Interventi

Articolo uscito su “Studi sulla questione criminale” il 21.03.2020

Ci sono già stati due decreti della presidenza del Consiglio per “governare” (si fa per dire) l’emergenza coronavirus in carcere. Di mezzo, una rivolta sanguinosa che ha fatto tredici morti fra i detenuti. Il ministro della Giustizia ha dichiarato in Parlamento che “quasi tutti sono morti per assunzione di farmaci”. Di quali farmaci siano rimasti vittime, in che modo gli intossicati siano stati soccorsi in quella situazione, perché siano morti i pochi che non hanno assunto i farmaci, sono questioni che il ministro non ha affrontato senza peraltro rimandare a ulteriori indagini. Possiamo accettare che la consueta nebbia (di indifferenza e di disattenzione) che avvolge il carcere si faccia oggi più spessa, complice l’emergenza, fino a rinunciare alla verità su quelle morti? Non si può, e infatti molti cittadini e cittadine si sono mossi firmando l’appello per un Comitato di Verità e Giustizia.

È dovere civile non dimenticare i morti, lo è altrettanto preoccuparsi dei vivi che rimangono dietro le sbarre. Con questo spirito, cerco di esaminare le misure governative alla luce di principi etici generalmente riconosciuti nell’affrontare la questione carcere e opportunamente riassunti nel parere del Comitato Nazionale di Bioetica del 2013 (La salute dentro le mura): ai carcerati va riconosciuto il diritto a essere tutelati nella salute psicofisica alla pari degli altri cittadini; avendo chiaro che questo diritto “entra in contraddizione con la condizione stessa di privazione della libertà”. Da qui il forte richiamo alla “responsabilità etica nei confronti dei detenuti, in quanto gruppo ad alta vulnerabilità bio-psico-sociale”.

Questa attenzione specifica va tenuta presente, guardando alla cornice generale di legittimità delle misure eccezionali, che in questi giorni vengono adottate dai governi. Come nota il Nuffield Council on Bioethics, i provvedimenti che in nome della salute pubblica comportino limitazioni o sospensione della libertà personale e dei diritti devono rispettare criteri di proporzionalità, in rapporto all’efficacia prevista; e all’onere che queste comportano sulla vita delle persone, specie le più deboli e vulnerabili. Detto in termini semplici: sospendere i diritti individuali non è cosa da prendere alla leggera, può essere decisa in nome della salute pubblica a fronte di aspettative di risultati significativi e valutando con attenzione il peso di tale sospensione sulla quotidianità delle persone. E questa valutazione deve tenere conto delle differenze, in primis delle disparità, economiche e sociali fra le persone. Tanto per fare un esempio: può essere ammissibile confinare le persone a casa, a patto che nel contempo ci si preoccupi di offrire un riparo il più possibile sicuro a chi la casa non ce l’ha.

Nella valutazione delle misure eccezionali da prendere, va inclusa l’aspettativa circa il livello di aderenza delle persone alle nuove regole. Come dire: trattandosi di sospensione di diritti e libertà che scandiscono l’ordinarietà della vita quotidiana, l’onere del rispetto delle nuove regole non può essere tutto sulle spalle del cittadino obbediente, ma anche del decisore politico che deve con sapienza bilanciare fra i due beni, l’individuo e i suoi diritti da una parte, la salute pubblica dall’altro. Di nuovo, tenendo conto delle differenze e delle disparità: se il livello di sopportabilità delle misure varia a seconda delle persone e dei gruppi, anche la compliance seguirà di conseguenza, a differenti livelli.

