1. Qualche parola introduttiva

Non è semplice oggi parlare di Marx, e non è semplice perché il nostro mondo non è più (o ameno così sembra) quello di Marx, ma un mondo che noi sappiamo solo interpretare, e non più mutare, trasformare, rovesciare. Interpretare/trasformare: ecco l’alternativa – vero e proprio punto costitutivo del modello di Marx – anche se è stata per lungo tempo dimenticata, fino a diventare per noi qualcosa di incomprensibile, qualcosa che sembra appartenere letteralmente ad un altro mondo, ad un punto di vista che si può sostenere solo se (e quando) «la specie umana prende in mano il proprio destino, e condiziona secondo i propri bisogni, ma anche secondo determinati scopi, la natura e la specie umana stessa» (1). Per parlare di filosofia, Marx sente il bisogno di definire il mondo, ed è ancora oggi questa la condizione per parlare di Marx, fuori dalla «anestesia neu-tralizzante di un nuovo teoreticismo», di un ritorno filosofico-filologico alla sua opera(2).

Perché è questo il vero discrimine marxiano, nel senso che se oggi vogliamo tornare a Marx, dobbiamo passare dal mondo, perché è solo nel mondo che è possibile scoprire di nuovo la trasformazione, apprendendone, infine, la necessità. Tutto questo, ovviamente, è difficile, perché mentre Marx partiva dal mondo per trasformarlo, noi, invece, consideriamo il mondo in maniera depressa, o come natura o come aleatorio, immodificabile o integralmente malleabile e, cioè, in modo esattamente inverso a come lo concepiva Marx. E tuttavia occorre provarci, perché è solo dal cuore dei problemi del mondo che è possibile oggi tornare a parlare di Marx, evitando l’errore di giocare la sua opera contro il mondo realmente esistente, e contro i saperi del mondo, come mi sembra tende a fare Cristina Corradi nel suo recente, importante, Storia dei marxismi in Italia(3).

Non è un libro facile, questo di Corradi, uno di quei libri che ci scivolano addosso senza lasciare tracce significative del loro passaggio. È un libro coinvolgente, che non solo chiede di essere giudicato, ma chiede anche una presa di posizione su Marx e sull’oggi. Un libro estremo, dunque, che lascia poco spazio per letture diplomatiche o per discettazioni accademiche, e che, nel parlarne, costringe a fare seriamente. Da questo punto di vista, Storia dei marxismi in Italia è veramente un libro importante, perché un libro importante non è quello con il quale ci si trova d’accordo, ma quello che afferma delle cose, perché solo affermando si costringono gli altri a pensare per conto proprio, a mettere ordine, per quanto è possibile, nel proprio discorso e nei propri pensieri.

Occorre dire che quando Corradi ha iniziato a lavorare a questa Storia dei marxismi, solo in pochi avrebbero scommesso sul successo di questa operazione, ma occorre anche dire che la scommessa è stata vinta, perché il libro di Corradi è diventato, in breve tempo, il punto di riferimento di una (piccola) ripresa di Marx in Italia. Il fatto poi che tutto questo avviene in un paese che assieme al marxismo ha buttato via ogni forma di contestualismo e di pensare storico rende il successo di questo libro un fatto davvero sorprendente, quasi un enigma. Dentro questo conteso, come fa ad aver successo un libro di 438 pagine che ha per titolo Storia dei marxismi in Italia? La mia ipotesi – che cercherò via via di argomentare a diversi livelli – è che ci deve essere nel libro qualcosa che assomiglia alla nostra cultura, ad una cultura che astrae dalla re-altà e che sogna, che la trascende nel sogno. E in questo libro, almeno a tratti, Marx appare come una specie di sogno, un altrove incontaminato, puro, che non ha niente a che fare con la realtà, né vi deve avere niente a che fare.

Forse quel «sogno di una cosa», di cui parlava lo stesso Marx, in quelle «frasi enig-matiche e inquietanti»(4) rivolte a Ruge (5) . In questo senso il successo di questo libro è il sintomo di una mancanza, di una mancanza che il libro, però, non tenta neanche di tematizzare o di riempire. In realtà, dietro l’apparente euforia, il libro di Corradi è un libro tragico, che rappresenta bene la situazio-ne spirituale del nostro tempo: tra la necessità di Marx su cui il libro insiste e verso cui sospinge e la sua possibilità vi è qui una scissione fortissima e drammatica, la quale rende quella necessità un sogno, qualcosa che non impe-gna realmente a renderla possibile. Tra le tante bestie nere del libro, ce n’è una alla quale Corradi dedica una particolare attenzione, ed è un certo oriz-zonte teologico della nostra filosofia, anche se c’è qualcosa nel suo discorso (qualcosa di impalpabile, eppure presente) che porta diritti dentro quell’oriz-zonte. E come se la massa dei materiali del rifiuto che Corradi mette in mo-vimento ad un certo punto volessero risalire verso quell’orizzonte, anche se non hanno le parole e i concetti per farlo. E tuttavia premono, perché è da quell’orizzonte che sono attratti…

Scherzando, ma non troppo, si potrebbe dire che della ricca ricerca di Cor-radi è sbagliato l’oggetto. Ma sono già entrato nella discussione più aperta e più franca del libro, che, come si sarà capito, sarà critica e polemica, anche se viviamo in tempi nei quali l’abitudine della polemica appare pressoché dimen-ticata. Ma con Marx le cose vanno in tutt’altro modo, quando viene rimesso a tema Marx e il marxismo, la polemica è inevitabile. Ed è inevitabile, perché con Marx non discutiamo più di filosofia, ma del mondo nel quale viviamo, dei giorni e degli uomini con cui abbiamo a che fare.

2. Approssimazione al tema

Il libro di Cristina Corradi è un libro importante, che ha il merito di rompere il ghiaccio su questo tema, e di restituire al lettore la ricchezza e la molteplicità di tendenze e di orientamenti che hanno innervato per più di un secolo la storia del movimento socialista italiano, da Labriola alla riformulazione del programma di ricerca marxiano intrapreso, a partire dai primi anni ottanta, da alcuni studiosi marxisti come Costanzo Preve, Maria Turchetto, Gianfranco La Grassa e Roberto Finelli, le cui opere, secondo Corradi, sono fondamentali per la ripresa e lo sviluppo della teoria marxista. E tuttavia, Storia dei marxismi in Italia non è né un libro storico, perché in questa storia dei marxismi ciò che è assente è esattamente la storia, né un libro filosofico, come pure vorrebbe essere, perché il desiderio di filosofia è continuamente ostruito e mortificato dall’esigenza di fare una storia che non viene mai fatta.

È un libro indeciso nell’oggetto e nel metodo. O, forse, è un libro in attesa… Già il titolo è molto problematico, nel senso che non si accorda molto bene con il modo in cui nel libro la materia viene poi concretamente trattata. La parola marxismi si accorda solo (e vedremo più avanti in che modo) con la sto-ria, e qui la storia, come abbiamo già detto, non c’è. Ma problematico è anche il suo oggetto, il marxismo teorico, anche perché esso viene subito contrapposto da Corradi al marxismo politico. Infatti, secondo Corradi, non vi può essere rinascita del marxismo sul terreno politico, in quella permanente interazione tra teoria e prassi, che ha caratterizzato la complessa vicenda dei principali filoni marxisti del secondo dopoguerra. Ma su quale altro terreno, diverso da quello politico, potrebbe (o dovrebbe) rinascere il marxismo? Ora è vero che ci sono dei momenti nei quali dalla storia non si ricava nulla di significativo, o si ricava molto poco, per lo sviluppo della teoria, ma anche in questi casi – o soprattutto in questi casi – si può spezzare il rapporto tra il marxismo e il movimento delle classi subalterne? si può separare il marxismo dal vivo dello sviluppo storico? E che cosa significa marxismo una volta che esso è stato separato da tale sviluppo? E ancora: se, come io credo, la teoria marxista non è separabile dalla forma del mondo e dalla sua concreta realtà, essa può essere giudicata o valutata solo a partire dai suoi contenuti (dal suo astratto livello di sviluppo) o, invece, da un confronto tra la sua forma e la struttura e i livelli concreti della realtà?

Con una precisazione, però, essenzialissima, «che porta fuori da quella che è stata la storia del movimento operaio. Non si danno più, insieme, tattica e strategia. Si fa avanti, come morale provvisoria, una teoria della doppia verità politica. Forse bisogna andare a una scelta di libertinismo politico, dove si dà un foro interiore e un comportamento esterno […]. Ecco perché il territorio della coscienza ha bisogno di rimarcare i confini invalicabili della sua separatezza. Ritorna, nella solitudine in cui si aggira il lavoro di un pensiero alternativo, la tentazione della sagesse politica: una assenza formale e una critica interna. Stare nella politica, ma liberi nel pensiero», perché oggi «la politica possibile è altro rispetto alla politica pensabile» (6). Tra forma della teoria marxista e livelli della realtà vi deve essere una rela-zione forte e costitutiva (altrimenti si ricade nella separazione di teoria e prassi, e il problema della conoscenza ritorna ad essere una questione teorica, non pratica, come è per Marx, e come deve essere per il marxismo), tenendo sempre a mente che oggi, come scrive efficacemente ancora Tronti, «quanto si può veramente pensare è un’altra cosa da quanto si può effettivamente fare» (7).

Nel libro di Corradi vi è, invece, qualcosa di diverso, perché anche in quest’ansia di ritrovare Marx fuori e oltre le deformazioni novecentesche, fuori e oltre le patologie del marxismo novecentesco, vi è qualcosa di antico, che sta tutto dentro quella che è stata la storia del movimento operaio, e che ora non può più essere. E tuttavia, occorre aggiungere, che già in questa scelta di mettere tra parentesi l’intero marxismo dopo Marx, per ritornare al testo, per guadagnare la fonte, è possibile che ci sia già una messa in questione dell’assunto radicale di Marx, secondo cui, per essere, il suo pensiero doveva realizzarsi (8) . Per altro – come ha notato Finelli – è «innegabile che lo stesso Marx fin dall’inizio abbia rivendicato per la sua opera uno statuto del tutto speciale: che fosse cioè opera sì teorica ma anche immediatamente pratica, per il suo valere come strumento di organizzazione e di liberazione del prole-tariato moderno. Tanto che proprio a muovere da tale sua pretesa natura, non speculativa ma integralmente pratico-politica, la critica più radicale che è stata mossa all’opera teorica di Marx è di aver realizzato una commistione indebita di descrizione e prescrizione, cioè dell’istanza conoscitiva (che mira a descri-vere la realtà così com’è) e dell’istanza pratica (che mira a trasformare il reale come il desiderio vorrebbe che fosse)» (9).

