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Rifiuto

L’intervista è una riposizione di dichiarazioni e conversazioni private di Francesco Matarrese tra il 2007 e il 2011. Nove agosto duemilaundici. Per Dora Garcia.

Su arte, lavoro e politica

D. Quando è cominciata la tua arte?
R. Agli inizi degli anni settanta, quando l’utopia inconclusa dell’arte concettuale viene chiamata drammaticamente a testimoniare delle promesse non mantenute dell’avanguardia inizia una mia arte processuale con una specifica idea di ripetizione e uguale. Per il minimalismo dominante americano del tempo la ripetizione, “una cosa dietro l’altra”, era il motivo antirelazionale per eccellenza. Per me è l’incontro con l’enigma e, successivamente, con la pratica della negazione critica, che radicalizzo nel corso degli anni ’80 e ’90 con il rifiuto del lavoro astratto e con un severo silenzio pubblico. Durante l’attività di negazione l’opera scompare, lasciando sopravvivere solo un resto, che si riposiziona assumendo il ruolo di testimonianza della mia nuova esistenza d’artista. Dentro il “non”, dentro il rifiuto, sono leggibili gli esiti estremi dell’imitazione e della ripetizione romantica con la sua influente e sinistra profezia politica.
D. Nel 1972 annunci una nuova arte con la seguente dichiarazione: “1972, 1, 2, 3, 4. Dichiaro concluse tutte le mie precedenti ricerche. Arte in principio seguente. Provo un ritmo rispettando il precedente 1972, 1. Tale sarà l’anno di nascita di Arte in principio seguente”. Come nasce quest’arte?
R. Con questa dichiarazione, il 18 marzo 1972, annuncio la nascita di un’arte dell’avvenire. Il breve e laconico aforisma è inciso e ripetuto su quattro targhette in metallo che colloco alle pareti della Galleria d’arte Centosei del Teatro Petruzzelli di Bari, in occasione della mia prima mostra personale. A distanza di pochi mesi, il 19 settembre, invio al gallerista Franco Toselli di Milano un telex che contiene alcune precisazioni sulla natura di quest’arte. La sua estensione è dichiaratamente dialettica. E’ un’arte che ambisce a spostarsi con la stessa realtà in movimento. Queste precisazioni ispirano un piccolo libro pubblicato da Toselli nel 1973 ed esposto nello stesso anno a Roma nella mostra “Contemporanea”, all’interno della sezione “Libri d’artista” curata da Yvon Lambert e Michel Claura. Tra il ’73 e il ’74 la mia arte si confronta con il lavoro operaio in veloce e radicale trasformazione politica. Nel 1974 pubblico su Flash art il “Saggio di estensione segnico-dialettico” (oggetto di una mostra da Toselli), una sorta di breve inventario dei diversi artefatti linguistici e materiali del lavoro umano e artistico. A testimonianza di questo nuovo impegno c’è un breve testo scritto a Berlino nel ’73 con Mario Merz sui numeri di Fibonacci e soprattutto la cura dell’edizione italiana dei Manoscritti matematici di Karl Marx.
D. A metà degli anni settanta l’intero progetto rivoluzionario radicale in occidente collassa, segue un’irreversibile crisi della politica e della neoavanguardia. L’arte concettuale rinuncia alla sua utopia. Come cambia la tua arte?
