Umberto_AllegrettiSolo apparentemente meno unitario dei precedenti, questo numero di Democrazia e diritto obbedisce a un filo logico che lega insieme le sue tre parti, dedicate rispettivamente alla situazione costituzionale italiana, al nuovo ordine europeo e allo stato attuale della globalizzazione, tra le quali, nelle nostre intenzioni, quella che ha per oggetto l’ordine interno ha il risalto maggiore.Non vogliamo qui tanto segnalare i vari saggi che figurano nel fascicolo, ma piuttosto mettere in luce il filo che abbiamo inteso seguire. Lo abbiamo espresso con la parola «costituzionalismo» per sottolineare il senso profondo, conoscitivo e normativo, proprio delle istituzioni come secondo noi vanno pensate e vissute, e insieme l’accoppiamento tra novità e continuità che ne caratterizza l’evoluzione in corso, se correttamente concepita e agita.
Oggi sul piano pratico (come tutto l’impegno della nostra rivista ha voluto contribuire a indicare negli ultimi anni) la vita sociale e istituzionale del nostro come degli altri paesi si è spostata dall’originario quadro nazionale, percepito come pressoché esaustivo, a una scala formata da più livelli strettamente interconnessi che vanno dal locale al globale. Simultaneamente, sul piano teorico, occorre rintracciare un principio di sviluppo chiamato a presiedere a questa nuova rete di diritti e di poteri che la unifichi sottraendola al caos in cui può rischiare di precipitare; e questo principio – se è vero che, come ha indicato Carlo Sini in Idoli della conoscenza (Raffaello Cortina, 2000), la conoscenza umana riposa su una «genealogia», quasi legge di evoluzione della vita, che sposa continuità e novità – deve reggere l’attuale processo di dislocazione del quadro comples-sivo, operando una diretta congiunzione di tradizione e mutamento, in rela-zione alle idee e ai principi base che hanno dato valore allo stadio precedente.
Ci pare, allora, non infondato – in una sede di ricerca quale quella di Democrazia e diritto, che investe essenzialmente il piano istituzionale seppure in collegamento multiplo con i problemi antropologici e sociali generali – indi-viduare nel costituzionalismo una parola chiave attraverso la quale è possibile rispondere a quella duplice sfida. Costituzionalismo indica infatti un pensiero e una pratica (dice ancora Sini, ogni pensiero nasce da una « pratica di vita» e alla pratica di vita rimanda) che istituisce, dal punto di vista formale, un ordi-ne complessivo coerente e garantito, retto da norme regolative superiori a cui il mondo delle prescrizioni valide per i singoli campi è chiamato a conformarsi seppur con elasticità, e dal punto di vista sostanziale una garanzia dei diritti e dei doveri dei soggetti umani singoli e collettivi e un pluralismo collaborati-vo dei poteri ordinato alla realizzazione di quei diritti e di quei doveri.
Che quel pensiero e quella pratica storicamente siano germinati e abbiano teso a realizzarsi nell’ordinamento degli stati, non è certo un caso – poiché ivi si ve-rificava la «sovranità» – ma non è, appunto, che una determinazione storica-mente e logicamente giustificata che non appartiene all’essenza del concetto e che non circoscrive per sempre le sue potenzialità. Oggi dunque che – per effetto dei tre complessivi fattori, l’economico e finanziario, il culturale e so-ciale, e il politico e militare, analizzati da questa rivista nel n. 4, 2003 – sono mutate le pratiche di vita ed esse hanno generato l’attuale mondializzazione e in pari tempo identificato un livello intermedio, continentale o subcontinenta-le, come giusta intermediazione tra il nazionale-locale e il globale, la nuova «modernità liquida» (la globalizzazione) alla quale siamo confrontati non può non richiedere un pensiero regolativo che possa togliere i fenomeni al caos a cui inclinano e che corrisponda a quello del costituzionalismo. L’esigenza che si pone è infatti la stessa, di dare alle posizioni dei soggetti e all’esercizio del potere un ordine adeguato alla nuova situazione e alle nuove condizioni che richiede, e nel contempo di mantenere nel quadro di esse quel corredo di pra-tiche che si è conquistato attraverso la modernità.