In realtà, questo giocare Marx contro il marxismo potrebbe avere un solo e unico senso, che è quello, enunciato molto bene da Roberto Finelli, di incominciare a discutere la sua opera «al di là di schieramenti presupposti», godendo «tutta la complessa e originalissima ricchezza della sua mente, senza sgomentarci per altro dei limiti e delle arretratezze che, anch’esse profonde […], ombreggiano il suo pensiero». In questo solo può consistere il ritorno a Marx, la riacquistata libertà di Marx, e può consistere «proprio nella sua libe-razione dal marxismo e nella messa in atto di un approccio metodologico che svincoli il pensatore di Treviri dalla ritualità apologetica, che lo ha voluto per più di un secolo immune dall’errore, e lo consegni invece alla travagliata libertà delle sue contraddizioni» (10).

Ma, pur rifacendosi alla lezione di Finelli, non è questo il senso dato da Corradi a questa operazione, perché, nella sua ricerca, il ritorno a Marx è caricato di una forte valenza escatologica, e dall’obiettivo di «abolire ciò che ha “tradito” Marx per ristabilire un circuito diretto tra il testo e la prassi»(11) . Ma che cosa ha tradito Marx? Non è proprio in questo parlare di Marx a pre-scindere dalla realtà esistente (come se le alternative e le possibilità si potessero dare fuori dalla forma del mondo e del sapere del mondo) che si consuma il vero tradimento di Marx, il quale consiste (ed è sempre consistito) «nell’isolare il suo sapere, nel rinunciare cioè all’immane sforzo di connessione che esso propone per una possibile lettura del mondo»(12) , nel separare il suo sapere dall’unico luogo nel quale esso può sorgere?

Infatti, per il marxismo, la forma della teoria non può che procedere dai livelli del mondo e dalla sua concreta realtà. Da come il mondo è. In questa to-tale coappartenenza alla forma del mondo nel quale vive, consiste l’integrale realismo della teoria marxista, ed anche la sua coerenza, la quale non va misurata astrattamente sui contenuti della teoria, ma dal luogo dove essa si colloca, e, cioè, se si trova o meno nel punto in cui il mondo la vuole. Si tratta di un realismo che non solo sta sempre affacciato sull’abisso dell’ideologia – e, nel passaggio di generazioni, anche dell’opportunismo o del cinismo – ma che senza una contemporanea cura della tradizione o della memoria storica, da quell’abisso è sempre sull’orlo di essere risucchiato, anche se non esiste altra forma di vita per il marxismo diversa da questa.

Che ci sia riuscito o meno, l’intento di Marx è stato quello di fondare una nuova idea di filosofia, perché ai suoi occhi – lo ricordava Balibar – la filosofia «era per l’appunto solo una impresa individuale di interpretazione del mondo. Cosa che portava, nel migliore dei casi, a lasciarlo così com’era, nel peggiore a trasfigurarlo»(13) , mentre per Marx la realtà è trasformabile solo se la teoria è realizzabile. Solo se si unifica teoria e pratica la realtà può essere trasformata. Inseparabilità di livello analitico e di livello strategico: questa è la filosofia di Marx, una filosofia integralmente realista, una vera e propria teo-ria della politica. Ecco perché non basta risalire all’origine, alla lettera del suo programma scientifico, perché «gli usi della teoria marxista non sono […] esterni al suo senso»(14) , ma sono essi stessi un momento dell’origine. Infatti, se il marxismo ha il compito di continuare permanentemente «a spostare il suo punto di applicazione» (15) , gli usi di fatto continuano il processo storico di produzione di questo senso.

E il marxismo deve continuamente spostare il suo punto di applicazione perché il tempo del modo di produzione non coincide con il tempo della politica, il luogo concreto in cui le lotte sociali si sviluppano. Insomma – lo ricordava Vacca di recente – non si può prescindere dalla soggettività politica, della quale non si possono predeterminare gli svolgimenti. «Questi ultimi sono caratterizzati dall’intervento di elementi non riducibili all’economia: le “potenze” della coscienza e della volontà»(16) . Questo vuol dire che all’interno del marxismo, come ha sostenuto Balibar, riprenden-do uno spunto di Badiou, non si ha altra possibilità di pensare filosoficamente e politicamente se non stando lì dove va spostato il suo punto di applicazione, «tenendoci nelle vicinanze immediate di questa crisi interna/esterna, il più possibile in prossimità dei suoi punti nevralgici» (17) .

3. Questioni di metodo

Questione non semplice, come vedremo più avanti, forse impossibile (l’impossibile di Marx), che tuttavia Corradi sistematicamente elude, rendendo, proprio per questo, molto problematica l’intera struttura del libro. Il tema è complesso e andrebbe discusso in maniera analitica, come la stessa complessità della ricerca di Corradi richiederebbe, ma il nostro obiettivo è più semplice, ed è quello di segnalare solo alcuni punti problematici del libro, rimandando ad un’altra occasione per una analisi più ravvicinata dello stesso. Vorrei segnalare alla discussione alcuni punti, che proverò a discutere.

  • a) Il primo punto riguarda il privilegiamento della teoria, la priorità data al lavoro teorico, nel senso che in questo giocare Marx contro il marxismo, Corradi approda ad un nuovo teoreticismo, il quale non solo spezza ogni relazione tra marxismo e storia, tra teoria e storia, ma neutralizza anche o comunque soffoca, «nell’esegesi tranquilla di un’opera già bella e sistemata, l’imperativo politico»(18) . Nuovo teoreticismo, non difesa dell’autonomia relativa della teoria, perché nel marxismo italiano (con modalità differenti, ovviamente, a seconda dei diversi filoni), l’autonomia della teoria è parte del suo modello costitutivo. E d’altronde, per rimanere al filone maggioritario, è impossibile pensare la dialettica senza autonomia della teoria. La questione è importante, perché la prospettiva di Corradi colpisce al cuore il modello marxiano di filo-sofia, il quale, nella sua analisi, viene fatto rifluire (risalire?) nei quadri della filosofia tradizionale. Ancora Finelli: la teoria marxista è «opera sì teorica ma anche immediatamente pratica, per il suo valere come strumento di organizzazione e di liberazione del proletariato moderno»(19).
  • b) Il secondo punto che vorrei sottolineare è legato fortemente al primo (e, in un certo senso, da esso discende), e riguarda il privilegiamento della storia interna nello studio dei singoli autori o delle singole correnti, come se per un marxista la cosa più importante fosse quella di inserirsi in una tradizione e non, invece, quello di dire qualcosa su una congiuntura. Il punto è importante, anche perché non riguarda solo il marxismo, ma tutte le tradizioni della contemporaneità. Nella contemporaneità, infatti, non solo le idee politiche si costituiscono fuori da ogni tradizione (se per tradizione si intende, nel suo significato lessicale, una dottrina, un insegnamento trasmesso, una linea che discende verso di noi, e che ci vincola (20) , ma hanno anche come proprio referente il futuro, quello che Koselleck ha definito come orizzonte di aspettative o di attesa, un orizzonte di aspettative irreparabilmente divaricato dallo spazio dell’esperienza (21) . Infatti, per noi ciò che conta è il presente e l’avvenire, e il rapporto con la tradizione è integralmente funzionale a questo lavoro sul presente.
  • c) Da qui, e siamo al terzo punto, una concezione della storia come movimento tutto ideologico, in base ai canoni propri di una visione di tipo genetico, come se realmente, tutto lo sviluppo di un pensiero potesse essere letto sin dall’inizio, «dall’embrione in cui sarebbero evidenti i segni della fine, e dagli esiti che finalmente renderebbero più intellegibili quegli stessi segni»(22) . Una visione di tipo embrionale, perché di questo si tratta, come se ogni pen-siero, per dirla con Althusser, fosse riducibile ai suoi elementi (condizione, questa, che consente di pensare separatamente un elemento del sistema e di accostarlo a un altro elemento simile appartenente a un altro sistema), in base ad una concezione autosufficiente o autarchica della storia delle idee, secondo la quale nella storia delle idee niente succede che non rinvii alla storia stessa delle idee e che il mondo dell’ideologia abbia in se stesso il proprio principio d’intelligenza(23). Anche questo è un punto molto importante, perché nell’analisi di Marx le questioni filosofiche vanno certamente riconosciute, ma vanno poi interpretate nell’orizzonte di un problema predominante e più ampio. È quello che Corradi dimentica troppo spesso, inserendo inevitabilmente i pensieri dei marxismi in un «quadro di categorie e di continuità che si costituiscono […] entro la forma moderna del pensiero “filosofico”, entro il carattere lineare del movimento da idea a idea», in un discorso che «conosce rotture solo interne ad un processo che si svolge su un unico piano»(24). Della storia e degli avvenimenti bi-sogna tener conto «se non si vuol ridurre la storia della teoria a pura storia delle idee, terreno d’elezione di quelli che Marx nell’Ideologia tedesca scherniva come “critici critici” e Lenin in Materialismo ed empiriocritici-smo bollava come “filosofi professorali”. Non si può rimuovere impunemente la politica dall’ambito della teoria, senza cadere in una sorta di bricolage intellettuale, per giunta non innocente, perché espressione, seppure non spe-culare, di rapporti di forza ideologici, storicamente determinati»(25).
  • d) Il quarto punto riguarda l’organizzazione del materiale (ovvero la distribuzione dello spazio assegnato ai singoli autori o correnti), ed è il punto nel quale i limiti metodologici che attraversano l’intero libro si fanno più visibili e scoperti. Corradi non fa nessuna distinzione tra maggiori e minori, tra marxisti pubblici e marxisti privati, tra marxisti dei periodi alti della lotta di classe e marxisti del tempo del declino o della fine. Il rischio è quello di dissolvere ogni specificità del testo marxista in un calderone indifferenziato che pone sullo stesso piano livelli di astrazione diversi (26) , come se il pensiero marxista di Giuseppe Vacca o quello di Mario Tronti potessero stare insieme, in una stessa storia (e come se fosse la stessa storia) con quello – pur notevolissimo sul piano teoretico – di Roberto Finelli. Da qui l’assenza di ogni prospettiva storica, di ogni angolo visuale da cui inquadrare la realtà e le stesse mani-festazioni del pensiero. E da qui anche la confusione nell’organizzazione del materiale, il quale può essere organizzato solo se non si separa ciò che in una storia dei marxismi non può essere separato e, cioè, ideologie e contesti. Perché anche prendendo per buono l’assunto sostanzialistico della metodologia testualista di Corradi (un modo tutto sommato tradizionale di intendere l’unità e la continuità della storia della filosofia), e, cioè, il fatto che nella storia (e nella storia del marxismo) si discute sempre degli stessi problemi, e che sono all’opera sempre le stesse esigenze, il problema permane, perché il punto è, anche qui, non quello di constatare questo dato, ma quello di chiedersi: a che gradazioni emergono questi problemi e queste esigenze perenni? E quali storie essi producono? E questo perché sul piano storico – lo sottolineava acutamen-te Cofrancesco a proposito dell’ideologia della destra – ciò che realmente con-ta non sono tanto i materiali di base (l’essenza del marxismo), quanto, piuttosto, i modi e le gradazioni (la realtà del marxismo) attraverso le quali essi e-mergono nel processo storico concreto(27).

