Articolo di Diminitris Tsarouhas apparso su “Social Europe Journal” del 16 dicembre 2014. Traduzione dall’inglese di Fabio Vander
Mentre il 2014 volge al termine, il motore delle economie europee rimane bloccato su una marcia bassa, con una crescita debole che non può compensare la perdita di produzione e posti di lavoro determinatasi con la crisi. Il timore di una spaccatura dell’Eurozona è stato domato, ma non è stato completamente rimosso.
Questo mentre la prospettiva sempre più realistica di governi di sinistra in paesi come la Grecia, spinge ad una violenta instabilità dei mercati. Le classi a basso e medio reddito in Europa si sentono insicure come non mai, mentre una nuova leadership europea fa tentativi di convincere i cittadini che ’questa volta è diverso’ e che l’’ultima chance’ (Jean Claude Juncker) per la rinascita UE non andrà persa.
Ma quanto è realistica la prospettiva di una ripresa economica combinata con la coesione sociale e una lotta efficace contro la crescente disuguaglianza? Il paradigma economico prevalente in Europa, lascia poco spazio all’ottimismo. Il governo tedesco dà il tono al resto d’Europa, un tono che rimane concentrato sulla necessità del “consolidamento fiscale” e delle “riforme strutturali”, il che per la maggior parte degli europei è sinonimo di miseria sociale e recessione economica.
La presenza della SPD nel governo di coalizione tedesco doveva riequilibrare l’approccio tedesco, ma ben poco è stato fatto finora. Altrove in Europa il rifiuto di forme estreme di austerità, come in Italia e in Francia, ha portato al più il ’rumore’ politico di Renzi e Hollande, ma tali voci sono restate troppo deboli o comunque inefficaci.
La colpa non dovrebbe tuttavia essere attribuita solo a Berlino e alle scelte della signora Merkel e del signor Schäuble. L’architettura della governance economica dell’Unione europea, come definita prima (trattato di Maastricht, Patto di stabilità e crescita) e durante (Fiscal Compact, Six-Pack, ecc.) la crisi, rende gli approcci progressisti, in condizioni di depressione economica, quasi proibitivi. Con l’aumento della insoddisfazione popolare e della pressione sui salari dei cittadini, qualità e tempi di vita sono giunti vicini ad un punto di rottura; la socialdemocrazia deve rendersi conto che, proprio come l’Unione europea, si trova di fronte a qualcosa come un’ultima occasione.

Va superata sia la “vecchia” sia la “nuova” socialdemocrazia

La lotta per le etichette tra i progressisti è fortunatamente finita, ma molte delle lezioni derivate da quelle battaglie sono ancora da imparare. Il compianto Tony Judt ha giustamente respinto un’accezione “difensiva” della socialdemocrazia, perché essa resta bloccata in una nozione romantica di comunità e di benessere, che risponde a malapena alle esigenze delle società contemporanee. Per citare solo l’esempio più evidente, uno stato sociale che continui a sovratassare i lavoratori e a redistribuire le risorse lontano da quelli che ne hanno veramente bisogno (i giovani) per orientarle verso quelli che sono sempre più garantiti (i vecchi), se pure lo fa in nome della giustizia sociale, poco ha a che vedere con un genuino progressismo. E dire che le scelte elettorali e l’apatia degli elettori più giovani hanno determinato un impatto distorsivo profondo, tanto più in presenza di politiche sociali che hanno piuttosto rinforzato che combattuto le disuguaglianze. E questo è insostenibile.
Ma se una socialdemocrazia “difensiva” è sbagliata, una forma palese di “revisionismo” la rende nondimeno assai difficilmente distinguibile dai suoi avversari politici. Ne risultano ridotte le possibilità di scelta per un elettorato sempre più preoccupato, mentre d’altro canto non si riesce a contrastare adeguatamente le tendenze al ribasso di salari, redditi e beni, manifestatesi nel corso degli ultimi due decenni.
Limitarsi a galleggiare nel mare del capitalismo globale stando attenti a non finire sugli scogli e sperando che qualche goccia di ricchezza possa essere distillata verso la parte più disagiata della società, è una politica che abbiamo già sperimentato. Essa è fallita miseramente nel 2008, ha contribuito a cacciare una serie di governi di centro-sinistra e ha lasciato il suo marchio tra le comunità della classe operaia, diffondendo sfiducia verso la democrazia sociale un po’ ovunque in Europa.

Una nuova politica per l’Europa sociale

“Social Europe Journal” ha lavorato instancabilmente per promuovere un dialogo entro il mondo progressista sui modi per affrontare i problemi contemporanei. Sono stati stabiliti alcuni principi fondamentali che possono valere come base per una nuova socialdemocrazia, capace di promuovere sostanziali cambiamenti e riforme progressive.
1) La lotta contro le disuguaglianze salariali, di reddito e di proprietà deve essere riposta al centro del pensiero socialdemocratico. I regimi fiscali devono essere reindirizzati dal focus sul lavoro a quello verso la ricchezza e la sovraccumulazione di ricchezza.
2) un cambiamento strutturale (tenendo conto del crescente invecchiamento delle nostre società) deve essere imposto in materia di investimenti produttivi pubblici e sociali. Piccoli passi sono in corso dopo l’annuncio Juncker di un nuovo piano di investimenti. Mentre le ipotesi di un piano del settore privato sono di fantasia, un primo passo nella direzione giusta dovrebbe vedere lo scomputo di tali spese per investimenti dal calcolo del rapporto debito/deficit.
3) le risorse dovrebbero essere redistribuite a due livelli: a) dal vecchio al giovane, rinnovando il contratto intergenerazionale e centrando l’obiettivo strategico della riduzione della disoccupazione giovanile; b) le risorse del welfare saranno messe sotto pressione per qualche tempo, per questo i meccanismi di mercato andranno ristrutturati a protezione delle finanze pubbliche. Quella che Jacob Hacker chiama “predistribuzione”, se usata saggiamente, può avere un valore progressivo. Essa crea sinergia fra società, sindacati e altri attori progressisti, entro una nuova storia di relazioni fra Stato e cittadini e di questi tra di loro. Ha anche il potenziale per riformulare il dibattito su Stato e mercato, in termini più corretti.
La socialdemocrazia ha fatto molta strada e vi è ogni ragione di aspettarsi che sopravviverà al malessere attuale, per combattere nuove battaglie. Ma ciò sarà possibile, come rifondare una vera Europa sociale, solo se il suo approccio sarà basato sui fondamentali del passato, ma con lo sguardo fisso al futuro.
(L’autore insegna Politica europea alla Bilkent University)

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