Questo non significa spostare tutta l’attenzione rispetto al tradizionale livello statale e nazionale, ma anzi riteniamo necessario dare il massimo rilievo appunto a questo livello. Ciò non solo perché – come da parte di molti viene rilevato, in esplicita o implicita polemica con la parola d’ordine troppo sem-plificata e perciò ingannevole di «declino dello stato» (Da parte di chi scrive si vedano l’impianto e le analisi specifiche sul tema contenute nel libro Diritti e stato nella mondializzazione, Troina-Enna, Città aperta 2002) – la scala statale rimane, in Europa come altrove, luogo decisivo di molta parte della mediazione richiesta. E non tanto per il semplice fatto che, essendo lo spazio più vicino, quella scala richiede il massimo del nostro impegno. Quanto perché, più specialmente nella situazione congiunturale italiana, essa manifesta un grado di dissoluzione interna acuto, che in parte deriva dal suo del tutto parziale ridimensionamento, ma che è in pari tempo – nel nostro paese appunto – il prodotto di una storia eccezionale, che ha reso a sua volta eccezionale, rispetto alla pur non felice situazione di altri paesi, l’evoluzione re-cente delle vicende che la coinvolgono.
Agli altri livelli, insomma (nell’ordine internazionale e in quello europeo), lo stato di gravità non minore dei problemi è il naturale frutto di uno stadio di sviluppo ancora acerbo e dunque naturalmente imperfetto e perfettibile, che si può sperare (anche se gli eventi dei tempi recenti purtroppo non lo dimostra-no) venga guidato verso svolgimenti adeguati nel senso del costituzionalismo. Nel quadro nazionale italiano, trionfano invece processi di corruzione del si-stema e si sa che nulla è più pericoloso della corruzione di un corpo già reputato sano. Se infatti si guarda al nostro problema alla luce delle altrui espe-rienze, si può sostenere che in molte di queste, benché la «degenerazione della democrazia» appaia ormai un problema generalizzato e che si manifesta a ogni livello, la scala statale, pur non immune da problemi, per il momento mantenga un decente grado di continuità con le posizioni precedenti.
Certo si potrebbero citare in senso contrario, e gravemente preoccupante, involuzioni in corso, rilevate anche in alcuni degli studi qui pubblicati, che vanno intervenendo, soprattutto sotto la spinta della reazione antiterrorismo e più ancora nel vortice creato dall’ingiustificata avventura irachena, proprio negli ordinamenti nazionali in passato ritenuti i più assestati, come quello statunitense e quello britannico. È comunque sicuro che a livello nazionale italiano tutto è rimesso davvero in questione. Qui il «sistema Berlusconi» – alla cui analisi nella sua fase di affermazione e di crescita avevamo dedicato un intero fascicolo (il n. 1, 2003) – ha introdotto una misura di trasformazione degli assetti sociali e giuridici che attinge in profondità tutti gli strati dell’esperienza collettiva e individuale, di guisa che, se e quando vi sarà una resa dei conti dell’egemonia da esso conquistata, lascerà un insieme demolito nelle sue più interne strutture e difficilissimo da rimettere sulla buona strada. Ed è coerente con la personalità e con le forze che reggono questo sistema e con il loro innervamento nel tessuto del paese che la fase più recente, caratterizzata dall’indebolimento po-litico ed economico dei gruppi dirigenti (ma anche del berlusconismo come clima sociale complessivo?), non solo non mostri segni di miglioramento, ma al contrario veda accentuarsi i pericoli per la tenuta dell’ordinamento costituzionale e civile.
Riteniamo dunque innanzi tutto di dover mettere in campo la difesa del co-stituzionalismo in quanto dottrina «normativa» (qui espressa in un intervento programmatico di Gaetano Azzariti dedicato all’illustrazione dell’indirizzo di una nuova rivista on line cui ci lega una forte intesa e la comunanza di non pochi operatori). In secondo luogo, non possiamo non misurarci concreta-mente con quello che costituisce il simbolo più elevato e l’elemento che, se definitivamente introdotto, darebbe a questo sistema l’impatto più rovinoso, cioè con la riforma costituzionale proposta dal governo (già esaminata più volte in questa sede nei suoi stadi precedenti e seguenti l’approvazione sena-toriale). E poiché quel «premierato assoluto» che in essa viene configurato è il motore più eversivo della riforma, abbiamo ritenuto di dover di nuovo approfondire in questa sede, mentre sono ancora in corso i lavori della camera (che è difficile realmente sperare che non finiscano col darle lo stesso avallo), ap-punto questo elemento.