    Con questo approccio si scopre facilmente che non si tratta, dunque, sempre dello stesso fenomeno, e che il compito dello storico non è quello di inda-gare la perennità e la continuità dei materiali di base (della problematica comune), ma la novità (storicità) delle gradazioni, con le quali essi emergono nel processo storico concreto, perché è esattamente tramite le gradazioni che si rimette continuamente in questione la problematica comune e si ridefinisce la stessa nozione di tradizione politica, il cui sviluppo – lo abbiamo già visto – non può essere letto sin dall’inizio «dall’embrione in cui sarebbero evidenti i segni della fine, e dagli esiti che finalmente renderebbero più intellegibili quegli stessi segni»(28), non può essere letto dentro i quadri di una sterile ontologia dei materiali base. La verità è che senza una teoria delle gradazioni è impossibile affrontare la questione delle tradizioni, sulla quale si addensano buona parte degli equivoci e delle confusioni di cui è tessuta la nostra storia contemporanea. Il fatto è che, mentre il mondo contemporaneo ha al suo centro il primato dell’azione elettiva (primato dell’interprete), l’approccio di Corradi è come se continuasse a presupporre il primato dell’azione prescrittiva (primato della fonte), continuando a muoversi intorno a un’idea di tradizione, intesa come vincolante continuità fra la fonte e noi interpreti, e noi soggetti del presente, come una sorta di dipendenza della presente identità dell’interprete – che è passivo – dalla passata differenza del testo o della fonte, che non è la tradizione della contemporaneità, che non è il nostro rapporto con la tradizione; un rapporto che, invece, non si sviluppa più o «esclusivamente, per aporie “filosofiche” nate all’interno dei sistemi dei “filosofi”»(29), ma soprattutto per rispondere alle domande che provengono dalla realtà e che spezzano non solo l’unità e continuità di una tradizione, chieden-do nuovi strumenti di comprensione, ma anche l’idea che le tradizioni «mutano per una loro logica autonoma, separata» (30) .

    Nella contemporaneità, centrale è, infatti, l’interprete (l’orizzonte di aspettative che egli prospetta), il che vuol dire che la stessa storia delle interpretazioni, la stessa storia dei marxismi, diventa molto problematica, in quanto gli orizzonti di aspettative sono difficilmente comparabili, in quanto non appartengono ad un campo comune. In sintesi si potrebbe affermare che il primato dell’interprete produce una differenziazione tale degli orizzonti che rende impossibile la fusione degli stessi (31). Tutto ciò significa che ogni interpretazione, pur muovendo dalla stessa fonte, produce una storia che è difficilmente comparabile con altre, prodotte da altre interpretazioni. È il caso, questo, di Gramsci e di Lenin, e del loro rapporto, su cui tornerò più avanti. Quello che noi dobbiamo e possiamo fare è solo questo: ricostruire, nello studio di un testo, l’orizzonte di aspettative dell’autore nei suoi rapporti con l’orizzonte di attesa del lettore per il quale il testo è stato originariamente scritto (32). Infatti, se consideriamo, con Skinner (con le sue applicazioni alla storia intellettuale delle tesi di filosofia linguistica sviluppate da Austin, Searle e Wittgenstein), il testo come un insieme di atti linguistici, «la storia delle idee, intesa come ricostruzione delle diverse interpretazioni che i vari autori hanno proposto del medesimo concetto appare del tutto insoddisfacente. Se i concetti sono strumenti, una storia dei concetti come tali non ha senso e può esservi solo la storia di come i concetti sono stati usati, nelle specifiche argomentazioni, per fare qualcosa» (33). Con questo approccio sarebbe possibile non solo ripensare il problema delle fonti o delle eredità o delle influenze (34) , o rimettere in questione la tendenza a leggere i testi in termini di anticipazioni o di precorrimenti, così come fanno, secondo Skinner (35), studiosi come Leo Strauss, ma si potrebbero leggere, forse, in modo nuovo tutte le tradizioni politiche del nostro secolo, a cominciare dal marxi-smo, che una insidiosa metodologia testualista ha reso ormai irriconoscibile. In un libro strutturato per periodizzazioni storiche, non solo è fondamentale, dunque, l’organizzazione interna del materiale, la consapevolezza dei diversi livelli di astrazione, ma è necessario anche non separare i marxismi dai loro contesti, se si vuole tentare davvero di farne la storia.

  • e) Perché è proprio a causa di questa separazione – e siamo all’ultimo punto – che si produce confusione e disordine nel racconto storico. Pur essendo i capitoli, e la materia stessa del libro, tenuti insieme da periodi, nel libro manca completamente un vero e proprio racconto storico. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, ma in questa sede dirò qualcosa, molto brevemente, in-nanzitutto, sui capitoli dedicati agli anni sessanta e settanta, e, in particolare, sullo storicismo gramsciano e sulla questione riguardante la genesi del pensiero negativo. E farò, poi, qualche breve cenno sul capitolo dedicato agli anni ottanta. Occorre dire che l’assenza di storia rende qui l’oggetto teorico vera-mente incomprensibile.

    La cosa risulta lampante per quanto riguarda la vicenda dello storicismo gramsciano, nel senso che se prendiamo la riformulazione del marxismo avviata dalla Scuola di Bari (soprattutto nella versione, più radicale e maggiormente rappresentativa, datane da Giuseppe Vacca (36), e la scorporiamo, come fa Corradi, da quella rivoluzione antropologica prodotta dal nuovo modello di sviluppo degli anni sessanta, rispetto alla quale quella cultura prende forma, con l’intento di mutarla di segno, non capiamo veramente nulla di quell’esperienza: non comprendiamo, innanzitutto, né i suoi riferimenti culturali né le sue battaglie ideologiche, nel senso che la critica alla curvatura gnoseologica-scientista della lettura dellavolpiana di Marx, così come la ripresa del Karl Marx di Korsch, o la stessa configurazione del rapporto Hegel-Marx (37) , non significano nulla fuori dal problema del ses-santotto e dal modo come il sessantotto si colloca (e va collocato) nella rivoluzione degli anni sessanta. Fondamentale, per Vacca, non è l’analisi filologico-filosofica della tradizione, ma la collocazione nel presente, nel senso che è solo a partire dal pre-sente che ha senso cercare nella tradizione gli strumenti utili a padroneggiarlo. Come il marxismo si deve rapportare con il sessantotto e, più in generale, con la rivoluzione degli anni sessanta? E – innanzitutto – come leggere gli anni sessanta? Queste sono le domande marxiste di Giuseppe Vacca, ed è in presa diretta con queste domande che Vacca trova insufficiente la ricerca di Galvano della Volpe, produttiva quella di Korsch, e necessario l’ancoraggio a Hegel; non comprendiamo poi l’analisi del quadro politico, dentro il quale quelle domande trovavano la propria legittimità e, cioè, l’ipotesi sulla specificità del Pci, la quale fu posta a fondamento della possibilità di riformare quella tradizione per rapporto alla contestazione, con l’intento di raccordare le istituzioni democratiche nazionali con il radicalismo degli anni sessanta; non comprendiamo neanche i temi scelti come rilevanti (e più specificamente l’attenzione rivolta alla questione politica degli intellettuali), e il modo come veniva ri-classificato il marxismo per rapporto ad essi, al fine di stabilire un rapporto diverso tra la nuova contestazione e la tradizione del movimento operaio.

    Nella sottolineatura della centralità dell’orizzonte della riproduzione e nella riformulazione del marxismo come teoria della riproduzione non è rintracciabi-le nessuno slittamento idealistico, nessun ecumenismo sociale, ma la consapevolezza che tempo della produzione e tempo della politica non coincidono, soprattutto ora, nel momento in cui l’antagonismo si è spostato sul terreno della riproduzione, e il compito del marxismo è quello, come sempre, di farsi trovare lì dove la contingenza lo pone; ma se chiudiamo quella vicenda in un capitolo di storia degli intellettuali non comprendiamo neanche le ragioni del-la sua crisi, ragioni che sono sì interne (come ho sostenuto in diverse occasio-ni) ma il cui spessore non lo si può afferrare senza un riferimento al Pci, e agli sviluppi della situazione internazionale, al terrorismo, e soprattutto o anche al compromesso storico, attraverso il quale il Pci, chiudendo brutalmente con tutto ciò che esso stesso aveva messo in movimento, non solo vanifica ogni possibile alleanza tra movimento giovanile e movimento operaio, ma li separa anche, fino a creare le basi per una loro contrapposizione, e di conseguenza per la definitiva liberazione del singolo (referente privilegiato di quel modello di sviluppo avviatosi negli anni sessanta, che con quella riformulazione del marxismo si voleva disperatamente trattenere), il quale ad un certo punto, e per tutte queste ragioni, non accetta più di essere mediato o giudicato dalla storia, togliendo così ogni fondamento al discorso storico stesso. Ed è qui che collassa la cultura barese (38), e collassa sul piano storico, non dentro una vicenda di storia delle idee e delle interpretazioni di Marx, e si possono capire di essa validità e limiti interni, solo se la si colloca dentro questo sfondo, e non nei quadri di uno sterile capitolo di storia degli intellettuali, dentro il qua-le, tra l’altro, essa si è sempre rifiutata di stare; e non comprendiamo, infine, neanche le strategie successive, quelle, per intenderci, elaborate dopo l’ottantanove, alle quali Corradi accenna (39) , perché tali strategie non pos-sono essere configurate, come tende a fare Corradi, come tradimenti, o abbandoni, ma come un atto di estrema e disperata coerenza. Si può essere o meno d’accordo, ma il cuore della riformulazione del marxismo di Vacca ruota sempre intorno allo stesso punto: la teoria deve farsi trovare sempre lì dove il mondo la colloca, ovvero sempre sull’orlo dell’ideologia.

