Umberto_Allegretti1. Premesse: una dialettica storica complessa

Il titolo, con la sua congiunzione copulativa al posto di un’ipotizzabile disgiuntiva, suggerisce la presenza nel momento originario della democrazia italiana di una mescolanza tra discontinuità e continuità rispetto alla precedente storia del paese: una mescolanza di cui son tutti da vedere il dosaggio e i significati, ma che va, a parere di chi scrive, sottoscritta. Tuttavia per questo discorso sarebbe necessario un ambientamento entro premesse complesse, che qui possono essere solo evocate.

Un dosaggio tra elementi di continuità ed elementi di discontinuità è in genere presente in tutti i grandi svolgimenti storici – e non c’è dubbio che la serie di eventi che hanno luogo in Italia con la caduta del fascismo, la Resistenza e l’Assemblea costituente diano vita a una grande entusiasmante sequenza storica. Le rivoluzioni stesse – che col loro nome, oltreché con gli eventi che danno loro corpo, evocano subito l’idea di innovazione radicale e perciò di discontinuità, e che a partire dal sei-settecento hanno segnato la storia dell’Occidente, e non solo di questo, lungo tutta l’epoca contemporanea e in particolare nel novecento – a un’osservazione attenta manifestano, al di sotto degli innegabili coefficienti di rottura, continuità più o meno intense e più o meno profonde col passato. Lo sappiamo fin dalle penetranti indagini di Tocqueville su “L’Ancien régime et la Révolution”, e questa verità, qualche volta dimenticata, è normalmente riconosciuta e condivisibile. Inversamente, poiché la storia umana è sempre mobile, elementi di innovazione, magari lenti e anche criptici, si insinuano anche dentro i periodi caratterizzati dai massimi possibili di stabilità e di mantenimento dell’esistente.

Di tutto questo occorre giudicare – anche quando, come qui, si abbiano essenzialmente di mira i processi in tema di modificazioni giuridiche – sulla ba-se di fattori complessi nei quali trovano le loro radici e il loro motore. Ele-menti di carattere sociale, culturale, politico ed economico spingono l’evoluzione di un paese in campo giuridico e si collocano rispetto al suo passato in una dialettica parimenti complessa, che può essere diversa secondo i vari fattori. Non si deve troppo distinguere e comunque nulla separare tra il piano delle decisioni istituzionali e normative, versante specifico dell’analisi giuridica, e le condizioni sostanziali che gli sottostanno e lo motivano, pur suben-done a loro volta l’influenza.

Tra questi fattori – senza svalutare l’incidenza delle forze materiali, in senso sia politico che economico – un accento importante batte sull’elemento culturale, sulla filosofia politica e giuridica, e più complessivamente sulla filosofia generale, che sottende la vita di un’epoca e d’un paese e ne incanala le energie. Nei momenti creativi, questo groviglio di fattori è tanto più decisivo e, per prenderne le misure in quanto attiene all’esperienza fondativa della Repubblica italiana, bisogna familiarizzarsi con l’intera storia di quei momenti cruciali e cercare di cogliere, in particolare, il principio unificante che, sia pur fra contraddizioni inevitabilmente presenti, imprime la sua energia all’intero ordine e istituisce il «vettore» che orienterà la storia futura del paese. Tra questi elementi di natura culturale certamente il più vicino al contesto giuridico ma tale da collegarlo a quello filosofico e politico è il complesso di teo-rie e di pratiche che chiamiamo costituzionalismo e che va al di là dei termini formali della costituzione in sé e per sé considerata.

Non va poi trascurato il fatto che gli stessi fattori economici e politici possono assumere, quando si toccano problemi fondamentali, rilevanza materialmente costituzionale. Non si può negare che, sia quando le costituzioni sono «brevi», sia anche quando sono «lunghe» (come la nostra), il quadro sostanzialmente costituzionale, il contesto cioè costitutivo che segna la fisio-nomia essenziale di un ordinamento, non si limita ai testi formalmente costituzionali, ma comprende decisioni legislative, patti e condotte internazionali, orientamenti che maturano attraverso l’interpretazione giudiziaria e perfino condotte amministrative.

