare così diffuso oggi, non solo in Italia.
Ed è per questo che, oltre alle forme di partecipazione popolare, bisogna anche occuparci delle forme di organizzazione dei poteri. Del Parlamento in primo luogo.
Ripensare all’organo della rappresentanza anzitutto rivendicando un riequilibrio della forma di governo, che si è andata progressivamente sbilanciando a favore dell’istituzione governo. È questo un processo iniziato quarant’anni fa, che è stato sospinto dalla mistica della governabilità e dall’illusione ottica della debolezza o instabilità degli esecutivi. Se oggi si vuole ricostruire la democrazia pluralista e conflittuale diventa necessario ripensare al ruolo del Parlamento, liberarlo anzitutto dalla situazione di minorità rispetto agli esecutivi, aiutarlo a ritrovare la sua autonomia di organo costituzionale.
Il Parlamento è oggi ad un bivio. Rischia di essere definitivamente svuotato, perdendo il suo ruolo entro il sistema dei poteri a favore del Governo, abbandonato al suo triste destino da un popolo distratto e indifferente. Può ancora rilegittimarsi, ma a condizione che riesca ad interpretare il senso del referendum e del cambiamento che esso permette. Potrà salvarsi solo se riesce a dare voce al rappresentato.
Dovremmo avere ben presente, inoltre, che le sorti del Parlamento si legano indissolubilmente a quelle della democrazia, giungendo a determinare la sua qualificazione. Una democrazia pluralista non può essere governata senza un organo che sia effettiva rappresentazione della diversità del corpo sociale, diversità che l’organo governo non può neppure aspirare a interpretare. Una democrazia conflittuale deve trovare un luogo istituzionale di composizione che riesca a garantire il compromesso tra le diverse forze politiche. Le democrazie pluraliste e conflittuali, dunque, non possono fare a meno di Parlamenti autonomi, a differenza delle democrazie identitarie. Ecco tornare i due modelli di democrazia sopra evocati che delimitano lo scontro politico più profondo e che ci devono guidare nel progettare il cambiamento.
Riscoprire la centralità del Parlamento è impresa titanica di questi tempi di dominanza degli esecutivi, ma anche in questo caso si tratta di iniziare una lunga marcia e dunque si può partire con un piccolo passo.
Iniziamo a riorganizzare i lavori del Parlamento per restituire dignità al lavoro parlamentare. Non si può continuare ad assistere allo spettacolo di un Parlamento come puro teatro di scontro: da un lato il Governo – con al seguito una maggioranza silente – che impone ordini del giorno, emendamenti, fiducie, tempi; dall’altro minoranze parlamentari impotenti che urlano ma non partecipano, che si oppongono sostituendo alla ragion politica la logica degli algoritmi che sfornano migliaia di emendamenti privi di senso comune, al solo fine di allontanare la decisione. Un’opposizione impedita ad esercitare un ruolo attivo, piegata ad una cieca pratica di ordinaria follia ostruzionistica. Così il Parlamento non può che morire. Morire d’inedia o forse di vergogna per l’indecenza della rappresentazione.
Per riscoprire le virtù del confronto, le necessità del compromesso, le libere dinamiche della politica parlamentare, il primo passo è quello di cambiare le regole del gioco, rivoltando i regolamenti parlamentari. Nuove regole che favoriscano il confronto, non invece impediscano la discussione. Chiaramente ammettendo limiti al potere d’ostruzione delle minoranze, ma con la garanzia della permanente libertà di dibattere e l’assicurazione di poter esercitare tutte le prerogative dei parlamentari che rappresentano la nazione (ma anche la diversità che in essa si specchia) e che devono poter esercitare il mandato senza vincoli.
Un piccolo passo sarebbe quello del cambiamento dei regolamenti parlamentari, anche in questo caso nulla più di un’indicazione di marcia. Consapevoli che ben più radicali innovazioni potrebbero proporsi. Prima o poi dovremmo anche ridiscutere della struttura complessiva dei poteri, del bicameralismo, delle funzioni esercitate, del significato delle leggi, del riordinamento del nostro sconclusionato sistema delle fonti. Ma almeno iniziamo dall’organizzazione dei lavori. In fondo, non è difficile individuare le singole misure che possano assicurare la discussione e il confronto in Parlamento, quel che manca è la volontà politica e il coraggio del cambiamento.
8. – Fatemi allora concludere sul coraggio che dovremmo avere, sulla necessità di accentuare il nostro radicalismo politico e culturale.
Non è un mio presunto giacobinismo che mi induce a chiudere con una richiesta di essere più audaci. È la convinzione invece che non si potrà in nessun caso restar fermi, che nel volgere di poco tempo il mondo muterà comunque in maniera profonda. Se non saremmo noi a promuovere il cambiamento altri lo faranno per noi.
La mia sensazione è che la storia stia subendo un’accelerazione. Per andare ancora più in dietro o cambiare verso non è ancora stabilito. Basta guardare ai nostri confini. Donald Trump, Theresa May, i populismi di destra, il ritorno degli Stati imperiali (Russia, Cina, Germania, Usa) vincono e convincono promettendo rotture e riscritture degli equilibri del mondo. Ma anche a sinistra alcuni segnali di nuovo radicalismo devono essere colti. Bernie Sanders negli Sati Uniti, Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, Podemos in Spagna, Syriza in Grecia, ora persino il moderato Benoit Hamon sembrano aver compreso che non è più il tempo della guerra di posizione, ma si deve passare ad immaginare un futuro con proposte fortemente innovative. E in Italia?
A noi che non abbiamo potere spetta solo fornire idee. Speriamo che qualcuno ci ascolti.

Un commento a “Dopo il referendum. Crisi della rappresentanza e riforma del parlamento”

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