Umberto_AllegrettiQuesto numero della rivista è dedicato alla democrazia partecipativa (Dp): un tema inconsueto per le scienze delle istituzioni in Italia (è penetrato di più nella letteratura urbanistica e pedagogica). Tema inconsueto ma non peregrino. Anzi esso è già provvisto di un grado di esperienza sufficiente a conferirgli concretezza e a rendere possibile un’interpretazione teorica.

Democrazia e diritto non poteva rimandare di occuparsene. Nessuno dubita, anzi da molte parti si nota e si riflette, che nel nostro tempo, e proprio quando sta celebrando la sua vittoria su ogni altro regime politico, la demo-crazia si trova in seria crisi. Poiché in epoca moderna la forma generale della democrazia è stata la rappresentanza, è la sua crisi che va affrontata, nella doppia direzione del suo risanamento interno – nella misura in cui è possibile – e della sua correzione-integrazione dall’esterno: con altre forme di demo-crazia.
Da sempre questa rivista si è impegnata (come tutto il Crs) su tale obiettivo e, senza in questa sede aggredirlo da altri versanti, si ispira alla fiducia che uno degli elementi con cui rispondere alla sfida è dato dalla creazione anche in Italia di processi di Dp.
Anche in Italia: sebbene infatti non da ora la ricerca di istituzioni partecipate sia stata presente alla riflessione e, entro limiti, all’esperienza stessa del no-stro paese, non è qui che la Dp è nata e ha preso riconosciuta dimora. Apprendere dall’estero è dunque d’uopo, poiché la Dp è cosa più precisa della generica partecipazione, come in questo fascicolo risulterà chiaramente, e d’altronde il vero e proprio collasso subito dall’idea stessa di partecipazione dopo il suo essor negli anni sessanta e settanta richiede novità di ispirazione e di invenzione.
La ricerca di istituzioni partecipative deve dunque procedere guardando all’estero: non, ovviamente, per rintracciarvi modelli da imitare – è del resto raro trovare anche fuori modelli compiuti e stabili – ma sì esempi, successi e insuccessi, sui quali applicarsi per poi misurarsi con la nostra realtà. In questo caso apprendere dall’estero è soprattutto, come viene detto, «apprendere dal Sud», poiché è soprattutto nel Sud del mondo che si sono affinate o vanno affacciandosi esperienze istruttive, anche se altre se ne trovano sparse ormai per l’Europa.
Perciò il fascicolo, valendosi di numerosi contributi di scrittori stranieri, espone prima di tutto esperienze proprie del continente latino-americano (nel quale teoria e pratica della Dp conoscono una strutturazione elevata), per poi esplorare panorami o singole sperimentazioni di diversi paesi europei e quindi approdare all’Italia e a quanto in essa va compiendosi o può realizzarsi. Nes-sun panorama completo, ovviamente, ma un campionario che per il momento non si inoltra in alcune realtà nazionali che pur presenterebbero interesse – come il Regno Unito, i paesi scandinavi e la Svizzera – o su altre pratiche proprie degli stessi paesi trattati (ad esempio Francia e Germania). Speriamo di poter allargare lo sguardo, almeno in parte, nei numeri seguenti; perciò, come facciamo su altri temi, manterremo aperta la rubrica Ricercacontinua per tornare, già dal prossimo numero, sulla Dp .
America latina, dunque, prima di tutto. Senza soffermarci particolarmente sui casi brasiliani e su quello paradigmatico di Porto Alegre e del suo bilancio partecipativo, che rappresentano l’esperienza più antica, più stabile e anche la più nota, presentiamo un quadro continentale, dovuto a Jaime Vásconez e a Miguel Angel Bossano, e due contributi, rispettivamente di Jean-Paul Vargas Céspedes e Diego Alberto Zamuner e di Giovanni Allegretti, su esperienze meno conosciute ma di alto interesse.
Un primo insegnamento che viene da questi contributi, ma confermato da altre fonti, si riferisce a una delle questioni importanti per ogni sistema di Dp; una questione che chiama particolarmente in causa l’atteggiamento che di fronte a essa sono portati a prendere e il ruolo che vi possono svolgere i giuri-sti (ma non solo loro). Il problema cioè – inevitabile nel contesto italiano – di sapere quanto la Dp abbia bisogno e si giovi di un quadro normativo e quanto invece possa vivere, magari con vantaggio, restando affidata alla creatività spontanea degli operatori, istituzionali ma soprattutto popolari. E quello, in-terferente col primo ma distinto, di che cosa debba o possa essere fatto, in funzione dei processi partecipativi, dai livelli superiori di normazione – dalle costituzioni e dalle leggi dei parlamenti – e quanto debba essere lasciato ai gradi di normazione inferiori, comunali e altri.