Sotto altro aspetto, i parametri di un giudizio sull’intreccio di novità e di persistenze possono dar luogo a valutazioni diversificate secondo che si faccia riferimento ai precedenti immediati o a fasi più remote. Nel caso italiano contemporaneo, il confronto con il fascismo soltanto – nei riguardi del quale l’instaurazione della democrazia e la costruzione dell’ordine costituzionale repubblicano si sono consapevolmente posti con intenti del massimo distacco – trasmetterebbe il senso di un cambiamento quasi assoluto (anche se come si sa a un’indagine articolata e penetrante le cose sono più complicate). Ma esso non basta a cogliere la dialettica storica profonda, e occorre invece tener conto del rapporto che la democrazia intrattiene con la fase dello stato liberale.

Si potrebbe dire di più: il giudizio, in questo caso ma forse in tutti, non può prescindere, anche se ci si vuol limitare all’apprezzamento della fase instaurativa del nuovo ordine di cose, dal gettar lo sguardo su quel che segue. Può essere infatti necessario anche questo elemento – e dunque, per la Repubblica italiana, una visione sintetica della sua complessiva vicenda fino a noi – per valutare appieno il potenziale innovativo e quello conservatore propri del periodo costituente, che dal seguito degli eventi possono essere meglio rivelati nella loro rispettiva portata. Pur senza dimenticare che, benché molto di ciò che si fa a ogni passo sia dovuto alle matrici profonde e quindi in parte notevole al momento genetico di un nuovo corso, ogni generazione ha le sue responsabilità, e le insufficienze delle nuove non possono imputarsi del tutto ai padri e al loro lascito.

Come nel tempo, così il giudizio deve essere calibrato nello spazio. L’Italia fa infatti parte di un’area più vasta, non solo ovviamente in senso geopolitico ma anche e proprio come contesto di ideologie, di forme culturali e socio-economiche e di forme giuridiche, e quindi è anche col costituzionalismo europeo ed euro-americano – ed esso ancora con le sue manifestazioni nel tempo – che bisogna fare i conti per capire gli sviluppi italiani e per cogliere alcuni degli elementi a cui parametrare la ricerca su continuità e discontinuità della fase repubblicana.

Insomma, tutti questi piani del discorso risultano intrecciati e di tutti dovrebbe essere tenuto conto, nei limiti del possibile, per una valutazione non superficiale dell’innovazione italiana apertasi negli anni 1943-48; con il che, naturalmente, i problemi che si propongono non sono risolti, ma solo inquadrati genericamente.

2. La prevalente discontinuità della Carta e gli elementi di continuità

Se con questi criteri si affronta il problema della continuità-discontinuità della Carta costituzionale – sia nella sua elaborazione che nei risultati in essa consolidatisi – la impressione prima e più generale è quella della prevalenza di una serie di importanti discontinuità.

Esse iniziano con le forme e i modi della generazione stessa della costituzione. L’essere stata questa affidata a un’Assemblea costituente, eletta a suffragio universale dagli uomini e dalle donne che compongono il popolo italiano (e l’esservi incluso per la prima volta il genere femminile non è poca novità) interrompe una storica diffidenza dell’Italia liberale e la decisione negativa assunta all’indomani dell’unificazione. L’avere l’Assemblea discusso con grande articolazione collegiale, lungamente e appassionatamente la carta da emanare, dando spazio a tutte le tendenze e convergendo a grande maggioranza, tra partiti e tendenze diversissime che seppero resistere alla tentazione fortissima della divisione indotta dallo sviluppo degli avvenimenti politici nazionali e internazionali, su un testo largamente rappresentativo delle idee emergenti nel paese, segna anch’esso una novità di rilievo enorme in una società nazionale erede di una storia di divisioni e contrapposizioni profonde e che aveva conosciuto nel periodo più recente l’imposizione brutale di un gruppo dirigente e una frattura drammatica del paese.

La precisione lungamente cercata dei dettati, che per solito non trascura l’articolazione degli istituti e delle discipline, abbandona l’idea, che era stata propria dello Statuto, di una costituzione concisa che meglio potesse essere elasticamente conformata dalla prassi. La «lunghezza» della Carta in contrasto con la brevità dello Statuto, la sua estensione a materie non tradizionalmente costituzionali, che come noto non è un mero dato dimensionale ma una scelta circa la capacità della costituzione di aggredire i fondamenti della vita nazionale e non solo la superficie politica delle cose, è segno dell’attitudine a confrontarsi con le questioni attorno alle quali una società si organizza nel profondo e a indicare in prospettiva il superamento dei problemi sollevati dalle differenze e, ancora una volta dalle divisioni, che la agitano. La superiorità concepita per la costituzione rispetto alle leggi che compongono il tessuto normale dell’ordinamento e la rigidità che ne consegue e che si traduce nei particolari requisiti imposti alla revisione e nella presenza – pur a lungo contraddetta in seno all’Assemblea ma infine adottata – di un giudice ad hoc chiamato a presidiarla, rappresenta anch’essa una rottura concettuale e pratica rispetto a una flessibilità, quella dello Statuto, che era tanto più radicata in quanto acquisita dalla convinzione ferma della classe dirigente contro quella che poteva essere l’intenzione delle origini. Se ci volgiamo ai contenuti, la conferma della capacità di innovazione della carta è fortissima.