    Ora stare sempre lì… quando lì non c’è quasi più niente non è cosa piacevole, e certamente par-lare della teoria del valore-lavoro o di Feuerbach può essere più gratificante, ma per Vacca il destino del marxismo non è separabile da questo compito, non è scindibile dallo sviluppo storico e neanche dal baratro dentro il quale tuttora siamo, e dal quale non possiamo fuggire. O almeno, non possiamo fuggire installandoci «nel suo semplice di fuori, quale che ne sia l’esteriorità o la profondità […], finché questo di fuori o questa profondità restano il suo di fuori e la sua profondità, essi appartengono ancora a questo circolo, a questo spazio chiuso come sua “ripetizione” nel suo altro-da-sé. Non è attraverso la ripetizione, ma attraverso la non ripetizione di questo spazio che si giunge a sfuggire a quel circolo: attraverso la sola fuga teorica che non sia una fuga, sempre votata a ciò che fugge, ma una fondazione radicale di un nuovo spa-zio, di una nuova problematica, che permette di porre il problema reale, mi-sconosciuto nella struttura del riconoscimento della sua posizione idelogica» (40) . Il problema è che questo nuovo spazio non è formalizzabile dalla fi-losofia, non è descrivibile filosoficamente. Esso ad un certo punto, semplice-mente, appare, anche se ciò non vuol dire che esso appare o emerge dal nulla.

    Ovviamente, il marxismo di Vacca, in tempi di disfacimento come il nostro, può essere letto come banale ideologia, e ideologia realmente può essere, tanto che egli stesso, consapevole di questo rischio, lavora ormai da un decennio a restaurare la memoria storica e la tradizione del movimento operaio, non solo per custodire la teoria dai suoi abbracci mortali con la realtà, ma anche nella speranza che quel passato, che, come ogni passato, non è mai interamente morto, possa un giorno essere redento, riscattato, e ricongiungersi con il tempo di ora(41). Tutto questo, ovviamente, è largamente discutibile, e può essere discusso (è discutibile questa concezione della teoria; questa con-cezione Katechontica (42) della tradizione del movimento operaio, una concezione che prende atto del ritardo dell’avvento del comunismo nel mon-do e che, insieme, funziona da elemento frenante dello stesso. Ed è, infine discutibile, lo stesso modo schizofrenico in cui Vacca configura il rapporto tra tradizione e contingenza (43) , anche se occorre subito ag-giungere, a scanso di equivoci, che la schizofrenia è, oggi, il nostro destino, e che, fuori di essa, abbiamo solo tradizioni vuote e una configurazione del tempo di ora, che non è dissimile da quello lungamente praticato, ed elaborato, dalla destra radicale, nel senso che, senza tradizione del politico – perché altre forme di memoria, su questo terreno, sono insufficienti, oltre che inefficaci –, il rapporto con la contingenza non può che guadagnare una libertà di questo tipo), ma, credo, che non si può ragionare su questo pensiero né farne adeguatamente la storia fuori dalle coordinate che ho cercato molto brevemen-te di fissare e di mettere al centro. Stesso discorso vale per la nascita del pensiero negativo, e per Cacciari, il quale proprio nella sua prima ricerca sul pen-siero negativo, citata da Corradi, ma anche in tutta la sua ricerca fino a Krisis (44), percepisce acutamente il processo di singolarizzazione, prodotto dal nuovo modello di sviluppo e dalla rivoluzione antropologica degli anni sessanta, e se critica la dialettica, è solo perché, rispetto ad una singolarità che si assolutizza e si giudica da sé, è impossibile continuare a riproporre una con-cezione del socialismo come processo di integrale democratizzazione, ed una visione della politica come capacità di rappresentazione delle soggettività sociali. Qui è la crucialità del pensiero negativo, ed è qui anche la ragione della sua centralità, nel senso che il pensiero negativo si diffonde e diventa centrale anche perché affronta questi nuovi dati della realtà, e la crisi stessa, con l’ausilio di altri autori, di nuovi strumenti e nuove mediazioni culturali, estranee alle tendenze dello storicismo gramsciano, e utili a interloquire criticamente e produttivamente con essi.

    Krisis di Cacciari, del 1976, rappresenta certamente un segno importante di questo mutamento della congiuntura, oltre che un vero e proprio punto di svolta nella filosofia italiana. Dopo Krisis, la filosofia ita-liana è tutt’altra cosa rispetto al periodo precedente. E se questo corrisponde a realtà, qualche ragione vi deve pur essere. Ricordo ancora oggi una tavola ro-tonda organizzata dalla Citta futura, il settimanale dei giovani comunisti, de-dicata a Nietzsche e la cultura della crisi, nella quale due tra i maggiori filosofi marxisti del secondo novecento (Luporini e de Giovanni), di fronte alle ar-gomentazioni di Cacciari, e, direi anche, alla novità del suo pensiero, non rie-scono a dire nulla di realmente innovativo, se non difendere le buone ragioni del passato, ovvero la necessità di costituire la teoria in relazione alla realtà, la quale, in quel momento, era, appunto, alla ricerca di altre interpretazioni e di diverse mediazioni culturali rispetto a quelle elaborate nel passato (45). Non c’è alcun dubbio, dunque, sul fatto che i nuovi dati della realtà e della crisi siano ben colti da Cacciari, e colti, direi anche, precocemente. Altro di-scorso è il dove va tutto questo o il dove è andato o doveva andare sin dall’inizio, su cui io stesso ho scritto in diverse occasioni, e su cui sono in larga misura d’accordo con Corradi (46) . Confondere, però, i due piani è ideologia, e ideologia che isola il marxismo dal sistema dei saperi, e, isolandolo, lo spinge a trasformarsi in altro da sé, nel suo vero e proprio contrario (47).

    Un laboratorio di questa teoria dell’isolamento, di questa tendenza a isolare Marx dal corso del mondo e dai saperi del mondo (a contrapporre, quasi, il marxismo al sistema dei saperi, come se l’autonomia si guadagnasse solo in questa contrapposizione e non, come io credo, tramite una feconda interazione con gli altri ambiti di pensiero), è rappresentato dal capitolo dedicato agli anni ottanta, nel quale vengono criticati e liquidati tutti gli sforzi che in quasi un ventennio si sono fatti per cercare di trovare strumenti nuovi per la compren-sione del presente. Strumenti sì (qualche volta) di rivoluzione passiva, ma an-che strumenti di comprensione di alcuni elementi della realtà che non si riu-scivano più ad afferrare con i vecchi strumenti: «andare a scuola da Weber, Parsons, Luhmann e Schmitt», così come da Heidegger, Nietzsche e Gentile, è stato utile, è sempre utile. Non è certo questo che ha affossato il marxismo, ma l’incapacità, malgrado queste lezioni, di vedere la nuova realtà e di entrar-ci dentro (48).

    Mi piacerebbe, infine, dire qualcosa sulla parte terza del libro, dedicata, di-rei enfaticamente, a bilanci critici e progetti ricostruttivi, ma preferisco fer-marmi qui, anche perché credo di aver detto tutto l’essenziale di quello che avevo da dire. Io credo, in conclusione, che il vero problema di Corradi sia quello di cercare con passione il marxismo, ma di non riuscire quasi mai ad incontrarlo, perché dell’antimarxismo accetta per intero, e fa propria, la critica del contestualismo, che è uno dei discrimina marxiani.

    Non c’è un leggere innocente, diceva Althusser, e la lettura testualista non lo è di certo, nel senso che pur essa ha incorporata una veduta sul mondo e una strategia su come rapportarsi ad esso. E l’idea di mondo di Corradi è quel-la di un mondo perduto, senza speranza, rispetto al quale occorre costruire una strategia del rifiuto e organizzare dei punti di resistenza. Ora ammesso che le cose stiano nel modo come le descrive Corradi (anche se io ho sempre qualche dubbio sulle prospettive della fine, e tra Gioacchino da Fiore e Bernardo di Chiaravalle sto, per partito preso, sempre dalla parte del secondo), la questione è un’altra, ed è di tipo storico-politico: pur ammettendo che siamo alla fine, se la prospettiva teorica non la si incardina dentro questa fine di mondo, come è possibile resistere ad essa? E come è possibile entrare in relazione con chi ha bisogno, con chi non ha niente, con chi dispera e non sa più bene dove andare, dove guardare, chi incontrare? E con una alienazione che, oggi, rispet-to ai tempi di Marx, riguarda tutti, ad uno ad uno, perché nel regno assoluto della merce (quando il denaro diventa l’unico criterio del vivere) siamo tutti estranei a noi stessi, alienati, perduti. Corradi considera caduco il paradigma dell’alienazione (così come tutta la filosofia del giovane Marx), preferendo ad esso il Marx maturo, il Marx del Capitale. Ma che cosa è il Capitale senza la teoria dell’alienazione, la quale, tra l’altro, come ha abbondantemente dimo-strato Colletti (49), è presente in tutta l’opera di Marx? Ma soprattutto: per-ché mai si dovrebbero fare le rivoluzioni, se non – come diceva Pasolini – per qualche attimo di felicità? Ecco, in conclusione, il problema: non è possibile seguire o inseguire la filosofia di Marx e, insieme, riproporre una ermeneutica sostanzialmente antimarxista.

4. Tradizione e contingenza

Tutto questo, inoltre, inibisce a Corradi di affrontare le due questioni pro-blematiche che ogni ripresa di Marx si trova oggi di fronte. La prima è la teoria del soggetto, che pure Corradi, sulla scia di Finelli, affronta, ma affronta in maniera completamente scorporata – e tutto sommato metodologica – da una analisi del mondo e dell’oggi. La questione, tuttavia, è cruciale, perché «l’essenziale nella teoria del soggetto è che esso incarni la “contraddizione fondamentale”, la quale muta con il mutare dello sviluppo capitalistico mutando la configurazione sociologica degli attori per il mutare delle forze produttive. Quel che con certezza si può prevedere è che l’anta-gonismo stesso, su cui il modo di produzione si basa, costringe i suoi attori a spostare continuamente il limite storico della contraddizione: il capitale, lot-tando per la propria riproduzione fino a comprendere nella sua forma l’intero sviluppo economico mondiale; i produttori moderni, per difendere le proprie condizioni di vita e il valore del loro lavoro. Il mutamento incessante delle forze produttive, che lo sviluppo capitalistico promuove, muta la qualità dei produttori e le forme dell’antagonismo, mentre non può rimuovere l’anta-gonismo stesso […]. Il problema che abbiamo di fronte è quello di specificare le forme attuali del contrasto fra forze produttive e rapporti di produzione, e ridefinire la costituzione dei produttori attuali in soggetti politici del muta-mento» (50) . Infatti, «il punto nodale della concezione materialistica della storia non è l’individuazione del soggetto sociale del mutamento, bensì la teo-ria della sua costituzione in soggetto politico», e questo perché il soggetto non è mai «dato, ma è un risultato; non è dedotto, ma si costituisce nel progredire antagonistico dello sviluppo capitalistico, in misura che acquisti coscienza del limite storico del modo di produzione capitalistico» (51).