L’impressione generale che si ricava è che, da un lato, un qualche intervento dei livelli alti sia non necessa-rio sempre e in ogni momento della nascita e dello sviluppo della Dp – si può pensare ad esempio che la fase iniziale sia più produttiva se procede dal basso, come è avvenuto in moltissime esperienze. Ma che sia utile e forse necessario, per dare l’abbrivio a forme partecipative nei casi di pigrizia creativa delle co-munità e degli enti istituzionali di base e in quei contesti nei quali la vita so-ciale, nei suoi risvolti istituzionali, è pensata come monopolizzata dalla necessaria formalità delle istituzioni pubbliche. E per neutralizzare gli ostacoli che, allo svilupparsi spontaneo delle pratiche partecipative, sono spesso frapposti dall’interesse di potere o dall’abitudine formalistica degli operatori ammini-strativi e dei giudici. D’altronde, è chiaro che la convinzione e la spinta delle comunità è essenziale perché la Dp funzioni, e spesso è all’origine stessa del suo formarsi (questo è un problema interferente con quello formale ma da esso distinto). Tutto ciò è documentato e documentabile. Nell’insieme, l’esperienza testimonia che le soluzioni più efficaci date alla questione vanno nella direzione di trovare un equilibrio tra lo spazio dato al fattore popolare e creativo e quello assegnato al fattore normativo e istituzionale, tra l’impegno delle fonti normative più elevate e quello delle più basse (e dunque del concorso tra fonti statali, regionali, comunali), tra la promozione dall’alto e la spinta dal basso. E che quell’equilibrio riguarda sia l’origine che l’evoluzione e il progresso dei processi partecipativi, e che una tendenziale elasticità è predicabile per le norme, di qualunque livello, che siano destinate a intervenire nel campo della Dp.
D’altronde, il ventaglio dei fondamenti e delle forme partecipative che esce dalla rassegna delle esperienze è ampiamente diversificato. Si può particolar-mente sottolineare come ne emerga un elemento non sempre presente né sem-pre rilevato che può rendere preziosa la Dp: il suo estendersi alla fase del controllo sull’azione delle istituzioni rappresentative. Ciò in duplice senso. Controllo della correttezza e della legalità dei comportamenti dell’amministrazione, con tutte le potenzialità di lotta alla corruzione esprimibili da uno sguardo più direttamente interessato al sindacato sugli abusi dei funzionari amministrativi rispetto a quello degli organismi pubblici del controllo, e di questo meno complice: un contributo che evidentemente potrebbe essere con-siderato vantaggioso sfruttare anche da noi. E poi controllo della conformità dei risultati alle decisioni e alle aspettative, teso a superare un’impasse che o-stacola ancora le forme di controllo di rendimento e di efficacia di recente in-staurate, anche qui per effetto dell’introduzione di uno sguardo dal basso, concretamente interessato e capace di valutare più direttamente i risultati in relazione alle realtà specifiche in cui la comunità protagonista del controllo è radicata.
Il senso dell’esperienza dell’America centrale colpisce in modo particolare anche perché rivela la possibilità che, applicata a contesti di democrazia non consolidata, usciti solo di recente da regimi dittatoriali persistenti nel tempo e in qualche modo ancora incombenti, la Dp costituisca, più che un’evoluzione della democrazia nella sua forma classica, un coefficiente importante per l’im-pianto del sistema democratico e per la sua stabilizzazione, al tempo stesso che fornisce un contributo al superamento delle insufficienze di una democra-zia esposta un po’ in tutto il mondo a restar priva di un radicamento popolare e non sufficientemente proiettata a finalità di giustizia sociale. Ma, come del resto risulta da molte altre riflessioni, quell’esperienza segnala, oltre «i bene-fici», anche «i rischi» della partecipazione: tra i quali la difficoltà di sfuggire alla retorica nella quale la partecipazione è sempre esposta a rimaner confina-ta senza pervenire a livelli realizzativi accettabili, e il pericolo di strumenta-lizzazione da parte delle reti clientelari e di iniziative populiste.
Altre indicazioni di valore vengono da un’esperienza così particolare come quella del Venezuela, che conferma alcuni degli insegnamenti già visti e ne consente altri. In essa risalta infatti, nella fase genetica, una significativa com-binazione tra il ruolo di spinta svolto dalla costituzione – non solo, vorremmo dire, da quella formale, ma dalla concezione materiale che ispira il nuovo regime «bolivariano» fondato da Chávez – e la creatività delle pratiche. Ma, come viene anticipato nello scritto qui pubblicato e sarà più ampiamente do-cumentato nel numero seguente di Democrazia e diritto, in una seconda fase, fase temporale e momento di sviluppo, la stessa esperienza ha sentito il biso-gno di una normazione statale (federale) estesa. Questa partecipazione può dirsi «nazionalizzata» anche in un senso più pregnante, perché legata all’ispirazione populista del regime, e conferma quindi il «sospetto» con cui guardare alla partecipazione dal punto di vista dei suoi rischi. Il che peraltro non dovrebbe portare a un giudizio negativo sull’esperienza partecipativa ve-nezuelana, che, tra l’altro, investe l’affidamento agli abitanti di un territorio della fase di realizzazione delle opere.