L’enunciazione di alcuni principi generalissimi, e concepiti come fondamentali, posti in capo a tutto il testo, conformati con linguaggio particolarmente solenne e circondati di espressioni che ne sottolineano la intangibilità, e al tempo stesso espressi in un linguaggio normale anziché con il lessico esoterico proprio dello specialismo dei giuristi, rompe con l’assenza di charme dello Statuto ed esalta, senza sconfinare nella retorica, la capacità dell’eloquio di imprimersi nella mente e nella sensibilità dei cittadini oltre che del corpo politico. Questi principi, come risultano dal seguito dei vari articoli, coinvolgono potenzialmente tutte le componenti della vita del paese: fissano le basi della sovranità dello stato, dello statuto della persona e di quel-lo delle collettività, investono la difesa del sussistente e individuano gli orizzonti dello sviluppo voluto, si volgono alla vita materiale e apprezzano la dimensione dello spirito, spezzano l’uniformità artificiale del territorio e della comunità italiana riconoscendone la diversità e al tempo stesso l’unità, ne scandiscono attraverso i rapporti con le religioni l’apertura possibile a concezioni ultramondane, individuano nel suo rapporto con il valore dei luoghi, nell’impronta della sua storia e nella proiezione verso un arricchente futuro il tempo e lo spazio in cui vive il popolo Italia, ne curano la relazione con gli altri popoli e il rapporto con l’ordinamento di tutta la società internazionale – questa è una delle aperture più nuove rispetto al solipsismo di concezioni esclusiviste della realtà statale, sia per il suo esser presa in considerazione, nei contenuti di pace e giustizia che si vogliono assicurare e nell’apertura al superamento della rigidezza della sovranità nazionale –, fissano i simboli tradizionali dell’identità del paese, sia pure limitatamente alla bandiera.

La meticolosa elencazione delle libertà e dei diritti più classici e la concretezza nell’indicarne le forme di tutela fa a pugni con la genericità propria della costituzione e con le leggi dell’Italia liberale. L’inclusione a fianco delle libertà dei diritti sociali più avanzati innalza lo statuto della persona al di là dei contenuti formali per incorporare le esigenze materiali e spirituali dell’uomo e, volendo riflettere una famosa espressione marxiana, rimetterlo con i piedi sulla terra. Così l’economia, non più separata e resa apparentemente estranea alla politica, viene affrontata in tutti i suoi maggiori risvolti da una costituzione evidentemente convinta dello stretto legame e dei condizionamenti che essa svolge verso lo status delle persone e delle istituzioni, ponendo le basi per la regolazione sociale della proprietà e dell’impresa, del lavoro e della finanza, e ciò perfino in alcuni dei settori in cui si ramificano, dai servizi pubblici all’energia, dall’agricoltura al risparmio e al credito, dall’abitazione alle forme di cooperazione. Vengono rese costituzionalmente rilevanti, con indicazioni sufficientemente univoche anche se consapevoli degli opposti che contengono, le esperienze più varie della vita, che erano prima abbandonate alla variabilità delle scelte legislative, dalla famiglia alla vita produttiva, dalla scuola e la cultura al bisogno di cura e di aiuto nelle condizioni di invalidità, dal retaggio storico nazionale e l’ambiente territoriale dei luoghi di vita alla religione, dalla partecipazione alla difesa della patria alla solidarietà espressa nei doveri tributari.

L’organizzazione delle istituzioni è vista nel suo quadro completo. Non c’è l’egemonia delle istituzioni alte: esse – dal parlamento al capo dello stato al governo – sono regolate con tutta l’articolazione necessaria nell’organizzazione e nelle funzioni; ma vi si accompagna il rilievo analitico dato al potere giudiziario, ad alcuni aspetti dell’amministrazione pubblica, ai poteri territoriali (nel cui contesto si introduce con la regione una delle istituzioni più e-nergicamente scartate dal percorso precedente dell’Italia) e alle funzioni late-rali come la consulenza e il controllo, fino alle istituzioni della revisione e della tutela costituzionale. Non manca il rilievo dato ad alcune delle più deli-cate e influenti formazioni sociali: i partiti e i sindacati. Tuttavia, e principalmente sul terreno organizzativo, la continuità non manca di insinuarsi.