La seconda è la teoria del fondamento, che Corradi non affronta, e che toc-ca la questione più problematica della filosofia di Marx, quella particolare configurazione del rapporto teologia-antropologia (inversione della filosofia di Feuerbach)(52) , che, sul piano storico-sociale, conduce diritti all’idea che tutti i bisogni e i desideri insoddisfatti degli uomini possono essere soddi-sfatti. Questo, al fondo, vuol dire risolvere l’aldilà nell’aldiquà; vuol dire che l’aldilà, sul quale noi proiettiamo tutti i nostri desideri e bisogni insoddisfatti, deve essere realizzato, se veramente vogliamo liberarci definitivamente di esso, di quel maledetto cielo, di cui parlava Toni Negri nei libri del rogo. Ma, a questo riguardo, lo stesso Marx è chiarissimo: è «compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell’al di qua. E innanzitutto è compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell’autoestraneazione umana, sma-scherare l’autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica» (53).

Teoria del soggetto e teoria del fondamento: questioni, entrambe, difficilis-sime, le quali possono essere affrontate – lo sottolineava in altro contesto, e per altri fini, Althusser – solo uscendo dalla problematica di Marx, dal modo stesso come Marx aveva interpretato la propria problematica, per conferire al suo pensiero quella coerenza che non aveva potuto acquisire immediatamente. In buona sostanza, la lezione di Marx andrebbe liberata dalla combinazione con il soggetto storico con cui si incorporò (riconsiderando la teoria del sog-getto) e dalla pretesa di dover far scomparire il problema di Dio su cui si fondò (riconsiderando la critica della religione).

Quanto alla teoria del soggetto, rimando al recente contributo di Giuseppe Vacca, citato nelle note precedenti, che condivido pienamente, e rispetto al quale non avrei nulla da aggiungere di particolarmente significativo (54) . Riguardo alla teoria del fondamento, la questione è più complicata, perché per essere adeguatamente affrontata occorrerebbero analisi filosofiche più precise e, in generale, un maggiore approfondimento. Ma non è questo, ora, il nostro compito. Qui si può solo accennare al fatto che l’immagine marxiana di praxis (l’idea, cioè, che la realtà può essere trasformata solo se la teoria può essere realizzata, o l’altra, ad essa complementare, che la realtà va trasformata perché solo così essa è conosciuta) non solo non ha bisogno della critica della re-ligione per fondarsi, ma tale fondamento la chiude anche in uno sfondo im-possibile, in un vero e proprio vicolo cieco, privo di uscite significative. Oc-corre dire che un tale pensiero è apparso, come un lampo, allo stesso Marx in alcune frasi, pur esse enigmatiche e inquietanti, dedicate a Vico in una nota del primo libro del Capitale. Si tratta di un punto importante, perché per un tratto Marx intuì la necessità di studiare l’analisi dell’intero sviluppo della formazione economica della società, separando, per così dire, natura e storia, perché, per questa via, la storia «sarebbe più facile da fare, poiché, come dice il Vico, la storia dell’umanità si distingue dalla storia naturale per il fatto che noi abbiamo fatto l’una e non abbiamo fatto l’altra» (55).

Il tema, in questi termini, non è stato mai più ripreso da Marx, e tuttavia è di fondamentale importanza, anche perché storicamente più che assistere ad una divisione di ruoli e di competenze tra immanenza e trascendenza, tra la cosiddetta immanenza e la cosiddetta trascendenza, noi assistiamo, piuttosto, ad un continuo cambio di ruoli o, meglio, ad un circolo di sacro e secolare (56) , tra chi si assimila al mondo e chi lo apre. Un circolo di sacro e seco-lare intorno al problema fondamentale dell’umanità (questo sì eterno!), che è quello di non poter essere «imprigionata nella sua esistenza reale» (57) , in una qualche determinazione ultima e definitiva. Rimane, invece, interamente valida la critica della alienazione religiosa (e il rapporto organico tra aliena-zione religiosa e dominio politico, tra umanesimo ed economicismo) e la ne-cessità di rivoluzionare le condizioni sociali che la fanno sorgere, senza che questo debba significare la scomparsa del problema di Dio.

Teoria del soggetto e teoria del fondamento, queste sono le questioni che Corradi avrebbe dovuto afferrare di Marx, e ciò che le ha impedito una tratta-zione di tali questioni è proprio il modo in cui la studiosa concepisce la filoso-fia di Marx. Io credo che al di là di cosa se ne sia pensato, non c’è e non ci sa-rà mai una filosofia marxista, nel senso che il marxismo non può essere teo-rizzato. Non si può apprendere il marxismo solo dai libri, ma da una pratica, afferrando una contingenza, tenendosi il più possibile in prossimità dei punti nevralgici della sua crisi interna/esterna, laddove va spostato il suo punto di applicazione. Perché solo afferrando questa nuova idea di filosofia di Marx, è possibile intervenire sia sulla sua metafisica sia sulla teoria del soggetto, nel senso che veramente gli ostacoli da rimuovere sono oggi lo stravolgimento del materialismo storico in dottrina del proletariato e quello della metafisica in dottrina atea.

In realtà è proprio la non-filosofia che, fondando sia una nuova teoria del soggetto sia una diversa teoria del fondamento, rende possibile l’attualità di Marx. Qui è il nesso o il possibile ponte tra attualità di Marx e non-filosofia di Marx (58) . E questo: a) perché la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistica permane; b) perché la non-filosofia di Marx consente una teoria del soggetto capace di definire sempre in modo nuovo i soggetti del mutamento, così come consente una teoria del fondamento capace di storiciz-zare e di superare la cultura delle sue origini, quel determinato rapporto tra religione e politica che sta nella cultura delle sue origini.

Occorre, dunque, aprire il testo di Marx alla realtà del mondo. E occorre fare questo per cercare di realizzare un pensiero che esiste solo nelle sue realizzazioni e, cioè, sempre in forme spurie, quasi incomparabili. Tanto che, radi-calizzando la questione, si potrebbe dire che una storia dei marxismi è impos-sibile o molto problematica, perché dal punto di vista del marxismo il proble-ma non è mai la fonte, ma l’orizzonte di aspettative dell’interprete, e che, pro-prio per questo non solo tra la fonte e l’interprete si crea una distanza temporale e culturale che li separa irreparabilmente, ma che è proprio nello spazio di questa abissale distanza che il ricettore esplica attivamente tutta la sua capacità interpretativa. Infatti, ogni interpretazione di Marx prospetta un mutamento d’orizzonte, il quale reagisce nell’analisi del testo, trasformandolo (59). Ecco perché le interpretazioni non trovano la loro validità sul piano della sua con-formità / non conformità rispetto al testo stesso, quanto, piuttosto, all’interno di un orizzonte di aspettative (60) , il quale, non solo è estraneo all’o-rizzonte del testo, ma ha anche un proprio e diverso orizzonte di attesa (sia per ovvie ragioni di distanza storica sia perché l’esperienza dell’interprete è rivolta prin-cipalmente al futuro).

Questo significa che i marxismi non costituiscono il loro orizzonte di attesa sul passato, ma significa anche che proprio a causa di questa centralità dell’orizzonte di aspettative che essi prospettano, si produce una continua differen-ziazione di orizzonti, piuttosto che una traditio (61), una vincolante conti-nuità tra la fonte e noi interpreti, e noi marxisti del presente. Ora, se centrale non è la fonte, ma l’interprete, la stessa storia delle interpretazioni diventa molto problematica, in quanto – e questo mi sembra il punto decisivo – gli orizzonti di aspettative non sono comparabili, e non sono comparabili perché, nei marxismi, lo abbiamo già detto, la divaricazione tra fonte e interpretazione è tale che produce una differenziazione degli orizzonti, la quale rende impos-sibile la fusione degli stessi(62) . Se non si tiene conto di tutto ciò si corre il rischio di cadere in quella che Quentin Skinner definisce una mitologia delle dottrine, la quale non solo incorre in vari errori storiografici e in vere e pro-prie assurdità, ma, e la cosa è ancora più insidiosa, incorre anche nel rischio di ritrovare nelle fonti e nei testi la dottrina desiderata (63) , che è poi quello di far precipitare i testi senza mediazioni nella più immediata attualità.

Prendiamo il caso del rapporto Lenin-Gramsci. Entrambi, come si sa, si ri-facevano vagamente a Marx, anche se il problema non è quello di ribadire questo dato, ma quello, ben più complesso, di capire a quale Marx si riface-vano, perché è solo facendo chiarezza su questo aspetto che è possibile co-struire una rigorosa storiografia sul marxismo, la quale non può muovere, come solitamente si pensa, da una astratta definizione del marxismo in gene-rale, da una definizione preliminare di marxismo (distinta «da e anteriore a un’indagine» che ha il solo compito di applicarla (64) e nella quale il risul-tato appare già tutto prefigurato nelle premesse), ma da una analisi specifica dei vari marxismi, dal modo come nei vari contesti tale termine veniva usato, perché solo tramite questo approccio è possibile verificare se vi è realmente qualcosa di comune tra tutti gli usi del marxismo o se al contrario si tratta di fenomeni e di culture talmente differenti da risultare alla fine incomparabili. Perché è questo il punto veramente cruciale: le «interpretazioni» prospettano uno specifico «orizzonte di aspettative» e producono storie e forme di vita ad esso strettamente intrecciate, ed è a queste ultime che occorre rivolgersi, non alla fonte, al comune riferimento ad una stessa fonte, per decidere o meno del-la loro comparabilità. Infatti, se, in Lenin, del progetto marxiano rimase solo il materialismo dialettico (cioè una sorta di dottrina secolarizzata della verità, una filosofia dell’autorità), mentre, in Gramsci, rimase solo il materialismo storico (cioè una teoria generale della relatività, una concezione radicale della criticità), questi elementi dissociati del progetto marxiano potevano produrre la stessa storia? Potevano mai produrre la stessa storia una dottrina secolariz-zata della verità e lo storicismo assoluto, l’idolatria del dato e la critica per-manente di esso? Sono dunque i contenuti specifici di questi elementi (disper-si tra Oriente e Occidente), e non il comune riferimento a Marx, che decidono sulla comparabilità o meno tra socialismo reale e Pci, tra Lenin e Gramsci.