Venendo all’Europa, si constata che da tempo è in pieno svolgimento un «ritorno delle caravelle» provenienti dal nuovo continente, come è stato suggestivamente chiamato; e che il diffondersi tra noi di forme di Dp è al tempo stesso il prodotto, ovviamente, del ripullulare di radici ben radicate nella sua storia teorica e pratica. È altrettanto ovvio che si riproducono anche tra noi tentazioni verso un discorso puramente retorico, verso esperienze limitate e carenti (ad esempio solo consultive), verso sovrapposizioni di fenomeni di-versi, quali la concertazione o qualche forma di autogestione; come pure si presentano molte esitazioni e ostilità che, su un piano di osservazione statisti-ca, non consentono di dire che siamo di fronte a un fenomeno generale di de-collo di genuine pratiche partecipative.
Le forme prodotte dalle sperimentazioni europee sono assai variate e, alcune, notevolmente originali. Presentiamo qui, con lo scritto di Ernesto Ganuza Fernández, un panorama generale dei bilanci partecipativi in Spagna, seguito dall’illustrazione di due casi più specifici, quello delle giurie civiche berlinesi (analizzato da Anja Röcke e Yves Sintomer) e quello francese della Commis-sion nationale du débat public (illustrato dal suo presidente Yves Mansillon). Il moltiplicarsi dei bilanci partecipativi in Spagna – particolarmente diffusi in certe regioni, come l’Andalusia – documenta direttamente l’influenza del mo-dello brasiliano, ma non manca al tempo stesso di realizzare al suo interno dif-ferenze significative e varianti da un comune all’altro. E consente di studiare con chiarezza i problemi positivamente risolti e le difficoltà e le sfide che fronteggiano la Dp quando aggredisce un istituto così consolidato e impegna-tivo come il bilancio comunale (non di rado, di un grande comune). Il caso di Berlino mette di fronte, con probabile meraviglia di alcuni (ma non mancano esempi simili altrove), alla riscoperta, per la partecipazione a processi di deci-sione pubblica, dell’antica pratica greca dell’estrazione a sorte dei cittadini chiamati a intervenirvi. Quello del «débat public» in Francia non è meno im-pressionante: esso mostra come il classico paese dell’accentramento si sia a-perto a un’esperienza di democratizzazione delle decisioni statali più gelose – quelle sulle «grandi opere» – affidata a un’autorità indipendente presieduta da un prefetto della repubblica, gli esiti della cui attività sembrano notevolmente significativi.
Queste esperienze, analizzate acutamente dai contributi che pubblichiamo, meritano comunque verifiche più capillari in relazione ad altri esempi e con altre voci e perciò, come si è già detto, contiamo sulla possibilità di raccoglie-re ulteriori interventi nei prossimi numeri della rivista.
Arriviamo all’Italia. Due studiose del gruppo fiorentino di urbanistica, An-na Lisa Pecoriello e Francesca Rispoli, hanno ripercorso per noi il panorama complessivo, che si presenta ricco di pratiche varie, alcune appena iniziali al-tre più consolidate, alcune in verità elementari altre sufficientemente articola-te, e che manifesta che anche nel nostro paese, a livello quanto meno di co-muni o di loro articolazioni, in centri minori e in grandi città a partire da Ro-ma, vanno sorgendo tentativi e realizzazioni che tolgono la partecipazione dal limbo dei buoni propositi e la avviano a pratiche più avanzate di quelle dei decenni precedenti. Certo, l’espressione di propositi e di buoni principi preva-le forse ancora sulla realtà, ma si può cominciare a guardare a saggi di espe-rienza incoraggianti e che provocano un buon livello di emulazione. Queste pratiche sono abbastanza diffuse anche dal punto di vista geografico, e se il Centro-Nord sembra predominante non è detto che questo dipenda del tutto da una stasi delle regioni meridionali, ma in parte dalla minore attitudine del Sud a far eco alle sue prove e a destare attenzione su di esse.
Per questo abbiamo ritenuto che sia venuto il momento di porre le premesse per un percorso di riflessione, come si cerca di fare nell’articolo, qui inserito, sulle basi giuridiche che legittimano i presenti e i potenziali processi di demo-crazia partecipativa. La ricerca andrà proseguita, tenendo d’occhio le pratiche via via maturanti, per bilanciare anche da noi il bisogno di legittimazione e di stabilità normativa che esse hanno col rispetto della creatività delle comunità e con il valore insostituibile che a essa va riconosciuto.