Il più vistoso tasso di continuità è presente in particolare in quell’insieme che costituisce il ganglio delicato e il motore di tutta l’organizzazione, cioè nella forma di governo. La continuità non sta solo nella forma generale prescelta, nel governo parlamentare, ma in molte modalità e in tutto ciò che vi soggiace e che quindi ipoteca il suo funzionamento in senso subalterno alla tradizione politica.

Da un lato, non c’è dubbio che la novità di elementi quali la forma repubblicana del vertice statale e l’elettività di entrambe le camere, e gli elementi di razionalizzazione inseriti, pur moderatamente, nelle loro relazioni si riflettono sul gioco del rapporto governo-parlamento in maniera innovativa. Tramonta l’invadenza di presenza e di ruolo che il capo dello stato monarchico non perse mai del tutto specialmente sulla politica estera e in settori a questa connessi, e che anzi ritrovò nei momenti delicati dell’involuzione novecentesca, anche se non si può escludere che quell’esempio in certe circostanze della Repubblica – per esempio nei momenti meno felici della presidenza Gronchi e nella perturbante azione di Cossiga – abbia pesato su alcuni esperimenti, che però non sono diventati paradigmatici. Non manca peraltro la possibilità di ingerenza presidenziale sulla scelta del governo, legandosi all’elasticità, che permane alta in questo caso, delle formule costituzionali, soprattutto favorita da complicate circostanze politiche. Sparito il senato regio, vien meno il peso diretto sulla politica delle classi dirigenti più tradizionali; tuttavia la paura del federalismo – esplicita nella Costituente – impedì di creare una camera rappresentativa delle regioni (un tasso di continuità pur nella diversità con la situazione statutaria), generando una somiglianza indiretta della strut-tura parlamentare con il precedente bicameralismo espressivo del centralismo.

La «macchia d’olio» del continuismo si spande però oltre la forma di governo. Essa investe direttamente il trattamento costituzionale dell’amministrazione. Né la menzione di questa nella costituzione né il suo pluralismo conseguente alla costituzionalizzazione dei tre livelli di autonomia territoriale bastano a darle autonomia nell’ambito dell’organizzazione statale e a legarla maggiormente alla società. Il principio del governo parlamentare suggerisce l’insistenza sul nesso governo-amministrazione, anche se le funzioni potenzialmente autonome della burocrazia si fanno strada in una norma apparentemente confliggente con l’altra sulla concentrazione della funzione amministrativa sui ministri. Comunque, la dimensione soggettivistica dell’amministrazione e la sua capacità di determinare i caratteri dell’attività amministrati-va sono assorbenti in tutte le previsioni costituzionali riguardanti il settore amministrativo, proiettandosi anche sulle modalità di configurazione di quelle autonomie territoriali, compresa la regionale, che apparirebbero come uno spazio completamente aperto all’innovazione.

Così l’immagine che la Carta trasmette dell’attività amministrativa, malgrado accenni di modificazioni, è assolutamente tradizionale: trionfa la versione autoritaria dell’atto amministrativo, il suo immediato riflesso nell’antiquata figura dell’interesse legittimo, la trascuranza per il procedimento e per la partecipazione all’attività da parte dei soggetti esterni (anche solo dei diret-ti interessati), la ingombrante presenza dei giudici amministrativi accreditati dalla tradizione, di cui non si cura neppure a sufficienza di garantire né l’indipendenza né i modi processuali dell’agire, la consacrazione in un ruolo prevalente del sindacato di legittimità e di quello di generico merito ammini-strativo nell’ordinamento dei controlli.

Tutto ciò finisce con l’ipotecare con una dose di continuità anche quel complessivo ordinamento della magistratura e dell’esercizio della giurisdizione, sul quale in realtà, per quanto attiene al segmento del giudice ordinario, la costituzione è stata attenta a innovare per tutelarne l’indipendenza e l’imparzialità, tanto malmenate lungo la precedente storia italiana, mentre lo stesso trattamento non si estende ai giudici amministrativi e lascia in particolare al consiglio di stato e alla sua doppia funzione un largo spazio per continuare a figurare come uno degli attori riservati ma di cruciale importanza per l’intera macchina dello stato.