Attraverso questo disegno e quanto lo contorna nel contesto dello stesso progetto di legge e in altri come quello di riforma dell’ordinamento giudiziario (anch’esso già esaminato nel numero preceden-te), si combatte in Italia una dura battaglia per una modifica degli assetti co-stituzionali che molte voci (inclusa quella di Di Giovine a cui abbiamo chiesto quell’approfondimento), contrariamente a quel che si vorrebbe far credere da parte dei riformatori, inclinano a vedere come non limitata ai meccanismi organizzativi della seconda parte della Carta repubblicana senza influenza sui principi fondamentali e immodificabili di questa, ma tale invece da reagire sul principio democratico e sul pluralismo dei poteri, nonché sui diritti e doveri dei cittadini, inevitabilmente coinvolti da un tessuto di disposizioni che – a partire dall’art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789 – è loro strettamente connesso.
Di Giovine mostra fra l’altro che il disegno di potenziamento estremo della figura del presidente del consiglio-primo ministro, quale configurato in questo testo, è tanto più pericoloso in quanto trova radici ramificate in una tendenza improvvida insediatasi da vari decenni in ampie fasce del mondo politico, non solo di destra, e avallata da una parte della dottrina costituzionalistica (Anche se in questo caso assai meno, come fa fede tra l’altro il volume, ricco di contributi critici di molte decine di giuspubblicisti, curato dall’Astrid, Costituzione una riforma sbagliata. Il parere di sessantatré costituzio-nalisti, Passigli, 2004).
Mentre un decisivo affrontamento su questo punto si consuma nel nostro paese, che ne è dell’ordinamento europeo?
L’evento più importante che tocca direttamente la nostra questione è maturato all’avvio dell’estate in Europa nel contesto di altri avvenimenti non se-condari, quali quello fondamentale dell’allargamento dell’Unione ad altri dieci paesi, la rielezione parlamentare e la designazione di un nuovo presidente di Commissione con il seguito della sua investitura finale e del rinnovo della Commissione. È l’accordo faticosamente raggiunto a Bruxelles, il 18 giugno, sul nuovo trattato, il cui contenuto è denominato Costituzione per l’Europa. Il trattato verrà firmato a Roma a fine ottobre dalla Conferenza intergovernativa sulla base dei testi messi a punto dagli esperti giuridici e linguistici del Consi-glio nelle 21 lingue ufficiali nelle quali verrà sottoscritto.
È evidente che – dopo le numerose varianti introdotte nel progetto: almeno una settantina di gruppi di norme sono state, spesso incisivamente, modificate ad opera della sessione di giugno della Conferenza – quello dei giuristi linguisti reso noto nel mese di agosto (che dà veste definitiva al testo provvisorio approntato dal segretariato della Conferenza dopo il 18 giugno) non è stato un lavoro indiffe-rente per dare allo strumento la sua redazione vincolante. Ma il testo finale non pare allontanarsi dall’impianto generale del progetto uscito dalla Conven-zione e perfezionato dai lavori seguenti presso il Consiglio e la Conferenza, che noi avevamo già commentato, al termine dei lavori della Convenzione, nel numero 2, 2003 della rivista. Vi apporta ciò nondimeno modifiche tutt’al-tro che irrilevanti. Sul nuovo assetto dell’Unione occorrerà dunque tornare; queste poche osservazioni si limitano ad accennare ad una prima lettura alla luce di quanto già considerato in passato e delle innovazioni maturate.
Come avevamo già detto – e come molte altre voci di diverso accento ora confermano – il nuovo trattato è altamente insoddisfacente. Ciò va ribadito malgrado i suoi meriti, che secondo noi dovrebbero spingere a sostenerlo nel laborioso processo di ratifica, in parecchi casi affidato anche a referendum dei singoli paesi dall’esito non proprio scontato. Chi scrive – e anche quest’idea, che quando fu espressa poteva apparire infondata o estremistica, oggi si va fa-cendo strada tra commentatori giornalistici e voci di dottrina – ha sostenuto che esso non è e non deve essere presentato come Costituzione, perché, oltre alla natura del suo processo di elaborazione e di approvazione e alle inade-guatezze di contenuto ampiamente illustrate nel saggio citato, vi si oppone una ragione decisiva, formale e sostanziale insieme. In esso le norme concrete sulle singole e limitate politiche (formanti la parte III) prevalgono sui principi e le norme generali della parte I e II e non danno luogo, anche dopo le modifiche apportate nell’ultima fase ai procedimenti di revisione previsti dalla parte IV, a quella gerarchia o priorità di norme e a quelle differenziazioni o specia-lità di procedimenti di revisione che sono normali nelle costituzioni. Inoltre sulle questioni più decisive la prevalenza d’un sistema di decisione all’unani-mità o della possibilità di paralizzare la maggioranza impedisce il formarsi dell’unità o semplicemente il dispiegarsi della capacità deliberativa.