Per questo, inoltre, guardiamo con viva speranza al valore aggiunto che po-trà portare al processo di crescita di queste esperienze l’interesse di alcune re-gioni per le pratiche partecipative e la loro normativizzazione. Tanto più che, almeno nel caso della Toscana – sul quale intendiamo tornare – già l’ela-borazione d’una legge generale sulla partecipazione è stata da tempo avviata con un interessante processo esso stesso ispirato al metodo partecipativo.
Sempre nell’ottica del nostro paese, lo scritto del caposcuola del gruppo di urbanisti fiorentini Alberto Magnaghi, nutrito di riflessione teorica non meno che di conoscenza e militanza pratica , apre a considerazioni più generali.
Una di queste è che le pratiche partecipative, che hanno a livello locale la loro verifica preferenziale, contengono però un potenziale che va oltre la sfera locale e che Magnaghi indica come «federalismo municipale solidale». Viene così valorizzata al massimo la «transcalarità» tipica della Dp pensata in termi-ni generali: l’essere cioè essa collocabile ai differenti livelli istituzionali e di società, con una capacità di collegarli insieme per produrre un nuovo ordine complessivo. Certo, questo sconta la possibilità di realizzare forme partecipa-tive anche a livelli territoriali elevati e, comunque, di far salire di scala la par-tecipazione espressa al gradino più basso. Ma l’idea, pur ancora diffusa, che la partecipazione possa trovare il suo terreno solo a livelli ristretti dovrebbe or-mai essere battuta in breccia dalle esperienze esistenti, che vedono le realizzazioni migliori in sistemi urbani complessi: a partire da Porto Alegre, dove proprio la transcalarità è assicurata all’interno della metropoli. Si pensi, per confermare la necessità del carattere transcalare, alla difficoltà riscontrata in altri tentativi, come, a livello di bilancio partecipativo di un ente superiore, quello dello stato brasiliano del Rio Grande do Sul, dove ciò che è mancato è stato anche il livello intermedio di giuntura tra comuni e stato (e per il Venezuela, si veda l’osservazione finale dello scritto di G. Allegretti).
Un altro punto, che emerge bene dal saggio di Magnaghi ma è supportato da tutta l’esperienza, e specialmente da quella brasiliana e latinoamericana in genere, è il legame tra i processi Dp e gli obiettivi sostanziali mirati e praticati. Un legame che privilegia il rapporto tra partecipazione e finalità redistribu-tive e di giustizia sociale. Non si tratta di un elemento assolutamente nuovo, se si pensa alla teoria democratica quando è accettata in tutte le sue implica-zioni, che vede nella democrazia economica e più generalmente sostanziale una componente imprescindibile della democrazia compiuta. In questo senso – come avviene con chiarezza in America Latina – la Dp si delinea come la via per l’introduzione nel dibattito istituzionale di interessi che rimangono tra-scurati nell’ambito della democrazia rappresentativa a noi contemporanea, specialmente in certi contesti. Non è forse questo, tra Dp e finalità di giustizia sociale, un vincolo assoluto, soprattutto non va assolutizzata la circostanza che la partecipazione sia – come talora di fatto avviene – affare esclusivo dei ceti subalterni e quindi, per esempio, dei quartieri popolari o marginali delle città. Anzi la fecondità delle esperienze più riuscite (ritorna la pratica portoa-legrense di bilancio partecipativo) si è alimentata anche del fatto di essere riu-scita a legare a sé anche larga parte degli strati superiori della popolazione, contribuendo ad aumentare – mentre portava le favelas all’inserimento nella città – il «valore» della città nel suo complesso.
Da un altro punto di vista (si veda quanto emerge per la Spagna), la Dp lega insieme processo politico e processi tecnici. Se le conseguenze politiche e gli obiettivi politici sono necessari per introdurla e mantenerla, non c’è dubbio che essa abbia bisogno di una dimensione tecnica, che le dia sostanza, efficacia, sostenibilità.
Infine, occorre riflettere a fondo sulle condizioni e i rischi della Dp. In un fascicolo che apre soltanto il discorso, ci limitiamo a osservare che, da un lato, la Dp non è un modello chiuso di istituti ma un processo aperto e in continuo sviluppo, e dall’altro che essa – pur rimanendo flessibile – deve curare un’architettura complessiva, un insieme di dispositivi solo collegando i quali è pos-sibile renderla effettiva e sostenibile (il che, ancora una volta, emerge bene dalle esperienze brasiliane e da quelle spagnole).

Un commento a “Verso una nuova forma di democrazia: la democrazia partecipativa”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *