Interventi

Foto di Michael Gaida da Pixabay

di Manuela Fraire

Pensieri sparsi.

È particolarmente penoso sentirsi nella parte dell’untore, di chi cioè può contagiare prima ancora di essere contagiato.

A pensarci bene sono proprio una cittadina del primo mondo infatti ad essere contagiosi fino ad ora sono stati gli alti mondi, più poveri, meno attrezzati, più sporchi. A loro Ebola e a me una pelosa attenzione alla loro sorte.

Poi il miliardario Bill Gates avvisa nel 2015 che non siamo pronti – noi dei primi mondi – per una probabile epidemia da virus. Il video in cui dice questo l’ho visto pochi giorni fa ad epidemia attiva.

Perché mi è sembrato incredibile?

Poiché il mio lavoro di psicoanalista mi mette a contatto con molteplici modi di affrontare questa emergenza scopro che:

– per tutti c’è la paura di essere contagiati.

– per nessuno, finora, una autentica paura di essere contagiosi.

– per alcuni la scoperta di un tempo in più per se stessi fedeli alle parole del Papa e di altri pensatori autorevoli. Ne usciremo migliorati come esseri umani!

– per altri sarà una catastrofe che farà nuovi morti tra i sopravvissuti, di povertà questa volta. Le malattie attecchiscono meglio tra i frustrati (Il Sole 24 Ore).

– per altri infine, mai ammessa ma percepibile, una nuova forma di godimento perverso: in quanto pericoloso non posso essere ignorato. Una soddisfazione da homeless che dice molto del bisogno che in qualsiasi circostanza abbiamo dell’Altro.

Anche l’isolamento è una forma di riconoscimento di esistenza anche se in negativo.

Non posso essere ignorato. né posso essere raggiunto; in altri termini esisto in quanto pericolo che l’altro non può né deve dimenticare. Abito sicuramente nei pensieri dell’altro.

Come difendersi da questa deriva egoista che rende così insopportabile l’io-sto-a-casa ancora di più a chi può essere dimenticato in quanto non “connesso” con l’esterno, vuoi per mancanza di tecnica telematica, vuoi perché ha smarrito già prima dell’epidemia il senso della propria esistenza .

Beato chi può lavorare da casa e così sentirsi utile”. Chi è improduttivo è già morto.

Dobbiamo dare ragione del tutto a Cacciari quando dice: “La gente che sta a casa in queste situazioni non avrà tempo per grandi meditazioni… È solo preoccupata, ansiosa impaziente di tornare a vivere normalmente come prima”.

Ovvio, né può essere altrimenti, e certo, non è una nuova fratellanza la risposta a questa emergenza ma…

Vogliamo mettere in conto che in questo frangente c’è una sorta di nuova “democrazia”- siamo tutti sulla stessa barca anche Zingaretti o Alberto di Monaco – illusoria perché legata solo alla contingenza? A pericolo passato, torneranno nell’invisibilità molti scampati al virus ma non alla mancanza di senso delle proprie vite.

Paradosso dei paradossi un attaccamento alla nuda vita come se mai fosse sufficiente a qualcosa di più della sopravvivenza.

Ancora una volta il partire da sé, offre la possibilità di riconoscere che l’Altro è innanzitutto indispensabile per ottenere il riconoscimento che ci tiene in vita. Ma l’altro-di-sé e non solo l’altro-da-sé.

Solo in quanto carnefici oltre che vittime, contagiosi oltre che contagiati, potremo salvare una relazione che lascia posto alla scomoda quanto necessaria singolarità di ognuno.

Certo, se la singolarità viene scambiata con la possibilità – in questo momento obbligo – di evitare l’altro, il futuro di questa esperienza collettiva si scioglierà come “lacrime nella pioggia”.

Quando Butler scrive che nella nostra civiltà si è perso il diritto al lutto vuole forse dire che il vero lutto lo si celebra quando le luci sul palcoscenico sociale vengono spente?

Quando il ritorno ad una nuova anormalità verrà da ognuno di noi considerata una ritrovata normalità.

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Un commento a ““Come lacrime nella pioggia””

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