Il problema dell’origine, nella filosofia di Marx non è altro, dunque, che la storia delle sue realizzazioni, nel senso che, quando si ritorna all’origine, si «ritorna sempre a una eterogeneità irriducibile, ad una intraducibilità in qual-che modo interna» (65) . Filosofia sporca, sempre, fuori da una prospettiva dell’originario, che è quanto di più lontano da Marx. Filosofia del possibile: proprio perché è una filosofia per il mondo degli uomini, per gli altri, per chi ha bisogno, le sue forme teoriche non possono essere pensate separatamente dai livelli del mondo e dalla sua concreta realtà. Si fa quello che si può fare: questo non è tradimento di Marx, ma amore della realtà, in assenza della quale non è possibile critica, almeno nel senso costitutivo e fondamentale di Marx. Occorre aprire il testo di Marx alla realtà del mondo, anche perché il vero problema marxista è sempre quello di come entrare in una congiuntura. Di come stare sempre lì dove va spostato il suo punto di applicazione.

Mario Tronti: «la contingenza è il vero luogo della politica. Il problema che irrompe e la soluzione che spinge: è lì la misura dell’agire politico» (66) , e lo stesso Marx, più di altri, «ha scritto nella congiuntura. Tale scelta non escludeva né la “pazienza del concetto” di cui parlava Hegel, né il rigore delle conseguenze. Ma era senza dubbio incompatibile con la stabilità delle conclu-sioni: Marx è il filosofo dell’eterno ricominciamento, che lascia dietro di sé numerosi cantieri… Il contenuto del suo pensiero non è separabile dai suoi spostamenti. Proprio per questa ragione, se si vuole studiare Marx, non se ne può ricostruire astrattamente il sistema. Bisogna rintracciarne l’evoluzione, con le sue rotture e le sue biforcazioni» (67).

Il vero problema del marxismo (così come di tutte le filosofie della praxis (68) è che non si può entrare facilmente in diverse congiunture, perché non si può essere sempre giovani, né si può, in una vita, cambiare più volte le forme della propria vita. Questo è il vero problema, e la cosa è di particolare interes-se non solo perché prova, verifica, l’impossibilità di una continuità del marxi-smo, o la sua continuità solo per salti, per irriconoscibili metamorfosi, ma an-che perché specifica la ragione profonda di tale impossibilità, che è, innanzi-tutto, di natura antropologica, nel senso che è il nostro corpo che alla lunga si rifiuta di inseguire il marxismo, il quale, invece, per continuare a vivere, deve continuamente strapparsi dal passato, separarsi, per così dire, dai soggetti presso i quali aveva sostato, perché, al suo interno, non vi è altra possibilità di pensare filosoficamente e politicamente se non stando lì dove va spostato il suo punto di applicazione. Non si può essere sempre giovani (o lo si può esse-re solo nelle forme della propria gioventù, e nella ripetizione di essa): questo prova i blocchi di molti marxisti (ovvero la difficoltà a storicizzare la tradi-zione culturale di una fase storica della propria emancipazione (69) , e, nel provare ciò, verifica l’impossibilità di una continuità del marxismo, o la sua possibilità solo dentro i quadri di una storia di congiunture marxiste.

Storia di congiunture marxiste. Questa è la storia del marxismo. Tra Tradi-zione e Contingenza, «due mondi comunicanti e incomunicabili», nel senso che non serve «possedere un progetto […], e non ritenere degno il fatto di mi-surarlo con ciò che accade», perché «quando dalla situazione contingente e-merge il bisogno della grande azione […] è un dovere farsi trovare […] pron-ti», e ci si può far trovare pronti se non ci si è completamente persi insieme a «questa rovinosa caduta della coscienza storica» (70) , se si è capaci di en-trare nel tempo di ora, con una tradizione, «la cui presunta unità […] non può consistere che nell’ingiunzione di riaffermare scegliendo» (71) . Infatti, se essa «fosse data, naturale, trasparente, univoca, […] non ci sarebbe mai nulla da ereditare» (72). È sempre la venuta di un evento che rende possibile l’eredità. È tutto qui il problema di Marx, tra Contingenza e Tradizione. Nell’abisso di questa divaricazione. E sempre in lotta contro di essa. O sempre in attesa, perché la possibilità di entrare in relazione con la contingenza, o stare almeno nelle sue vicinanze, «coincide paradossalmente con la pazienza del-la sua attesa» (73), la quale custodisce, e fa salire di tensione, la insopportabilità del presente (74). Ecco perché occorre tenere gli occhi fissi sulla sto-ria. Con la consapevolezza, però, o con la prudenza, che a volte (o sempre?) le cose che si possono pensare non coincidono quasi mai con quelle che si pos-sono fare. Forse, occorrerebbe separare natura e storia, «poiché, come dice il Vico, la storia dell’umanità si distingue dalla storia naturale per il fatto che noi abbiamo fatto l’una e non abbiamo fatto l’altra» (75). Perché è solo separando natura e storia, che il materialismo storico fuoriesce dal suo costitutivo prometeismo. Forse. Anche perché oggi la struttura del mondo è giunta a un punto tale che sempre più di rado sono possibili azioni tranquille o ponderate decisioni. Ma dentro Prometeo, per il marxismo ci sono solo strade senza uscita, percorsi che non portano da nessuna parte, o che comunque portano lon-tani proprio da quel sentiero degli uomini, di cui parlava Arturo Massolo, che occorrerebbe, invece, concorrere a tracciare (76) . Se solo si aprisse una piccola discussione su qualcuno di questi temi, Storia dei marxismi in Italia avrebbe raggiunto pienamente il suo obiettivo.

