Interventi

Foto di Anne & Saturnino Miranda da Pixabay

All’inizio sembrava una cosa da poco, su cui scherzare, sparare il solito carico di razzismo italico, soprattutto, stavolta, contro i cinesi, che per primi ne erano stati infettati. Alla tv avevamo visto la città di Wuhan, della provincia dell’Hubei, dove il Covid-19 si era manifestato con notevole violenza, ed era una città incredibilmente deserta in tutte le strade, mentre i droni dal cielo ingiungevano autoritari ai rari passanti di andare subito a casa. E a molti quel ruolo del drone era sembrata qualcosa di inverosimile, oppure, bisogna dire, la conferma del regime autoritario che governa la Cina.

Poi all’improvviso tutto è cambiato e, a cominciare dal nord del nostro Paese, da quella parte più ricca, moderna, orgogliosa del proprio operato in ordine all’economia, sulla salute pubblica, a tutto, un’intera generazione ha cominciato ad andarsene in silenzio, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Se ne sono andati senza le preghiere dei morti, senza gli addii laici, senza un fiore sulla tomba e senza gli affetti dell’ultima ora. E spesso, per la confusone o l’incuria dei luoghi che li ospitavano o degli ospedali, molti sono morti senza un nome che ne conservasse l’ identità e le bare si sono ammonticchiate ovunque, in attesa di trovare posto nei cimiteri della regione.

L’incuria di chi doveva proteggere le fasce della popolazione più esposte al contagio ha favorito il contagio e un gran numero di anziani, lasciati esposti a tutto negli ospedali e nelle case di riposo, se ne sono andati in silenzio, senza chiedere nulla, accompagnati all’inizio dall’oltraggiosa espressione “tanto muoiono solo i vecchi”, come vite dispensabili, avrebbe detto Judith Butler, vite che non servono più, vite di cui si può fare a meno anche del ricordo. Frase cinica e infelice, che tra i tanti aspetti negativi che segnano oggi la politica, mette in evidenza una volta di più l’opacità democratica che caratterizza il modo di pensare il fondamentale principio dell’uguaglianza della cittadinanza, rivelando, nel contempo, anche l’annosa incapacità di riannodare, sul filo prezioso della memoria, le vicende del nostro Paese.

Bisognerebbe ricordarla e raccontarla ai più giovani la storia del quella generazione, giovani che nel dopo guerra hanno ricostruito il nostro Paese, con la fatica del loro lavoro, con l’emigrazione di dimensioni bibliche dal sud al nord, con il fervore democratico di molti, con le lotte, con i duri sacrifici di quel periodo della nostra storia. E molti con l’eredità preziosa della loro partecipazione alla resistenza contro il nazifascismo. Una partecipazione che rappresenta il fatto storico inequivocabile del prima e del dopo della storia del nostro Paese e del significato che la Costituzione repubblicana attribuisce a quel dopo.

Poi Covid-19 è esploso e ha invaso il dibattito pubblico in maniera crescente e ossessiva, tutti i giorni, a tutte le ore, cancellando il resto delle vicende umane nel mondo – le guerre che non sono finite, i disastri ambientali sempre più incontrollabili, i naufraghi che continuano a morire nel Mediterraneo – e costruendo un’ unica dimensione mediatica intorno a noi, totale e totalizzante, tutta nelle mani di virologi, epidemiologi, esperti del settore, interrogati a tutte le ore sempre sulle stesse cose: i sintomi, le precauzioni, le mascherine, la ricerca del vaccino. Una produzione discorsiva mediatica che ruota tutta in continuazione sul coronavirus, l’inciampo improvviso che si è presentato sulla scena mondiale e ha cambiato radicalmente il gioco della politica, travolgendo le nostre vite e ogni spazio e, angolo della dimensione sociale, del dibattito politico, della quotidianità delle nostre vite consegnate improvvisamente alla quarantena. E ci siamo trovati col dover fare i conti con un sistema sanitario che ha subito tagli di ogni tipo in tutte le regioni, senza solidi piani di ricerca, senza competenze infettivologhe e epidemiologiche, con strutture ospedaliere spesso deboli in certe aree del paese.

Covid-19 si è insediato tra noi come il soggetto imprevisto degli anni venti di questo secolo, quello che nessuno si aspettava e che ha già cambiato le coordinate esistenziali delle nostre vite. il nostro modo di essere e di vivere.