Ci sono però anche altri punti dove la continuità si insinua. Uno è la politica internazionale, nella quale la parte organizzativa della costituzione, pur accrescendo i poteri del parlamento, non riesce a far strada a una decisa democratizzazione d’una porzione dell’azione politica a cui pure viene dato il rilievo costituzionale che si è visto. Essa è lasciata in prevalenza nelle mani del governo, anche se, a correggere quella che è spesso, ma non nella stessa misura, la realtà di molti ordinamenti potrebbe intervenire l’applicazione del più generale modello di compartecipazione all’indirizzo politico da parte del par-lamento. Un altro è il rapporto con le religioni, dove alla novità della pari li-bertà delle varie confessioni dà un tono ben diverso il riconoscimento dei Pat-ti lateranensi con la Chiesa cattolica. In questo caso, la continuità è addirittu-ra col fascismo, essendo caduta la proposta fatta dal capo provvisorio dello stato De Nicola, raccolta da Ruini e a cui sembra fossero propensi anche De Gasperi e Scelba, di sancire solo un generico regime concordatario.

3. La concezione nuova e i suoi condizionamenti

Il panorama che si delinea davanti ai nostri occhi è dunque variegato: ispirato in prevalenza all’innovazione, contiene elementi che, dato il loro rilievo, possono attenuare il senso di discontinuità, se non anche col fascismo soprat-tutto col liberalismo, anche se nell’insieme non lo oscurano né men che meno lo rovesciano.Tuttavia il discorso non può essere quantitativo ma deve guardare al signi-ficato più intimo e qualitativo dei problemi. E qui le cose si fanno più difficili ma anche meglio risolutive.

Il momento più intensamente qualitativo che può confermare il giudizio che la Repubblica italiana è una creatura nuova rispetto alla storia precedente del paese sta nello spirito complessivo che la anima. Esso sorregge sia la Costituente che le dirigenze dei partiti dominanti e circola, malgrado limiti significativi, nella società italiana, l’una e gli altri guidati, nella fase decisiva, da una programmatica posizione di antifascismo e dalla volontà di non tornare alla precedente fase liberale.

Le frange monarchiche e criptofasciste presenti nell’Assemblea non hanno distolto questa dalla sua decisione di reagire vigorosamente al regime precedente e di contrapporgli un solido e avanzato impianto democratico legato strettamente al resto della civiltà europea. L’opinione liberale classica, nonostante l’ascendente individuale di alcuni grandi personaggi del prefascismo, ha ben poco influenzato le componenti di altra matrice nella direzione di una restaurazione dell’ordine antico. Bisogna però ricordare che quella misura di influenza della quale le forze e le personalità del vecchio stato liberale erano capaci era stata già esercitata, e con un largo successo, nel periodo transitorio, quando esse, collegandosi al residuo potere d’una casa regnante complessivamente screditata ma ancora appoggiata da una parte della società, soprattutto meridionale, erano riuscite a far passare, col realistico consenso della direzione comunista e con il supporto degli alleati liberatori, il continuismo della legittimità monarchica e, con essa, un’ipoteca delle antiche forze culturali e sociali sui processi di trasformazione dello stato.

In seno all’Assemblea costituente, data la sconfitta dell’ipotesi monarchica al referendum e l’orientamento complessivo del corpo elettorale verso i partiti portatori dell’idea di un nuovo assetto, nei confronti del liberalismo fu generalmente compatta la posizione che conduceva a incorporarne i valori e le tecniche in un complesso differente per impianto e per orizzonti, che si può tradurre senza arbitrio storiografico nel tipo dello stato democratico sociale. Così si rende possibile la volontà di «comune promessa»: il senso più nobile, come si sa, e che si è conservato lessicalmente nelle lingue ibe-riche, del molto citato «compromesso costituzionale» che si realizzò alla Costituente.

Nel periodo transitorio e poi intorno all’Assemblea questo stesso orienta-mento guida i partiti. Certamente, qui le cose si fanno più complesse, soprattutto man mano che il chiarimento degli intenti rispettivi, la precisazione dell’inserimento internazionale del paese e l’asprezza delle situazioni e delle lotte nella società e nell’economia mutano il quadro rispetto alla sensazione di maggiore unitarietà dell’epoca resistenziale e ciellenistica.

