mario_doglianiQuesto numero di Democrazia e diritto, che si apre con due saggi che sviluppano le relazioni tenute all’Assemblea del Crs del 23 giugno 2003 su Lo spettro della democrazia. Rappresentanza e sovranità  nella crisi italiana, ha come tema caratterizzante il rapporto tra democrazia e populismo. Caratterizzante e non «principale», dato che riteniamo tutt’altro che secondarie le due rubriche: Itinerari istituzionali, che dedica la sua attenzione, già  in prima approssimazione, al delicatissimo disegno di legge del governo per la riforma costituzionale, e Ricercacontinua che, proseguendo il discorso dei due fascicoli precedenti, torna sul sistema Berlusconi con l’intervento di Carlo Bernardini sull’importante argomento dell’organizzazione scientifica e tecnica già  trattato dagli articoli di Maria Grazia Betti e di Teresa Crespellani, e sul tema dell’Europa con gli scritti di Alberto Perduca e Alberto Lucarelli.
Il presente numero non pretende certo di trattare la questione dell’involuzione populistica della democrazia in forma esauriente. Vorrebbe però contribuire a meglio focalizzarla e soprattutto a stringerla in alternative nette, delineando fronti dialettici espliciti. Nei saggi di De Fiores, Melchionda e Ferrajoli i rinvii polemici — di segno opposto (ad esempio a Silvestri e a Cantaro) — non mancano. Di qui una prima constatazione: sul tema, i collaboratori della rivista sono divisi; com’è divisa quella galassia che continuiamo a chiamare «la sinistra».
Il problema è certo complicato. Se immaginassimo di poter formalizzare le diverse e numerose definizioni di democrazia tracciando, per ognuna, dei grafici; e se poi immaginassimo di sovrapporli, ne deriverebbero tre zone di condensamento dei segni: zone che individuerebbero i criteri definitori ricorrenti. È ragionevole presumere che l’una conterrebbe i principi tramandati dalla storia del costituzionalismo, dello stato di diritto e del liberalismo (la limitazione e il controllo del potere politico attraverso la sua separazione esterna dai poteri sociali e attraverso la sua divisione interna in funzioni giuridicamente divise; la rule of law, la tutela delle libertà  individuali); la seconda conterrebbe i principi tramandati dalla tradizione propriamente democratica (il suffragio universale, la libertà  di riunione, di associazione e di propaganda, la libertà  e uguaglianza di voto, la libertà  di organizzare partiti e sindacati); il terzo conterrebbe i principi di cui è stato originario portatore il movimento socialista: i principi di uguaglianza sostanziale (o di giustizia distributiva) che oggi decliniamo in termini di diritti sociali.
Come bene ha sottolineato l’editoriale anonimo (e dunque collettivo) del n. 23 di Nuvole (ma dovuto essenzialmente a Silvano Belligni), dal punto di vista storico è questo modello composito ciò che si è realizzato sotto il nome di democrazia. Un modello «che varia a seconda dei contesti e delle latitudini, ma che include sempre preponderanti elementi di uguaglianza, di benessere, di redistribuzione, di equità : fattori sostanziali, esiti di policy e funzionamenti». Tutti elementi, questi ultimi, che sono estranei alla dottrina oggi dominante — la dottrina di molti degli intellettuali addetti ai lavori e, soprattutto, delle nuove classi politiche affacciatesi negli anni ottanta — che propugna invece di ridurre la democrazia ad «un mero modus procedendi — un modo incruento per licenziare periodicamente governi sgraditi, indifferente ai principi e alle politiche — che può generare consapevolmente, senza snaturarsi, outcomes odiosi (l’aggettivo è di Huntington che lo rivendica) purché proceduralmente ineccepibili come la disuguaglianza crescente, la guerra infinita, l’oppressione militare e il colonialismo, il razzismo». Definizioni post-schum-peteriane, perché «persino Schumpeter poneva dei limiti di principio alla fungibilità  delle policies».
Chiarito dunque che quando parliamo di democrazia intendiamo riferirci non ad una dottrina (e nemmeno a un mero sistema politico), ma ad «un modello di civilizzazione che è stato storicamente approssimato in pochi paesi (prevalentemente europei) nei trent’anni gloriosi succeduti alla seconda guerra mondiale, e che oggi è sottoposto a tensioni involutive che convergono in una vera e propria trasformazione negativa», dobbiamo chiederci, per focalizzare il tema che vorremmo chiarire: dove e come il populismo opera come tensione involutiva della democrazia reale?