R. La messa in discussione dell’arte concettuale analitica trascina con sé l’intero modernismo formalista e riduttivo e denuncia la scandalosa trasformazione dei suoi ideali nel loro esatto contrario. In un’opera di meditazione su Picasso Dov’è l’arte moderna?, esposta alla Galleria civica d’arte moderna di Torino nel 1977, sollevo una critica diretta al modernismo formalista e alla sua arte indifferente:”L’indifferenza di Picasso verso un determinato genere artistico nella rappresentazione di uno stesso oggetto, è la stessa che provò, ma con quasi duecento anni d’anticipo, il primo operaio in fabbrica (l’altro ex-artigiano) verso un determinato genere di lavoro. Allora dov’è l’arte moderna e d’avanguardia?”. L’arte moderna (avanguardie e modernismo) è criticata come istituzione dell’industria culturale per il suo carattere di “indifferenza”. L’arte in generale o “indifferente” (è il principio dell’aquila di Marcel Broodthaers) non può sfuggire alle leggi della società capitalistica, altro non è che “lavoro in generale e astratto” ovvero “merce in generale” (Marx). Quest’arte riflette il terrorizzante mondo in cui ogni cosa è indifferentemente scambiabile con qualsiasi altra cosa. Il mio contributo alla discussione è forse consistito nell’aver rilevato sin dagli anni settanta, politicamente, che “l’arte in generale” era in effetti la controparte artistica dello sfruttamento capitalistico. Collegandomi poi con la strategia del “rifiuto operaio” del più imponente movimento di resistenza in occidente degli anni settanta, quello italiano, e del suo massimo protagonista teorico, Mario Tronti, il 25 marzo 1978 lanciai il mio attacco con un piccolo telegramma inviato a un gallerista di Roma: “In merito mio mostra presso Antiquaria Romana confermo rifiuto del lavoro astratto in arte impossibilità partecipare et dare mie produzioni artistiche conduco via appartata a Bari per conseguente ricerca post-arte ovvero su ciò che viene dopo l’arte saluti Francesco Matarrese”. Nello stesso anno rilasciai altre dichiarazioni simili su Domus e su Flash art in cui ribadivo la volontà artistica di un rifiuto del lavoro astratto e in generale in arte. Da quel gesto a oggi molti anni sono passati, ho capito che il rifiuto doveva spostarsi. Spostarsi in molti sensi. Non soltanto per non essere a sua volta “generale” e assoluto. Ma anche per non essere, virtuoso, eletto, potente.
D. Dopo questo telegramma di rifiuto c’è la tua “uscita” dall’istituzione e la presa d’atto del tramonto della neoavanguardia. Ma la tua attività non scompare, anzi si trasforma in una vera e propria pratica di negazione critica. Cosa rimane della tua arte?
R. Dopo aver messo in discussione l’istituzione arte moderna e aver dichiarato il rifiuto del lavoro astratto in arte, avvio nel 1980 una pratica della negazione critica dell’arte come luogo dell’autonomia e dell’origine impossibile. Mentre negli anni precedenti avevo sottratto all’arte l’oggetto (valore di scambio) sostituito dal concetto, ora sottraggo l’opera nella sua interezza (il qualcosa) per riposizionarla come elemento negativo e critico. La non-arte è sempre più praticamente vera. Durante l’attività di negazione critica l’opera scompare, lasciando però sopravvivere un resto destinato a raccontare la fine del modernismo e dell’avanguardia attraverso la decostruzione dell’idea di originalità, autonomia e perfezione. All’inizio degli anni ’80 affido all’oggetto di collezione, naturale rovesciamento dell’opera, e alla figura del collezionista radicale, per natura incline al valore d’uso (come nel caso di Walter Benjamin collezionista), il compito di testimoniare l’esistenza di questo resto.
D. Il tuo rifiuto dunque si emancipa in negazione critica. In che consiste questa pratica di negazione?
R. Per tutto il corso degli anni ’80 interpreto il ruolo di un collezionista radicale alla ricerca dell’esemplare originario e perfetto, che però drammaticamente si allontana e sfugge. Inseguo per esempio il disegno michelangiolesco originario (attraverso le sue copie) o il carattere tipografico ideale. La strada è però seminata di errori, impossibilità e sconfitte. Questi errori sono l’allegoria di una fine. In una lettera del primo dicembre 1980 la libraia antiquaria Fiammetta Olschki Witt mi comunica l’impossibilità di rintracciare un esemplare perfetto (sogno modernista) di un libro da me cercato, l’Eusebius stampato da Jenson. Quello a disposizione ha il difetto di non essere completamente originale e non può che essere rifiutato. E’ una lettera allegorica che mette allo scoperto la sconfitta e l’errore (la mancanza dell’originale). Queste sconfitte tuttavia liberano un misterioso resto, una negazione, una sorta di non-arte. Questa non ha solo il compito di continuare a testimoniare il mio rifiuto in arte ma soprattutto quello di raccontare il tramonto del progetto avanguardistico e neoavanguardistico e di elaborare il trauma della sua morte. Non a caso per Marx il rifiuto del lavoro astratto e in generale è anche rifiuto del lavoro morto.
D. Dietro l’assenza di un originale c’è dunque un lavoro morto, all’interno del quale ti inoltri. E’ l’inizio di un viaggio e di una lotta.