Sulla base di questa cornice generale, possiamo valutare le prime misure governative sul carcere (soppressione dei permessi e della semilibertà, soppressione dei colloqui). Cominciamo dall’onere sulla vita dei detenuti e delle detenute. Non c’è dubbio che queste misure incidono in profondità sulla loro condizione, in misura più rilevante di quelle, assai pesanti, che riguardano i cittadini “fuori”. La reclusione domestica dei cittadini “fuori” non è assoluta, ed è comunque mitigata dai contatti telematici, alla portata di quasi-tutti. La sospensione di colloqui e permessi preclude al detenuto le poche possibilità di contatto con l’esterno. In più, per chi vive una condizione di ordinario e assoluto “non controllo” della quotidianità, tale sospensione si inserisce – aggravandola – in questa ordinarietà di incertezza totale circa il proprio orizzonte di vita: a differenza del cittadino “fuori”, che, pur costretto in casa, ha tuttavia coscienza della straordinarietà della sua condizione attuale, contribuendo ad alleviarla.

È questo un aspetto della particolare “vulnerabilità” psicosociale del detenuto e della detenuta, già citata dal parere del CNB. Non sembra che se ne sia tenuto conto nel predisporre le misure. Non solo non si è fatta opera di informazione capillare per spiegare la ratio degli interventi; si è rimandato ad un tempo successivo (il secondo decreto della Presidenza del Consiglio) la previsione di adeguamento telematico degli istituti e di incremento della detenzione domiciliare, che avrebbe potuto alleggerire l’impatto delle prime misure. In altri termini, si è proceduto ripercorrendo la via della “ordinaria incertezza” del carcere. Tanto per fare alcuni esempi: la detenzione domiciliare è subordinata all’uso dei braccialetti elettronici. Che però mancano, sebbene le procedure per attivarli siano partite anni fa. Ancora: ho notizia che nel penitenziario di Sollicciano il collegamento via Skype funziona parzialmente per gli uomini, mentre per le donne non funziona affatto. Come si vede, l’ordinaria incertezza si snoda attraverso le ordinarie gerarchie di priorità. C’è da supporre che in molti altri istituti la situazione sia la stessa.

Se poca attenzione è stata concessa all’impatto delle nuove regole sulla vita dei detenuti, tanto meno si è considerato come queste sarebbero state accolte. Ancora meno si è pensato che questa delicata valutazione fosse in carico all’istituzione: e infatti il biasimo si è totalmente riversato sui detenuti che si sono ribellati, senza una parola sulla natura improvvida delle misure, o quanto meno sulle modalità discutibili con cui sono state messe in campo. Biasimo che si è tradotto in punizioni esemplari, compresa l’esclusione dalla detenzione domiciliare. Il che è tanto più grave perché la detenzione domiciliare è in questo caso direttamente collegata alla tutela della salute. Trattarla come un privilegio per meritevoli può configurarsi come un vulnus alla parità nell’accesso alla tutela della salute, fra chi sta “dentro” e chi sta “fuori”.

Governare l’emergenza coronavirus non è facile, tanto meno lo è in carcere. Tuttavia, aggrapparsi ai “ganci etici” di cui si è detto permette di intravedere il sentiero.

Per prima cosa: il coronavirus è emergenza sanitaria, dunque la prima parola è al Servizio Sanitario Nazionale. Il governo non perde occasione per ricordare che le decisioni prese hanno alle spalle i suggerimenti della scienza epidemiologica. Ebbene, si è pensato a un comitato ad hoc di esperti sanitari, in grado di approfondire la particolare situazione del carcere, per tutelare detenuti e operatori?

Le domande da porre sono tante. Quali possono essere le misure di screening più opportune in un luogo chiuso come quello? Qual è il piano per fronteggiare le ahimè probabili emergenze cliniche? Come attuare le misure di prevenzione basilari prescritte a chi sta “fuori”, ossia la “distanza di sicurezza”, il “non assembramento”, le precauzioni di igiene personale?

In presenza di uno sforzo serio per tutelare diritti e salute, l’adesione ai doveri sarà più convinta perché anche i detenuti si sentiranno parte della “comunità Italia”, di cui tanto si parla. All’assunzione di responsabilità collettiva, farà seguito una più convinta risposta di responsabilità individuale. Altrimenti, vinceranno l’incomprensione e il risentimento.

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