Tutto ciò non è il frutto di eventi isolati. Un esito così poco brillante non è cioè dovuto alle sole insufficienze strutturali di esso né genericamente alla scarsa volontà degli stati membri, le une e l’altra tuttavia sicure; né solo al peso, pur imponente, che è riuscita svolgere (particolarmente nell’ultima fase delle negoziazioni) la posizione inglese, frutto d’una consolidata tradizione ma essa stessa strettamente legata a fattori più generali coinvolgenti a partire da basi diverse altri stati. Sicuramente, infatti – ed è l’elemento più generale e più preoccupante –, è stato intensamente condizionante il contesto internazionale complessivo in cui questa tappa tanto importante del processo di costruzione dell’Unione si è trovata a svilupparsi, con la violenza della situazione seguita in particolare agli eventi dell’11 settembre e con le tensioni ben maggiori che in passato sono sorte tra Stati Uniti ed Europa. Anche su questo contesto, presente a tutti ma bisognoso di approfondimento, e sulla sua influenza sul processo di costruzione europea bisognerà dunque tornare. E occorrerà riflettere su ciò che questa situazione determina già sull’applicazione dei trattati in vigore e sul modo di svilupparsi dell’allargamento dell’Unione ai nuovi membri. Per ora, è possibile ad esempio notare che la costituzione della nuova Commissione a presidenza Barroso porta le tracce dell’accentuato peso esercitato individualmente dai singoli stati, che non può non indebolire la fisionomia e la condotta dell’Unione come fatto di valore collettivo e sopranazionale.
È dunque dubbio che con questo passaggio – anche quando venga confermato (come, ripetiamo, ci uniamo a molte parti nell’auspicare) nell’ulteriore suo iter – il costituzionalismo del nostro tempo varchi a livello di Europa una soglia ormai attesa. Il costituzionalismo come lo intendiamo non si ferma però neanche alle frontiere delle unioni continentali. Perciò, terza tappa della nostra riflessione, dopo due numeri della rivista dedicati specialmente alla globalizzazione, è ancora questo livello, che costituisce ormai una cornice condizionante tutta la vita sociale e giuridica, che dobbiamo considerare.
Gli scritti che pubblichiamo in questo fascicolo proseguono nell’analisi delle contraddizioni provocate da questa che è la forma attuale della mondializzazione e cercano a tentoni attraverso quali modalità quelle contraddizioni si vanno affrontando. Queste «vie della speranza» sono diverse nei saggi di Denninger e di Ferrare-se da un lato e in quelli di Santos dall’altro.
Denninger, con probabilmente giusta cautela, dice il suo contributo circoscritto all’Europa, ma è da notare che esso investe problemi che si pongono per la società multiculturale in genere, tipica della situazione di globalizzazio-ne. Usando un esplicito riferimento kantiano, l’autore indica nel diritto (sul ruolo del diritto si appunta la visuale non solo di Ferrarese ma anche di San-tos) lo strumento fondamentale per limitare il conflitto, e specialmente le specie più gravi di conflitti. Nel diritto egli celebra acutamente la componente di accordo (il consenso democratico) e quella procedurale: procedura regolata giuridicamente di cui propone i principi regolativi validi per i procedimenti dei diversi tipi.
Ferrarese posa lo sguardo sullo stato-limite del diritto, che è dato dallo stato di eccezione e, di fronte alla constatazione della sua normalizzazione, già da tempo rilevata da Agamben e indotta dagli eventi posteriori al 1989, ora cul-minati nelle imprese afghana e irachena, ritiene che essa sia stata recentissi-mamente contraddetta da molteplici «esami di veridicità» e da vere e proprie «repliche della giurisdizione». Così, in continuità con i suoi lavori precedenti, l’autrice, esplicitamente preoccupata della politica attuale degli Usa, formula, seppur dubitativamente, la speranza che la nazione americana si avvii a fare qualche passo di ritorno alla sua innata vocazione di legalità. È una speranza che tutti vogliamo condividere, ma che sembra ancora in questione di fronte all’atteggiamento «impenitente» (diremmo) dei dirigenti Usa. Un atteggiamento reso evidente da quell’arrogante «comunque abbiamo fatto bene a ro-vesciare Saddam» che abbiamo da loro tante volte sentito (e anche da parte dei britannici) e ribadito nel dissenso espresso dagli Usa in seno al Consiglio di sicurezza nei confronti dell’applicazione della pronuncia della Corte di giustizia delle Nazioni unite sull’illegalità del muro israeliano. In un momento come questo è certo che alcune pronunce giudiziarie (pensiamo anche a quella più tenue della Corte suprema israeliana sulla stessa questione del muro, a quella della Corte americana sulle illegittimità commesse dagli americani sui prigionieri di Guantanamo, che desta nella Ferrarese la maggiore speranza, e, in tutt’altri campi, a certe felici pronunce della Corte costituzionale italiana) manifestano quanto attuale e quanto prezioso possa essere il ruolo garantista dei giudici nei confronti dei poteri costituiti. L’autorità di queste sentenze de-ve essere a buon diritto rivendicata e devono destare scandalo le mancanze di seguito e gli aggiramenti che i poteri di governo tendono spesso a praticare nei loro riguardi.