Che oggi tutti e tre i profili della democrazia reale stiano involvendosi, è evidente; e che siano in corso campagne volte a provocare, o comunque sorreggere, questa evoluzione, è altrettanto evidente (è ovvio infatti che le definizioni procedurali della democrazia sono volte a ridurre le pretese diffuse intorno ad essa, rendendo accettabile, o addirittura preferibile — in nome della libertà  — il suo modello scheletrico e pilatesco). Ma mentre i fenomeni che intaccano il primo e il terzo sono univoci (dall’avvento della timocrazia al-l’aumento delle disuguaglianze), quelli che intaccano il secondo (e tra essi il populismo, inteso come alterazione del continuum sovranità  popolare – azione collettiva – rappresentanza) sono ambigui. Il peso del «popolo» è oggi troppo alto o troppo basso? Basta dire che è troppo alto il peso del popolo evocato da chi se ne attribuisce la complessiva rappresentanza, e troppo basso il peso del popolo «reale»? Ma è corretta la formulazione di questa alternativa? È lecito usare la parola «popolo», o non ci si mette, per ciò stesso, su un scivoloso piano inclinato?
Non mi sembra ancora possibile tracciare un quadro compatto e ordinato di tutti i problemi che il rapporto democrazia-populismo evoca. Si possono, mi sembra, tutt’al più individuare due «centri sismici».
Il primo riguarda il nesso tra populismo e azione collettiva organizzata. Da un lato si constata che «la conflittualità  sociale si è sostanzialmente decentrata e territorializzata, trasferendosi a livello di subpolitica e spesso incanagliendosi in protesta egoistica, rendendo sempre più difficile il varo di politiche pubbliche di interesse comune», secondo una tendenza attivamente assecondata dai governi, che «favoriscono la semplificazione dei sistemi di partito attraverso gli incentivi istituzionali al voto strategico e all’astensionismo elettorale». A ciò si può aggiungere (nell’ottica del poco esplorato discorso sul pervertimento del legame sociale) la tendenza verso la cancellazione del confine tra la libertà  naturale e la libertà  civile, con la conseguente qualificazione in termini di «diritto» di ogni libito: il che riduce drasticamente l’area del politicamente decidibile. Se questo è vero, quante chance di effettività  ha oggi il modello realistico-kelseniano di democrazia, fondato sul conflitto e sul compromesso tra identità  politiche collettive contrapposte? E allora il populismo che cos’è: il fattore che ha generato questa situazione, oppure il pallido simulacro cui è necessario ricorrere (non solo da parte dello stato maggioritario e verticalizzato, e dei nuovi partiti programmaticamente populisti, ma anche ad opera degli ex partiti di massa) per tenere in piedi l’impalcatura democratica di fronte allo squagliamento di quelli che erano i suoi portatori reali?
Il secondo punto critico riguarda il nesso tra populismo e democrazia costituzionale, cioè limitata (dal diritto). Rivolgiamoci ancora una volta all’edi-toriale già  citato: «A questo proposito occorre non fallire il bersaglio della polemica, facendosi fuorviare dal caso italiano, dove è indiscutibilmente a rischio l’indipendenza del potere giudiziario a fronte degli attacchi populistici della maggioranza di governo . Ma nel mondo vi sono a questo riguardo tendenze contrastanti e processi in corso di segno ambiguo, perlopiù orientati all’emancipazione di poteri di fatto e di poteri governativi dal controllo politico; tendenze che vanno dal crescente ruolo delle corti di giustizia, alla crescita del potere delle autorità  indipendenti e delle tecnostrutture economiche, al primato esercitato nel mondo globalizzato da organismi economici come la Wto, la Wb, il Fmi che decidono unilateralmente delle sorti di interi paesi. Tra populismo da un lato e tendenze oligarchiche e tecnocratiche dall’altro la strada appare molto stretta e l’equilibrio precario, mentre la presunta anomalia italiana con cui ci intronano le orecchie ogni giorno rischia di farci perdere di vista altri più generali rischi involutivi».
Dove passano dunque i confini che delimitano questo stretto sentiero? Dove passa il confine tra populismo e perdurante (almeno sembra) necessità  di legittimare democraticamente le istituzioni, in un contesto in cui i soggetti collettivi sono rachitici, e dunque incapaci di provvedere essi stessi — con la loro azione e i loro compromessi — a quella legittimazione? E dove passa il confine tra poteri costituzionali non elettivi (ingredienti indispensabili del costituzionalismo) e poteri tecnocratici?
Su questi temi Democrazia e diritto intende discutere in modo cumulativo anche nei prossimi numeri, secondo il metodo inaugurato con la rubrica Ricercacontinua, per chiarire e affinare le alternative sul piano analitico. Alternative che, sul piano pratico, potranno essere sciolte in favore della democrazia come modello di civilizzazione solo se si rinsalderanno le soggettività  politiche costitutive del compromesso democratico e dell’armistizio costituzionale. Il problema, nel frattempo — e a ciò serve la ricerca analitica — è non commettere errori politici che rendano ancor più difficile questo esito.
Mario Dogliani

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