R. Alla fine degli anni ’80 e per gran parte del decennio successivo intraprendo diversi viaggi nel sud d’Italia. Qui i romantici avevano fissato la scena dei primi poeti-coloni greci, fondatori di polis cioè di miti e comunità. Essi sono stranieri in terra straniera, dice Hölderlin. Patiscono ciò che è estraneo per ritrovare il “proprio”. I miei viaggi nel sud prendono atto ben presto del novecentesco tramonto culturale di questa “scena romantica” del mito fondatore. Con l’aiuto di un maestro antico, un mentore, Fedele Mastroscusa, dal 1989 riattraverso la Calabria. Viaggio a partire dal declino di questo mito, dalla sua mancanza. E’ un compito indispensabile, suggerisce Jean-Luc Nancy, per ritrovare la politica e la comunità. In questo altro sud, a me sconosciuto mi sento straniero in terra straniera. E’ esterno, è senza qualcosa. Qui non fondo città o comunità ma apro delle porte, varco dei confini, mi inoltro in una terra nuova, come il maestro ribadirà nel corso degli anni ’90. Non ho un pubblico ma solo dei testimoni che incontro sulla strada e che legittimano la mia opera oramai tutta esterna e negativa. Questi testimoni appaiono durante il tragitto come esistenze separate, quasi metafisiche. Mi accompagnano misteriosamente. Sono esistenze a volta reali, a volta dentro un racconto, in lotta, in viaggio, in sosta, combattono con me contro la morte. Poi dal sud risalgo verso il nord sino in Germania. Nel ’90 all’Antikensammlung di Monaco, durante una tappa importante di questo viaggio, ho la conferma che proprio dietro l’impossibilità dell’originale si nasconde un lavoro di morte da combattere. Qui studio, nella prima sala del museo, la kylix 2620 di Euphronios, Ercole contro Gerione, servendomi anche di vecchie foto dell’opera prima del restauro. Queste immagini fotografiche attirano il mio interesse perché testimoniano una fuga singolare. L’originale dell’opera di Euphronios, oramai assente e negato dal restauro, fugge infatti attraverso queste immagini. Questa negazione la ritrovo doppiata e allegorizzata all’interno della stesa kylix, nel crudele e mortale conflitto tra Ercole e Gerione. Il primo, fondatore di città, è ora l’eroe della negazione che vive in un’immagine senza origine, il secondo, simbolo dell’inganno, cerca con le sue tre teste di confondere i pensieri del nobile avversario. Tra i due si scatena una lotta titanica. All’esterno del museo, dove una volta nella piazza si ergeva il Padiglione ai caduti del nazionalsocialismo, la mia visione d’artista è testimone di una vera e propria mortale gigantomachia tra l’eroe e il mostro. Questa piazza sembra evocare le ombre più sinistre della guerra e della modernità. Tutti i protagonisti di questi racconti, che i resti delle mie negazioni fanno parlare, sono impegnati in un conflitto crudele e definitivo. La mia opera è in lotta.
D. Dopo il rifiuto, fuori dall’istituzione, inizi dunque un viaggio in terra straniera. In quale luogo ti trovi? Dove si trasferisce l’arte?
R. Chiarire la natura della radicalità del mio rifiuto, testimoniata nel tempo da un severo silenzio pubblico, è fondamentale perché è quella che mi ha permesso di iniziare il viaggio e di inoltrarmi nel campo dell’opera “senza qualcosa”, la terra straniera, come intuì Hölderlin. Il nostro tempo sta completando la rottura della vecchia forma, l’arte è impegnata a togliere il “fare qualcosa”. Il “qualcosa” nell’arte, in un mondo di merci, è lo scandalo inaudito! L’obiettivo è togliere l’ultimo “qualcosa”, dando la possibilità all’arte non solo di continuare a essere (anche senza il “qualcosa”) ma soprattutto di liberare il segreto della sua antica vocazione alla sovranità. Ecco giunti a un buon centro politico. Questo è il modo in cui mi sono inoltrato nel campo della non-arte, che è naturalmente un campo insidioso, dove sembra prevalere la legge della spietatezza e dell’inganno. Ma è dentro il lavoro morto che bisogna cercare il lavoro vivo. Anche in questo caso per me non esiste una non-arte “in generale” e nemmeno una non-arte come contrario dell’arte (rimarremmo solo a testa in giù e nulla cambierebbe). La non-arte è solo una fase provvisoria, politicamente provvisoria. Dopo il tragico fallimento della ”estetizzazione della politica” cosa significa “politicizzazione dell’arte”? Forse liberarsi di tutti i “qualcosa” dell’arte, lasciandole riprendere il compito di pensare l’inaccettabile mancanza dell’essere-in-comune nel tempo dell’interruzione del mito. Il rifiuto in arte dunque reclama un’altezza di radicalità tale da debordare gli stessi