Il caso della Democrazia cristiana è particolarmente netto. La divisione del lavoro tra le sue correnti interne e i suoi grandi esponenti – De Gasperi e Dossetti –, l’uno che si riserva il piano del governo e l’altro che guida l’opera costituente, pur nelle interferenze che non sono irrilevanti, consente nel lavoro costituente il mantenimento dell’incontro fondamentale con le sinistre e avvantaggia il momento dell’innovazione. Invece nell’opera di governo si afferma non solo la creazione di un fronte di conflitto aperto tra centro e sinistra destinato a durare a lungo, ma sul piano economico si apre un indirizzo liberista (non a caso impersonato da importanti personaggi del liberalismo come Einaudi e Corbino) in politica internazionale e, finché du-rò, all’interno, che aggrava le asprezze della situazione sociale; nel contempo, in politica internazionale si consolida il trend verso l’alleanza occidentale con influenze sul piano culturale, politico ed economico assolutamente durature.

Ma la situazione non è meno chiara dalla parte del partito comunista, la cui sempre sottolineata doppiezza, con la durezza dell’opposizione nel pae-se a cui fa riscontro il compromesso realizzato nell’opera costituzionale, rappresenta la parte simmetrica della sostanziale doppiezza democristiana rilevabile dalla duplice posizione appena ricordata. All’opposizione nella società non fa riscontro sul piano governativo, finché ne fanno parte, una posizione di fermo traino dell’esecutivo verso riforme più avanzate, esclusa dalla direttiva di «ricostruire innanzi tutto», e dall’accantonamento di una seria epurazione dei quadri statali, amministrativi e giudiziari compromessi col fascismo.

Si conosce la traduzione in termini di processi giuridici dell’evoluzione contraddittoria del paese generata da questa complessa dialettica. Il suo strumento principe è infatti dato da un’altra divisione, ben formalizzata questa, del lavoro tra Costituente e governo, espressa dalla complessiva devoluzione all’esecutivo del potere legislativo ordinario, consentita dalla cosiddetta costituzione provvisoria e osservata quasi sempre in pratica, e dunque dalla sostanziale espropriazione ai danni dell’assemblea elettiva di quella che avrebbe potuto essere la sua normale opera legislativa. Una soluzione, questa, netta-mente divergente da quella che fu la parallela esperienza del paese, la Francia, a noi più vicino e immerso in quel momento in condizioni largamente analoghe.

Qualche volta si nota che lo stesso governo non usò gran che del suo potere, ma l’omissione di innovazione in un contesto in cui essa è largamente necessaria e comunque attesa è già un modo di conformare, in senso conservativo, l’ordinamento; inoltre i risultati raggiunti, anche semplicemente coi normali poteri dell’esecutivo, interni e internazionali, dalla politica governativa nella direzione della liberalizzazione economica e anche, in certa misura, della repressione politica, sono stati consistenti.

In definitiva, quello che si realizza è l’accantonamento o il rinvio a tempi migliori della maggior parte delle riforme legislative in campo economico e sociale e in campo amministrativo adeguate alle idee di stato democratico e sociale. Un fatto che ha un autentico significato costituzionale: non unicamente perché delimita, come si è detto, nelle norme e nella pratica, il ruolo dell’Assemblea costituente, ma precisamente perché determina il senso e il processo concreto della costituzione in virtù dell’interazione tra i vari piani, politico, economico e giuridico e in ragione del significato materialmente co-stituzionale che le riforme o la conservazione sul terreno economico-sociale e su quello dell’amministrazione inevitabilmente possiedono. Hanno posseduto infatti sicuramente un ruolo, in direzione opposta alla nostra, in Francia (come in Gran Bretagna): nel caso francese, la ricca preparazione delle riforme durante la Resistenza e la loro realizzazione subito dopo la Liberazione hanno infatti consentito quello sfruttamento della transizione che è fondamentale per ogni evoluzione. Da noi, aver mancato la transizione ha comportato aver per-so il tempo giusto per l’innovazione e materializzato un rinvio, un’inerzia, che hanno costituito non solo un ritardo temporale ma una regressione quali-tativa e piena di conseguenze per l’innovazione.

Non si può trascurare, dunque, il fatto che tutto il clima extracostituente ha influito sottilmente sulla costituzione e poi condizionato direttamente il suo posteriore destino. Il punto è di meno comune rilevazione, per lo meno da parte della cultura giuridica, troppo fermata dai dati formali, ma andrebbe affrontato in tutta la sua durezza – pur senza rinnegare il valore delle forme giuridiche – ed è inevitabile quando ci si confronta con i problemi costituzionali in sede storica (ma anche in sede di riflessione critica sul presente e di proget-tazione del futuro).