Note

  1. G. Preti, Praxis ed empirismo, Torino, Einaudi, 1957, p. 175. Su tutta questa tematica cfr. il bel libro di B. de Giovanni, Marx e la costituzione della praxis, Bologna, Cappelli, 1984.
  2. J. Derrida, Spettri di Marx (1993), Milano, Cortina, 1994, p. 45. Di Derrida cfr. anche il volume scritto con Élisabeth Roudinesco, Quale domani?, Torino, Bollati Boringhieri, 2004.
  3. C. Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, manifestolibri, 2005.
  4. M. Tronti, Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 82.
  5. K. Marx, Lettera a Ruge, settembre 1843, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, III, 1843-1844, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 156. «Apparirà chiaro allora – scrive Marx – come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tracciare un trattino tra passato e futuro, bensì di realizzare i pensieri del passato. Si mostrerà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma porti a compimento consapevolmente il suo vecchio lavoro».
  6. M. Tronti, Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico, cit., p. 51. Sul ruolo della coscienza, della coltivazione di sé, come elemento fondativo di una nuova capacità di vedere ciò che i rapporti nascondono, è da vedere la bella prefazione di Tronti a questo stesso libro: Senza titolo (pp. IX-XIV).
  7. M. Tronti, Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico, cit., p. 42.
  8. Su questa tematica cfr. il ricchissimo contributo di B. de Giovanni, Marx oltre i marxismi, in Bozze, 1985, pp. 47-64.
  9. R. Finelli, Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 20-21.
  10. Ivi, pp. 19-20.
  11. B. de Giovanni, Marx oltre i marxismi, cit., p. 55.
  12. Ivi, p. 60.
  13. E. Balibar, La filosofia di Marx (1993), Roma, manifestolibri, 1994, p. 10.
  14. E. Balibar, La vacillazione dell’ideologia nel marxismo (1983), in Id., La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, Milano, Mimesis, 2001, p. 95.
  15. Ibidem
  16. G. Vacca, «Il Manifesto del Partito comunista» e il problema storico della democrazia, in S. Mastellone-L. Canfora-B. de Giovanni-G. Vacca, Il Manifesto del Partito comunista in Inghilterra, Lecce, Pensa, 2005, p. 204.
  17. E. Balibar, La vacillazione dell’ideologia nel marxismo, cit., p. 95. Il riferimento è a A. Badiou, Peut-on penser la politique?, Paris, Seuil, 1985.
  18. J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 44.
  19. R. Finelli, Un parricidio mancato, cit., pp. 20-21.
  20. Cfr. B. de Giovanni, Presente e tradizione, in Il Centauro, 1985, n. 13-14, pp. 68-82.
  21. Cfr. R Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici (1979), Genova, Marietti, 1986.
  22. P. Favilli, Marxismo e riformismo nell’Italia primonovecento, in Società e storia, 1993, n. 62, p. 873.
  23. Cfr. L. Althusser, Sul giovane Marx. Questioni di teoria (1960), in Id., Per Marx, Roma, Editori Riuniti, pp. 40-41.
  24. B. de Giovanni, Crisi organica e stato in Gramsci, in F. Ferri (a cura di), Politica e storia in Gramsci, vol. I, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 222.
  25. F. Fistetti, Althusser e la critica dell’economia politica, introduzione a R. Establet-P. Macherey, La scienza del capitale. Leggere Marx, Verona, Bertani, 1975, p. 9. Il riferimento a Marx è rintracciabile in K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Introduzione di C. Luporini, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 77, laddove Marx osserva che la «critica critica» «prende i pensieri, le idee, l’espressione concettuale, resa autonoma, del mondo esistente per il fondamento di questo mondo esistente». Quello a Lenin è rintracciabile, invece, in V.I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, a cura di F. Platone, in Opere, vol. XIV, Roma, Editori Riuniti, 1963, pp. 336-337, laddove Lenin afferma: «Le raffinate escogitazioni gnoseologiche di un qualsiasi Avenarius restano invenzioni professorali, tentativi di fondare una “propria” piccola setta filosofica, ma in realtà, nelle condizioni generali della lotta delle idee e delle tendenze nella società contemporanea, la funzione obiettiva di questi artifici gnoseologici è una soltanto: spianare la via all’idealismo e al fideismo, mettersi fedelmente al loro servizio».
  26. Sul concetto di livelli di astrazione cfr. J.G.A. Pocock, Politica linguaggio e storia, con Prefazione e cura di E.A. Albertoni, Milano, Comunità, 1990, p. 35. Per una discussione di questo concetto rimando a P. Serra, Metodologia politica e mondo contemporaneo. Introduzione alla storia del pensiero politico contemporaneo, di prossima pubblicazione presso la casa editrice Ediesse di Roma.
  27. D. Cofrancesco, Destra e sinistra, Genova, Il Basilisco, 1981, p. 29. Su questo punto sono tutte da analizzare e da riconsiderare le indicazioni metodologiche, tra di loro anche molto diverse, di Anna Maria Battista e di Augusto Del Noce. Cfr. di A.M. Battista la Introduzione metodologica (1977) a Aa. Vv., Il «Rousseau» dei giacobini, Urbino, Edizioni QuattroVenti, 1988, pp. 11-28. Per quanto riguarda Del Noce, spunti in P. Serra, Augusto Del Noce. Metafisica e storia, Napoli, Esi, 1995; Id., Filosofia e libertà. Osservazioni sul rapporto tra Del Noce e Gramsci, in C. Vasale-G. Dessì (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, Torino, Sei, 1996, pp. 149- 165.
  28. P. Favilli, Marxismo e riformismo nell’Italia primonovecento, cit., p. 873.
  29. E. Garin, Ancora della storia della filosofia e del suo metodo, parte II, in Giornale Critico della filosofia italiana, IV, 1960, p. 526. La prima parte di questo intervento era apparsa sul numero precedente della rivista alle pp. 373-390.
  30. E. Garin, Ancora della storia della filosofia e del suo metodo, parte II, cit., p. 533.
  31. Cfr. H.R. Jauss, Estetica e interpretazione letteraria (1982), Genova, Marietti, 1990, esponente di spicco della scuola di Costanza. Di Jauss cfr. anche Da Combray a Costanza: l’avventura della critica, in Intersezioni, n. 3, 1986, pp. 413-426. Sulla ermeneutica di Jauss cfr. C. Gentili, Ermeneutica e metodica. Studi sulla metodologia del comprendere, Genova, Marietti, 1996.
  32. Importante, in questa prospettiva, è anche il lavoro di Wolfgang Iser, come Jauss professore di teoria della letteratura a Costanza. Della sua fenomenologia della lettura cfr. La struttura d’appello del testo. L’indeterminatezza come condizione degli effetti della prosa letteraria (1970), in Quaderni urbinati di cultura classica, n. 1, 1985, pp. 15-37 (con Postille critiche di F. Rauscher, pp. 38-41 e di C. Gentili, pp. 41-43) ; L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica (1976), Bologna, il Mulino, 1987.
  33. M. Viroli, Introduzione a Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno (1978), Bologna, il Mulino, 1989, vol. I, p. 13. «Applicata alla interpretazione dei testi del pensiero politico, la teoria degli atti linguistici si traduce nel principio che per capire che cosa voleva dire un autore del passato e come voleva essere capito, non è sufficiente conoscere il significato letterale dei termini impiegati e dobbiamo compiere uno sforzo interpretativo ulteriore per intendere che cosa l’autore voleva fare nello scrivere ciò che ha scritto» (ivi, p. 14).
  34. Una critica al concetto di influenza è in M. Foucault, L’archeologia del sapere (1969), Milano, Rizzoli, 1971. Sull’importanza cruciale di Foucault nel contesto di questo discorso rimando, per una prima approssimazione, a P. Serra, Michel Foucault. Un modello di storia delle idee, di prossima pubblicazione su Democrazia e diritto. Ma considerazioni interessanti su questo punto aveva già svolto Garin nelle Osservazioni preliminari a una storia della filosofia, citato nelle note precedenti: «Le varie espressioni metaforiche di cui tutta una storiografia si compiace quali sopravvivenze o precorrimenti […], vedute anacronistiche e rami secchi, uomini vivi o morti al proprio tempo, non sono altro che tentativi di insinuare nella dimensione temporale possibilità di discriminazione di valori che le sono estranee» (p. 21). Sempre di Garin notazioni interessanti riguardo al problema degli antecedenti delle filosofie: «che un filosofo “si vincoli ai predecessori”, è un discorso che nella sua generalità rischia di non dir nulla o di dir troppo. Quel che importa è che il suo campo di scelte, il terreno su cui si muove, le domande a cui risponde, le esperienze che vuole interpretare e unificare, sono di volta in volta diverse, e non sono necessariamente le “filosofie” che lo hanno preceduto anche se, a un certo punto, alcune di esse vengono considerate e discusse» (pp. 38-39).
  35. Di Skinner cfr. almeno Dell’interpretazione, Bologna, il Mulino, 2001.
  36. Tra i materiali più radicali, e più innovativi, di questa riformulazione del marxismo, vanno ricordati, di Giuseppe Vacca, almeno i seguenti scritti: Lukács o Korsch?, Bari, De Donato, 1969; Marxismo e analisi sociale, Bari, De Donato, 1969; Scienza stato e critica di classe. Galvano della Volpe e il marxismo, Bari, De Donato, 1970; La teoria e i livelli attuali della lotta di classe (intervista a cura di O. Cecchi), in Rinascita, n. 37, 1971, ora in Id., Osservatorio meridionale. Temi di politica culturale tra gli anni sessanta e settanta, Bari, De Donato, 1977, pp. 103-124; Politica e teoria nel marxismo italiano. 1959-1969, Bari, De Donato, 1972. Sullo sfondo di questa riclassificazione del marxismo vi era da un lato la ricerca filosofica di B. de Giovanni, l’innesto di una straordinaria tradizione accademica nel corpo del giovane marxismo meridionale (Hegel e il tempo storico della società borghese, Bari, De Donato, 1970; Marx e lo stato, in Democrazia e diritto, n. 3, 1973, pp. 37-82; La teoria politica delle classi nel «Capitale», Bari, De Donato, 1976) e dall’altro una nuova interpretazione di Gramsci e della tradizione comunista elaborata in quegli anni da Franco De Felice, in alcuni scritti ancora oggi fondamentali (Questione meridionale e problema dello stato in Gramsci, in Rivista storica del socialismo, n. 27, 1966, pp. 189-220; Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia 1919-1920, Bari, De Donato, 1971; Fascismo democrazia Fronte popolare. Il movimento comunista alla svolta del VII Congresso dell’Internazionale, Bari, De Donato, 1973; Una chiave di lettura in «Americanismo e fordismo», in Rinascita-Il Contemporaneo, n. 42, 1972, 27 ottobre, pp. 33-35; Analisi e prospettive del movimento comunista internazionale in Togliatti (1926-1935)), in Istituto G. Feltrinelli, Annali, XV, 1973, pp. 1392-1442; Nodo centrale è il rapporto tra ricerca storica e movimento operaio (intervista a cura di O. Cecchi), in Rinascita, n. 25, 1973, pp. 18-20), e da Leonardo Paggi, della cui ricerca di quegli anni è da vedere almeno Gramsci e il moderno principe. Nella crisi del socialismo italiano, Roma, Editori Riuniti, 1970; La teoria generale del marxismo in Gramsci, in Annali Feltrinelli 1973, Milano, Feltrinelli, 1974. Importante, anche, la ricerca, sicuramente più tesa e meno ottimistica (più aperta al dellavolpismo ed anche ad un certo operaismo), elaborata in quegli stessi anni da Franco Cassano (Ideologia e contraddizioni del movimento studentesco: la dimensione politica del processo di qualificazione, in Istituto Gramsci, Il marxismo italiano degli anni sessanta e la formazione teorico-politica delle nuove generazioni, Roma, Editori Riuniti, 1972, pp. 471-492; Teoria del blocco storico e ricomposizione del lavoro nel capitalismo maturo, Introduzione a Marxismo e filosofia in Italia (1958-1971), Bari, De Donato, 1973, pp. 27-75; Note d’analisi sullo sviluppo capitalistico, in Critica marxista, n. 6, 1973, pp. 21-69; Scuola di massa e subordinazione sociale nel Mezzogiorno, in G. Vacca (a cura di), Pci Mezzogiorno e intellettuali, Bari, De Donato, 1973, pp. 135-157. Una ricerca collettiva del marxismo barese è quella di G. Vacca, a cura di, Pci Mezzogiorno e intellettuali, cit., con scritti di Vacca, De Felice, Cassano, De Giovanni, Schiavone, Cotturri e altri). Fondamentale è, poi, il contributo della cultura giuridica (da Pietro Barcellona ad Aldo Schiavone a Giuseppe Cotturri). Ma sono tante le figure di primo piano della intellettualità italiana di quegli anni che hanno interagito fecondamene con questo orientamento. Ma, più di tutti, decisiva fu la presenza di quel personaggio invisibile che è Mario Santostasi, il marxista barese, «disposto a dire, non disposto a scrivere», per usare le parole che Tronti usa per Taubes, come se «ormai il valore sta solo in questa oscurità, separatezza, riservatezza, rifiuto di comparire, da parte di esistenze solitarie» (M. Tronti, La politica al tramonto, Torino, Einaudi, 1998, p. 151). Su tutto questo orientamento è tornato G. Vacca (intervista a cura di G. De Tommaso), Quando a Bari la sinistra ha fatto scuola, in La Gazzetta del Mezzogiorno, 21 febbraio 2001, p. 6.