L’imprevisto, nella vicenda storica, è il dato di realtà che irrompe improvviso e inaspettato, sovente dotato di una forza che scombina gli assetti delle vite, delle abitudini, dei poteri, ridisegnando le coordinate fondamentali della vita sociale, dell’ordine politico, degli orizzonti culturali. Spesso succede che acceleri dinamiche in atto, moltiplicandone gli effetti, i lati oscuri, gli effetti morbosi – per dirla con Gramsci – dell’epoca presa d’assalto, irrompendo, per quel che riguarda il nostro oggi, nel mezzo di un processo già in atto da tempo, catalizzandone dinamiche ed effetti. Il mondo globale e globalizzato all’improvviso sembra perdere colpi e tutto si è fermato. L’impetuoso traffico aereo di pochi mesi fa si è interrotto e le frontiere tornano a essere frontiere.

Così, all’improvviso abbiamo capito che non siamo più noi a decidere delle nostre vite. Per noi decide Covid-19, gocciolina omicida che viene dalle filiere avvelenate che abbiamo prodotto nei nostri rapporti con ogni angolo della Terra, impossessandoci da padroni del pianeta, destrutturandone equilibri, dinamiche, rapporti tra le creature che l’abitano, in un’avventura di conquista che non accenna a finire e avvelena i pozzi della vita in tutto l’universo mondo. Il virus ha sbaragliato anche il razzismo costruito sul “noi” e il “voi”. Il contagio può avvenire infatti ormai ovunque, avendo come alleata la stessa società che siamo noi. La società del tutto possibile, del tutto raggiungibile e realizzabile, tutto nelle nostre mani, e sono queste caratteristiche che aiutano il coronavirus a diffondersi. Per contrastarlo, non a caso, dobbiamo cambiare tutti quei paradigmi, rovesciandoli nel loro contrario. E non siamo più quelli di prima.

È forse per questo, per dare vita a un nemico concreto, aggredibile, rovesciabile, che la cornice interpretativa preferita con cui in ogni occasione viene rappresentato il nostro rapporto con il Covid-19 è quella della guerra a cui ricorrono commentatori, analisti, chiunque ne parli. Tutti hanno cominciato e continuano a parlarne come se effettivamente fosse scoppiata una guerra, il che non spiega nulla del Covid-19, ma spiega molto del modo in cui l’umanità si è costruita il proprio destino, di cui le guerre sono state non solo parte costitutiva della prassi, ma un potente meccanismo istituente del pensiero politico e della costruzione degli apparati del simbolico.

Viviamo così il tempo delle paure e degli smarrimenti, il tempo di un trauma esistenziale che disorienta, perché la precarietà della vita si mostra in tutta la sua evidenza e ci si sente esposti, vulnerabili, indifesi, assediati dall’ansia crescente di capire se e quando tutto questo potrà avere fine, e la vita di allora potrà essere di nuovo vissuta. “La vita di allora” perché il coronavirus dilata il tempo e sembra volerci consegnare a un altro tempo, di cui abbiamo, anche se non vogliamo pensarci, la percezione; un vuoto del tempo in cui siamo precipitati. Perché il tempo di allora forse non ci sarà più – di questo si ha sempre più chiara la percezione – e l’incertezza su che cosa ci aspetta delinea le incerte coordinate delle paure del tempo che viviamo. Che coinvolgono il nostro Paese e l’Europa, con i deficit, gli egoismi, i drammi, le speranze suscitate e sempre disattese, che hanno accompagnato il nostro cammino verso l’illusoria meta dell’Europa unita.

Mentre Covid-19 si diffondeva ovunque, dopo più di 200 giorni a bordo della Stazione spaziale internazionale (Iss), gli astronauti della Nasa Jessica Meir ed Andrew Morgan e il russo Oleg Skripochka sono tornati sulla Terra, atterrando sulle steppe del Kazakistan. Hanno trovato un mondo che non era più quello che avevano lasciato, quando non esisteva ancora il linguaggio della distanza sociale e liberamente si potevano stringere mani e abbracciare persone care, amici, amiche e tutto era ancora a disposizione, soprattutto la libertà del tempo. Sono tornati in un mondo stravolto dalla pandemia, un rientro davvero “surreale”, come loro stessi lo hanno definito. Surreale e ho pensato che forse, da uno di quei viaggi alla conquista dell’universo, gli astronauti di domani torneranno con un coronavirus del tutto sconosciuto perché di altri mondi e così potente da far soccombere ogni sforzo umano di contrastarlo e vincerlo.

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Un commento a “Al tempo del coronavirus”

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