Se ci si pone su questo piano, non si può non interrogarsi sulla filosofia profonda che ha dominato nella fase di instaurazione dell’ordinamento la so-cietà italiana con la sua cultura complessiva, e in seno ad essa, col particolare ruolo orientatore e decisore che in genere hanno, le forze politiche e le altre forze associate che in quel momento facevano capo più che mai ai partiti. Una visione sintetica, fondata su un’esperienza complessiva, che non per la prima volta viene qui accennata e che indagini mirate potrebbero convalidare e pre-cisare, può a questo riguardo condurre a indicare il cuore di quella filosofia e di quella cultura nella sete di ascesa nella ricchezza e nel potere sociale che, all’uscita dal fascismo e dalla guerra, muove i singoli individui più dotati di aspirazioni a crescere di capacità, che sono ormai molto più numerosi delle tradizionali oligarchie. È come se la caduta dei vincoli precedenti si fosse incanalata, magari solo inconsapevolmente ma con intenzionalità profonda e sotto l’imitazione, sicuramente, delle società dei paesi con cui in quella mossa di liberazione si è prescelto di accomunarsi, più di tutto verso una afferma-zione individuale, che non entra in contraddizione, se non nelle fasce sociali più esclusiviste, con la spinta sociale e solidaristica ma che la concepisce co-me un supporto della crescita individuale più che come un fermento di ugua-glianza e di condivisione.

La scarsa consapevolezza che si ebbe, anche alla Costituente, di quello che voleva dire la combinazione, presentata con lucidità nel famoso ordine del giorno Dossetti del 9 settembre 1946 che rappresenta l’occasione più diretta dell’emersione d’una filosofia portante dell’intero ordine costituzionale che si andava a fondare, tra dignità dell’individuo e riconoscimento della sua rela-zionalità e socialità, era il prodotto di una società che andava cercando mete di quel tipo e avrebbe necessariamente comportato – innanzi tutto in seno alla Democrazia cristiana – una congenita ambigua convivenza tra spinte poliva-lenti, che a volta a volta la orientavano, anche sotto l’influenza diretta dei contrapposti gruppi di pressione, a far prevalere la soddisfazione dell’ini-ziativa individualistica o delle spinte collettive.

4. Un vettore decisivo

Tutto ciò, tradotto nel risultato delle prime elezioni parlamentari, non ha potuto non condizionare l’evoluzione postcostituzionale. Pensiamo che tutto il senso pratico contenuto nell’idea che, come ben si sa, si diffuse dopo la promulgazione della Carta e orientò la giurisprudenza giudiziaria e l’applicazione pratica di gran parte dei dispositivi costituzionali, del carattere «programmatico» di un numero enorme, e sicuramente abusivo per molte di esse, di norme costituzionali sia stato facilitato dal senso generale che maturò per influenza di quel clima in merito al rapporto tra la Costituente e la Costituzione e il complessivo quadro politico e sociale.

È una conclusione allo stato delle conoscenze autorizzata dalla riflessione complessiva sugli eventi e sulla cultura costituzionale che contengono che l’opera della Costituente, distinta e quasi separata (come in genere è notato) dal paese, fu vista più che altro come un progetto sul futuro, d’altronde eventuale perché affidato al peso che avrebbero avuto le varie forze e i rapporti tra esse dopo le elezioni parlamentari; correlativamente la costituzione veniva a essere l’espressione di quel progetto e non una norma direttamente operativa.

In fondo, la situazione determinatasi a valle di quelle elezioni (dopo il 18 aprile 1948) e protrattasi a lungo, per la quale la parte immediatamente appli-cata della costruzione costituzionale era quella della forma di governo repub-blicana e parlamentare, con tutto il potenziale tasso di continuità che essa conteneva rispetto all’età liberale, non fu solo frutto del rovesciamento del rapporto tra le forze politiche che il risultato di quelle elezioni ebbe a sancire, né fu così arbitraria come legittimamente appare alla considerazione giuridico-formale. Essa è in qualche modo a sua volta legittimata dalle premesse ideali, di filosofia pratica, che maturarono nella politica e nella società che circondavano la Costituente e che questa non volle o non seppe consapevolmente contrastare. Premesse che affondavano le radici nell’isolamento del lavoro costituente dalle decisioni politiche quotidiane e che trovarono il loro strumento nel primato del governo e delle sue potestà legislative e di indirizzo, corrispondente alla relazione creatasi tra le varie forze e che era garantito dalla costituzione transitoria.