limiti dell’arte. Il rifiuto cerca se stesso altrove, nel luogo dove la vecchia politica ha fallito. La sensazione che ho è che l’arte si sia oramai trasferita in un altro luogo (pur rimanendo se stessa). Ecco la ragione del mio viaggio. La mia cesura è nell’essere straniero in terra straniera. La mia idea, dopo il rifiuto del ’78, non è solo stata quella di sottrarre all’arte il “qualcosa” per capire dove fosse, ma di averlo fatto con la massima decisione possibile. E non certo per stupire ma per garantire le condizioni di un nuovo e reale viaggio verso l’esterno. Quando Clement Greenberg e Michael Fried negli anni sessanta respinsero con fermezza qualsiasi ipotesi di opera emergente da uno spazio esterno, culturale, pubblico, e la definirono “non-arte”, credo che diedero indirettamente un nome ad una condizione per l’arte. Nel rimosso di tale “rigetto” è riconoscibile una volontà d’arte completamente diversa da tutto ciò che si era fatto nel passato. Talmente diversa da evocare l’origine politica dell’arte. Non semplicemente un’arte di denuncia e resistenza ma un’arte così radicale da proporsi come integralmente politica, di rifiuto. Nel periodo più tragico del novecento, quando l’intero fronte della cultura in occidente gridava le ragioni di un profondo sdegno morale contro il fascismo internazionale è forse da rintracciare uno dei grandi punti di partenza del rifiuto in arte. Bisogna però aggiungere, e non è cosa da poco, che l’antifascismo non fu solo denuncia della violenza e della barbarie ma ipotesi di una radicale rigenerazione morale e presa d’atto che era iniziata una guerra civile europea totale. Con la nascita dell’antifascismo (dalla Guerra civile spagnola in poi) ha origine la prima grande opposizione al potere totalitario, il primo grande “rifiuto”. Se il rifiuto deve essere radicale non si può avere dubbi sulla scelta di campo da fare. Il mio rifiuto vuole richiamarsi a questo grande rifiuto ed è l’ultimo di una serie di “rifiuti” che in Italia hanno trovato l’epicentro morale dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale in poi. Mi riferisco al rifiuto espresso per esempio dalla cinematografia neorealista (con la sua “poetica del rifiuto” secondo Lotman) o al rifiuto operaio teorizzato da Mario Tronti negli anni sessanta. Sono tutte forme di messa in atto di un “antifascismo” ben oltre la stagione della resistenza. Il nome vero dell’Antifascismo deve ancora venire. Verrà forse dalla “voce” degli artisti. La radicalità del viaggio dunque è strettamente collegata alla radicalità del rifiuto.
D. L’esterno è il luogo del tuo viaggio. Come legittimi questo esterno?
R. Si, credo che l’esterno non sia semplicemente il contrario di interno, di anima. Io penso che queste parole siano da interpretare nel nostro tempo in un contesto inevitabilmente spettacolare e ideologico, come quando vediamo un bergfilm nazista. Siamo dentro la zona grigia d’eccezione in cui parole e immagini possono definitivamente scomparire e in cui possono rinascere con un altro significato. Per esempio la “natura” oggi è paradossalmente l’altro nome della metropoli delle avanguardie. Quando Jasper Johns situò il significato dell’opera all’esterno sicuramente mise in crisi il modello essenzialista e purista greenberghiano. Tuttavia collocare il significato dell’opera all’esterno non è semplicemente una scelta. Significa porre la questione di una nuova legittimità. La vera domanda che Target di Jasper Johns pone è la seguente: il nuovo oggetto esterno quale prova della sua anima è ora capace di mettere in campo? Quale è la sua “natura”? Ma la domanda non è solo ontologica. Il ready made essendo un medium, un mezzo di lavoro, una parte di macchina, pone un’altra questione: esiste un nuovo lavoro? Il lavoro artistico moderno è accompagnato sin dal suo nascere dall’idea che l’opera deve avere un senso. La rivalutazione del lavoro artistico ai tempi di Giotto è prima di tutto rivalutazione del lavoro dell’uomo che esercita una volontà conforme a uno scopo. Il lavoro è si ricambio organico tra uomo e natura, ma un ricambio dotato di senso, avverte criticamente la cultura borghese. Infatti il lavoro degenera quando non è più un fine, allora diventa lavoro morto come nell’economia capitalistica. Proprio qui scopriamo che ciò avviene soprattutto quando questo mezzo non è legittimato, quando provoca alienazione. Il ready-made essendo un oggetto proveniente dall’esterno è alla ricerca della sua legittimità e di un nuovo significato. Sino a che punto il nuovo mezzo, il nuovo lavoro, è capace