Ma è altrettanto certo che la portata fatalmente modesta di queste pronunce e la scarsa incidenza effettiva che esse finiscono con l’avere devono far concludere che non si può pensare di affidarsi alla sola forza dei giudici, che si rivela alla fine debolissima se non è spalleggiata da una vivace lotta politica che la valorizzi. Significativo, in un periodico tanto paradigmatico dell’atteggiamento inglese quanto l’Economist del 3-9 luglio 2004, l’auspicio che i dirigenti europei appoggino ormai Bush sulla questione irachena e la previsione che un’eventuale presidenza Kerry non modificherà sostanzialmente la posizione statunitense, neanche – è il colmo – sul Trattato di Kyoto e sulla Corte penale internazionale.
Diversa è infatti la linea seguita da Santos, già esposta nel suo articolo pub-blicato nel n. 1, 2004 di questa rivista e che sostanzialmente sorregge la tesi del rilievo costituzionale del movimento internazionale, prospettata da chi firma queste righe nell’articolo Il Movimento internazionale come attore co-stituzionale, apparso nello stesso numero di Democrazia e diritto. Giustamente Santos ripone quel tanto di fiducia nel diritto che appare comune con le visioni degli autori precedenti nell’uso antiegemonico di esso da parte delle forze di quella che egli chiama «la società civile incivile» o, almeno, di quelle della «società esterna», cioè delle fasce di società che stanno fuori degli strati egemoni.
C’è tuttavia un punto di convergenza tra i primi due autori e il terzo: anche Santos ammette che sia possibile e contribuisca all’opera, anche se non in maniera scontata, un uso antiegemonico degli strumenti giuridici propri dei sistemi ordinamentali egemoni, a cui va aggiunto il ruolo che possono assumere alleanze praticabili tra coloro che portano avanti l’uso antiegemonico e i ceti che usano quegli strumenti in maniera «normale». È lecito vedere qualcosa di simile anche nella possibile convergenza con le lotte sociali delle posizioni da ultimo assunte da alcuni governi del Sud, capitanati dal Brasile di Lula e dall’India, che nelle trattative sulla liberalizzazione dei commerci in seno all’Omc hanno dato vita a un blocco di paesi che sembra riuscire a orientare quelle trattative in un senso più favorevole al Sud.
Vi è, a me pare, nel pensiero di chi valorizza le attività alternative il riconoscimento di una complementarità tra le due vie della speranza rappresentate in questo fascicolo. Ma, per concludere questi commenti, restano diversità di accenti e, anzi, di lettura generale, molteplicemente influenti sulle strategie co-noscitive e operazionali. Diversità che distinguono chi ritiene che ai guasti della globalizzazione si possa far fronte essenzialmente con i mezzi giuridici comuni della legalità e della giurisdizione (per non dire degli strumenti contrattuali, che sono sempre alla mercé delle forze dominanti); e chi invece riconosce come necessario l’uso combattivo della politica attraverso «politiche» alternative. Il che, in buona parte, significa dire che non basta affidarsi alle «forze intra-sistema». Ma che occorre che forze antiegemoniche e, in questo senso, «extra-sistema», operino con la consapevolezza, il vigore e la ricchezza non impari alle sfide che la globalizzazione pone alla tenace ricerca d’un ordine politico, economico e giuridico adeguato a una «società buona». Altrimenti si affermerà il rischio della riemersione dell’assolutezza della sovranità padrona della «nuda vita» (Agamben) e sarà aggravato il carico di guerre, oppressioni e ineguaglianze che oggi la globalizzazione sta confermando.

Un commento a “Costituzione italiana, Europa, globalizzazione”

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