La riprova è data dal fatto che quegli spezzoni di nuovo assetto costituzionale in campo diverso dalla forma di governo che erano già diventati operativi nella transizione o che nel corso di essa avevano maturate la premessa poli-tica non più refutabile di tale operatività – come le quattro autonomie regio-nali speciali, ormai maturate in grado diverso, e peraltro suscettibili di essere molto ristrette nell’attuazione riducendole in parecchie parti esse stesse a e-spressione di norme ad andamento sostanzialmente programmatico – sopravvissero come che sia al cambiamento del quadro elettorale e alla complessiva evoluzione postcostituzionale. Decisivo, dunque, era ciò che era stato conqui-stato nella transizione. Dovrebbe essere di comune nozione, anche se raramente se ne discorre in letteratura, che è nelle transizioni che si decidono le cose. O, per lo meno, è nelle transizioni che si creano i rapporti che orientano le cose, arrivando a farle maturare magari solo più tardi. Nessuna indecifrabi-lità, dunque, del corso degli avvenimenti italiani, anche se nessun determini-smo ma sì il peso di condizionamenti importanti avvalorati dalle libere scelte degli attori più influenti e, forse ancora, da una certa passività della società nazionale: semplicemente, poche realizzazioni concrete nel primo periodo, lasciando così sole a fluttuare su questo panorama la Costituente e la Costituzione.

Ma in pari tempo, come frutto della transizione, la posizione di un’importante premessa – una costituzione nettamente orientata – per sviluppi futuri. Qual è infatti, se si ammette che così stiano le cose, il valore riconoscibile alla Costituente e alla Costituzione nella complessiva storia d’Italia?

È escluso che le riserve che si possono formulare per alcune parti di quest’opera siano tali da ridurne seriamente il valore rispetto a quello che l’opinione sviluppatasi lungo le vicende della Repubblica nel paese, nella sua politica e nella sua cultura, con un apporto pressoché unanime della componente giuridica di quest’ultima, ha normalmente accreditato. Un’opinione divenuta sempre più ricca via via che ci si allontana dall’epoca fondativa e che la costituzione, col favore anche dei mutamenti politici e sociali e delle evoluzioni più significative intervenute a livello internazionale, penetra sempre meglio nella vita concreta d’Italia.

L’entrata in operatività, gradualmente e tra mille difficoltà, ma pur vigorosamente, affermatasi, di parti molteplici e in definitiva, verso gli anni settanta, dell’intera costituzione – con quei margini di debolezza che sempre si hanno nell’attuazione dei grandi programmi di rinnovamento e generando quelle insoddisfazioni che alcuni strati sociali e politici inevitabilmente mantengono vive – ha reso pratico e concreto quel contesto di propositi che sembrarono a tutta prima respinti in un futuro incerto e limitai al cielo degli ideali.

Nella marcia del paese, così faticosa – più faticosa di altri paesi affini – verso mete sociali e politiche più progredite e più condivise, la costituzione e il permanere dello spirito costituente hanno svolto un ruolo che non può esse-re misconosciuto. La costituzione – e con essa l’opera dell’organo che la mise a punto – è stata, come si dimostra, un vettore decisivo per gli sviluppi di cui il paese è stato capace e, malgrado le tante messe in questione poste in essere fin dagli anni ottanta e fino a noi, ha mostrato di saper agire come tale. Nel lungo più che trentennale cammino dominato dalla spinta alla sua «attuazio-ne» la forza orientatrice di questo vettore si è rivelata come uno dei massimi motori di quegli sviluppi. Poi il suo impulso è diminuito senza tuttavia spari-re: non è infatti rimasto dormiente, ma ha continuato seppur meno vistosa-mente ad agire attraverso i numerosi canali predisposti, dagli organi politici centrali alle autonomie, ai giudici, al sindacato della Corte costituzionale, alle forze sempre più articolate della società civile.

Giunta alla prova più forte in questa legislatura, per la forza di trazione so-prattutto di una maggioranza governativa formata da partiti già anticostituzio-nali o acostituzionali capace di concretare un disegno complessivamente ever-sivo quanto meno della coerenza, se non della stessa natura integrale, del-l’ordinamento repubblicano, saprà quel valore resistere e, magari, risvegliare nuovo vigore, anche mediante future modifiche puntuali informate al suo stesso spirito? La risposta è nelle mani del popolo italiano, attraverso le ele-zioni politiche del 2006 e il referendum costituzionale.

Un commento a “Costituente e costituzionalismo: continuità e discontinuità”

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