di “esprimere una vita”, avrebbe detto György Lukács? Esprimere una vita è il tema del lavoro vivo. Quando Robert Morris iniziò la sua “resistenza alla separazione percettiva” (nelle Notes on Sculture del ’66) fu presentissimo in questa discussione. Secondaria diventa la circostanza che lo mosse (le precisazioni su Donald Judd). Era nuovamente apparsa, con la “resistenza alla separazione percettiva”, la questione della forma, dell’unità, della natura e quindi della legittimità (la grande forma a cui guardavano Robert Musil e Arnold Schönberg). Ma ciò avveniva ora all’esterno dell’opera. E’ verosimile che quando nel 1961 al Living Theatre di New York Column improvvisamente cadde Morris comprese che in qualsiasi momento la legittimità, “l’intera situazione” (è l’espressione di Morris intercettata da Fried), poteva fratturarsi (lines of fracture). Insomma comprese che la forma unitaria difficilmente era raggiungibile attraverso l’effetto minimalista. E’ così che dentro i processi, tra unità e fratture, si iniziava a porre la questione della legittimità esterna non nei vecchi termini essenzialisti e puristi ma nei termini della “specificità differenziale” (Rosalind Krauss). Si rispondeva così anche a quelle fratture intraviste da Hölderlin già un secolo prima, come cesure nel medium stesso della tragedia e del mito. Fratture comprensibili ora solo all’interno di una comunità delle singolarità distaccate che con-dividono la loro stessa divisione (Nancy).
D. Come sono le tue opere?
R. Le opere successive alla mia dichiarazione di Rifiuto del lavoro astratto in arte (1978), abbandonando la condizione di essere “qualcosa”, si presentano soprattutto nella forma di documenti (telegrammi, lettere, cartoline, ricevute, foto, ecc.). Queste opere non nascono mai come “opere”, lo diventano solo nel corso del tempo e non mostrano mai un punto di vista privilegiato da cui poter essere osservate come tali. Il loro riconoscimento è sempre successivo e mai definitivo. Di qui la loro impossibilità a concludersi come opere perfette. Questa probabilmente è la frattura più evidente con l’idea tradizionale di opera conclusa e accertata. Tuttavia è proprio da questo sottrarsi sistematico ad ogni illusoria e perfetta natura d’arte originaria che le “impossibili” opere traggono una ragione per venire ad esistenza, per presentarsi al mondo, per riposizionarsi. E’ una metamorfosi misteriosa quella che porta queste “impossibilità” a diventare in qualche modo possibili o meglio a diventare non semplicemente opere ma documenti di opera, quasi a voler assolvere contemporaneamente alla necessità di essere e alla volontà di legittimarsi in quanto tali. Solo così queste opere possono avanzare la pretesa di mettere in campo una prova della esistenza di una loro anima “all’esterno”, come prima si sottolineava. La disperata difficoltà di Pollock (la sua coscienza infelice, come dice Timothy Clark) a inventare nuove forme può oggi essere messa in rapporto con la inaudita e crudele irrapresentabilità dell’olocausto. Dirlo significa ascoltare una voce. Ciò che abbiamo appena detto è udirla. La voce di questa parola ci permette di riconoscere la cesura profonda che queste impossibilità determinano. Non c’è la figura ma la voce della sua mancanza. E viceversa, paradossalmente, questa non è una voce che si sente ma che si “vede” per lampi, abbagli, folgorazioni. E’ una voce aforismatica che l’artista “vede” in modo metaforismatico. Le avanguardie artistiche hanno richiamato l’attenzione sulla singolarità ed eterogeneità di una “voce” come quella che sorge per esempio accanto all’opera musicale. Queste voci sono rarità spirituali che forse custodiscono il segreto di una cura, di una forma. E’ compito di questa forma prendersi cura dell’artista moderno che da tempo lamenta ferite profonde nell’anima? Gli oppressi del nostro mondo potrebbero un giorno stringersi intorno a questo artista per condividerne il destino di sofferenza e redenzione e aiutarlo a rifondare la comunità.
D. Qual è la tua condizione attuale?
R. Hölderlin scriveva “I tempi dei creatori – una catena di monti che alta ondeggia, le vette dei monti, che solitarie si affissano nell’etere, e cioè nel dominio del divino”. Il mio viaggio segue la catena alta. Ecco la terra straniera, che Hölderlin “vedeva”. Non l’altra terra ma la terra che manca.
L’intervista è una riposizione di dichiarazioni e conversazioni private di Francesco Matarrese tra il 2007 e il 2011. Nove agosto duemilaundici. Per Dora Garcia.

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