  37. C. Corradi, Storia dei marxismi in Italia, cit., pp. 180-181.
  38. Su questi aspetti sono intervenuto in più occasioni e, da ultimo, in Americanismo senza America. Intellettuali e identità collettive dal 1960 ad oggi, Bari, Dedalo, 2002.
  39. C. Corradi, Storia dei marxismi in Italia, cit., pp. 254-255.
  40. L. Althusser, Dal «Capitale» alla filosofia di Marx, in L. Althusser-E. Balibar, Leggere il Capitale (1965), Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 55-56.
  41. Basti ricordare le imponenti ricerche storiografiche dedicate a Gramsci (le Introduzioni ai volumi A. Gramsci-T. Schucht, Lettere 1926-1935, Torino, Einaudi, 1997; Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Torino, Einaudi, 1999), e a Togliatti (le Introduzioni a P. Togliatti, Sul fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2004; Togliatti editore di Gramsci, Roma, Carocci, 2005). Occorre dire che, a volte, ma questo riguarda di più alcune ricerche precedenti, si assiste a qualche eccessiva forzatura attualizzante, come quelle tendenti a presentare un Gramsci liberale, forzature che non servono né a riscattare il passato né a pensare il presente.
  42. Il concetto, come è noto, è usato da Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi, ed è ripreso da Schmitt, il quale lo pone a fondamento della sua teologia del grande inquisitore.
  43. Su tutti questi problemi, oltre che in scritti più generali (e da ultimo in Americanismo senza America, già cit.) ho focalizzato particolarmente l’attenzione in P. Serra, Doppia lettura del fondatore dell’«Unità». Il ruolo della «scuola di Bari» nell’interpretare la filosofia della praxis, in Il Giorno, 3 ottobre 1992, p. 14; Id. École barisienne. Il poco che rimane della sinistra ha le radici in quell’esperienza (intervista a cura di F. Blasi), in Corriere del Mezzogiorno (supplemento pugliese del Corriere della Sera), 17 dicembre 2005, p. 17. Questa intervista si inserisce in un dibattito, tuttora in corso, sul marxismo barese, promosso dal Corriere del Mezzogiorno (con interventi, tra gli altri, di M. Montanari, F. Fistetti, B. de Giovanni, F. Cassano).
  44. Cfr. M. Cacciari, Sulla genesi del pensiero negativo, in Contropiano, n. 1, 1969, pp. 131-200; Id., Krisis, Milano, Feltrinelli, 1976; Id., Pensiero negativo e razionalizzazione, Venezia, Marsilio, 1977; Id., Dialettica e critica del politico. Saggio su Hegel, Milano, Feltrinelli, 1978; Id., Critica della «autonomia» e problema del politico, in V.F. Ghisi (a cura di), Crisi del sapere e nuova razionalità, Bari, De Donato, 1978, pp. 123-135; Id., L’impolitico nietzschiano, in F. Nietzsche, Il libro del filosofo, Roma, Savelli, 1978, pp. 103-120.
  45. Cfr. soprattutto gli interventi di B. de Giovanni e di C. Luporini, in Nietzsche e la cultura della crisi (dibattito con B. de Giovanni, C. Luporini, M. Cacciari, a cura di F. Adornato), in La città futura, n. 13, 1978, p. 7-9. Scrive, per esempio, de Giovanni: «Potenziare oggi questa parola “dialettica” effettivamente diventa difficile, [ma] ho l’impressione che nel senso comune di questi nuovi soggetti, emergenti dentro la crisi, la funzione di Nietzsche sia questa: costituzione di un senso comune sull’impossibilità di un processo, sull’impossibilità di una interpretazione teorica “in connessione” con la realtà» (p. 7).
  46. Cfr. P. Serra, Sulla genesi del pensiero negativo in Italia: uno schema interpretativo, in Democrazia e diritto, n. 3, 1991, pp. 181-198; e con riferimento critico ad un volume di G. Cantarano (Immagini del nulla. La filosofia italiana contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 1998), in Id., Pensiero negativo come filosofia pratica, in Critica marxista, n. 4, 1999, pp. 66-68.
  47. Stesso discorso potrebbe essere fatto per Tronti e, in modo particolare, per la tematica della Autonomia del politico (l’autonomia del politico e del potere nei confronti della società), la quale non rappresenta un cedimento o un abbandono alla teoria borghese della politica, né una teoria generale della politica, ma un modo storicamente determinato, e direi precocissimo, quasi profetico (tanto che ancora oggi, a trentacinque anni dalla prima enunciazione del tema, si fa ancora fatica a comprenderlo), di sottoporre ad analisi critica il ciclo aperto dal sessantotto (M. Tronti, L’Autonomia del politico: relazione introduttiva (1972), in Id., Sull’autonomia del politico, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 9-62), in assenza della quale non andremo da nessuna parte. Ma su Tronti mi fermo qui, anche perché il mio compito è solo quello di discutere alcuni punti del libro di Corradi e non, invece, quello di scrivere una storia dei marxismi, alternativa alla sua.
  48. C. Corradi, Storia dei marxismi in Italia, cit., pp. 250-255, la citazione è tratta da p. 251.
  49. L. Colletti, Intervista politico-filosofica, Roma-Bari, Laterza, 1974. Di Colletti cfr. anche Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza, 1979.
  50. G. Vacca, «Il Manifesto del Partito comunista» e il problema storico della democrazia, cit., pp. 215-216.
  51. Ivi, p. 215.
  52. Fondamentali, a tal proposito, sono le Tesi su Feuerbach, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. V, 1845-1846, Roma, Editori Riuniti, 1972, pp. 3-5.
  53. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. III, 1843-1844, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 191. Su tutta questa problematica sempre utili le ricerche di K. Löwith, Significato e fine della storia (1949), Milano, Comunità, 1963, pp. 61-83; Id., La sinistra hegeliana (1960), Roma-Bari, Laterza, 1982.
  54. G. Vacca, «Il Manifesto del Partito comunista» e il problema storico della democrazia, cit.
  55. K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica , libro primo, con una Introduzione di L. Firpo, Torino, Utet, 1948, p. 328. Per i riferimenti marxiani a Vico, cfr. N. Badaloni, Introduzione a Vico (1984), Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 158-160.
  56. Su questa tematica cfr. M. Tronti-P. Serra (Conversazione), La sinistra secolarizzata e l’antipolitica della destra, in Aprile, maggio 2005, pp. 5-6. Di Tronti cfr. anche la bella intervista curata da I. Dominijanni, Quel circolo di sacro e secolare, in Il manifesto, 29 aprile 2005, p. 14.
  57. C. Castoriadis, Istituzione della società e religione (1982), in Id., L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni (Postfazione di F. Ciaramelli), Bari, Dedalo, 1998, cit., p., 23. Testo fondamentale per affrontare in maniera non artificiale né statica il rapporto tra immanenza e trascendenza.
  58. Sulla non filosofia di Marx, e sui suoi effetti sul terreno dell’antropologia e della politica, Augusto Del Noce aveva scritto, tra il ’46 e il ’48, quattro saggi a questo tema appositamente dedicati: Attualità della filosofia di Marx?, in Costume, n. 2, 1946, pp. 90-99; Studi intorno alla filosofia di Marx, in Rivista di filosofia, n. 3-4, 1946, pp. 223-233; La «non-filosofia» di Marx e il comunismo come realtà politica, in Aa.Vv., Il materialismo storico. Atti del I Congresso internazionale di filosofia, Milano, Castellani e C., 1947, pp. 357-388; Marxismo e salto qualitativo, in Rivista di filosofia, n. 3, 1948, pp. 209-229. Ho ricostruito e discusso questa interpretazione di Marx, in P. Serra, Una democrazia post-fascista: A. Del Noce su «il Popolo Nuovo», in F. Mercadante-V. Lattanzi (a cura di), Augusto Del Noce. Essenze filosofiche e attualità storica, Convegno internazionale di studi (Roma, 9-11 novembre 1995), Atti, volume secondo, Roma, Edizioni Spes-Fondazione Del Noce, 2001, pp. 534-553.
  59. Centrale in questo discorso è la ricerca di H.R. Jauss, Estetica e interpretazione, cit.
  60. Il riferimento è a R. Kosellek, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici (1979), Genova, Marietti, 1986. Sulla Begriffsgeschichte fondamentali sono gli studi di Giuseppe Duso e della sua scuola.
  61. Cfr. su questi temi B. de Giovanni, Presente e tradizione, cit.
  62. Cfr. H.R. Jauss, Estetica e interpretazione letteraria, cit.
  63. Q. Skinner, Significato e comprensione nella storia delle idee (1969), in Id., Dell’interpretazione, cit., p. 17. Skinner – ha scritto Barberis – chiama «mitologia della dottrina quella per cui ogni scrittore del passato deve aver necessariamente formulato dottrine su alcuni problemi fondamentali che magari sono stati tematizzati secoli dopo (salvo criticarlo se non l’ha fatto); mitologia della coerenza quella per cui ogni (grande) autore politico non può aver sostenuto tesi tra loro confliggenti, salvo ipotizzare che le incoerenze apparenti – magari semplicemente dovute al fatto che l’autore ha cambiato idea da un’opera all’altra – manifestino in realtà una coerenza profonda; mitologia della prolessi quella per cui, con il senno di poi, si proiettano su un’opera significati storici che nessun contemporaneo si sarebbe sognato di attribuirle; mitologia della familiarità quella per cui s’interpreta a viva forza ciò che non si conosce sulla base di ciò che si conosce, assumendo per esempio che un autore successivo sia stato influenzato da un autore precedente (da noi) ritenuto importante» (M. Barberis, Introduzione. La storia delle dottrine politiche: un discorso sul metodo, in Id., Sette studi sul liberalismo rivoluzionario. Con un’introduzione metodologica e un’ap-pendice bibliografica, Torino, Giappichelli, 1989, p. 19). Su Skinner, e più in generale sulla scuola di Cambridge, così come su tutte le questioni metodologiche riguardanti l’analisi delle tradizioni politiche della contemporaneità, rimando, ancora una volta, a P. Serra, Metodologia politica e mondo contemporaneo. Introduzione alla storia del pensiero politico contemporaneo, cit.
  64. M. Barberis, Sette studi sul liberalismo rivoluzionario. Con un’introduzione metodologica e un’ap-pendice bibliografica, cit., p. 9.
  65. J. Derrida, Spettri di Marx, cit., pp. 46-47.
  66. M. Tronti, La politica al tramonto, cit., pp. 125-126.
  67. E. Balibar, La filosofia di Marx, cit., p. 13.
  68. Fuori dal marxismo, il caso più interessante è quello di Ugo Spirito, il cui itinerario dimostra, come pochi altri, l’impossibile continuità dell’attualismo, o la sua continuità solo per salti, per non cumulative metamorfosi. Su questo problema in Ugo Spirito rimando a P. Serra, Il problema dell’attualismo. Considerazioni sul rapporto tra Spirito e Gentile, in Annali della Fondazione Ugo Spirito, 1993, pp. 237-250; Id., Corpo e Pensiero nelle Metafisiche della gioventù del Novecento. L’itinerario di Ugo Spirito, di prossima pubblicazione.
  69. E questo perché – lo notava acutamente Mosse, analizzando la tragica vicenda degli ebrei-tedeschi – l’epoca in cui una minoranza si emancipa finisce per «determinare in larga misura gli aspetti più importanti della sua autoidentificazione, non solo al momento della emancipazione stessa, ma anche per il futuro» (G.L. Mosse, Ebrei in Germania fra assimilazione e antisemitismo, Firenze, Giuntina, 1991, p. 45). Infatti – è ancora Mosse – «la modernità, una volta accettata, può bloccarsi in posizioni che più tardi possono apparire arcaiche, in quanto mancanti di una loro dinamica» (ivi, 41). Di Mosse cfr. anche Il dialogo ebraico-tedesco. Da Goethe a Hitler, Firenze, Giuntina, 1988. Di questo Mosse, e con l’occhio alle correnti della disperazione comunista, mi sono occupato in P. Serra, Nazisti ed ebrei nella Germania di Gorge Mosse, in Democrazia e diritto, n. 6, 1989, pp. 227-245.
  70. M. Tronti, La politica al tramonto, cit., pp. 125-127.
  71. J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 25.
  72. Ivi, p. 26.
  73. M. Cacciari, Lettera V. Politica e profezia, in Id., Della cosa ultima, Milano, Adelphi, 2004, p. 229.
  74. Su questo tema, spunti molto interessanti in M. Tronti, Relazione, in Politica e profezia (Atti del convegno organizzato dalla Provincia di Roma, 3 dicembre 2004, con M. Cacciari, T. Dell’Olio, C. Molari e M. Tronti), Roma, 2005, pp. 25-30.
  75. K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, cit., p. 328.
  76. A. Massolo, La storia della filosofia e il suo significato (1961), in Id., La storia della filosofia come problema e altri saggi, Firenze, Vallecchi, 1967, pp. 38-49. Il riferimento specifico è tratto dalla pag. 49.

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