Mario DoglianiPotrebbe apparire strano che questo fascicolo di Democrazia e diritto, destinato ad essere distribuito nell’imminenza del referendum sulla revisione costituzionale, si apra con tre saggi dedicati alla lunga e contrastata attuazione della Costituzione del 1947, anziché con un articolo di vigorosa polemica intorno ai contenuti e ai metodi del suo progettato mutamento. Ma l’impressione è sbagliata, e sarebbe tanto più sbagliata se si volesse vedere nella scelta di pubblicare questi saggi una sorta di omaggio postumo ad una vicen-da che si sta per chiudere (quella della difficile attuazione) ammettendone, e rimpiangendone, l’incompiutezza.

Niente di più sbagliato.

La pubblicazione di questi studi di carattere storico vuole essere un richiamo al realismo, contro le retoriche che hanno contribuito a rendere pos-sibili lo sfarinamento del nostro tessuto costituzionale e i rischi autoritari che stiamo correndo. Se attuare la Costituzione del ’47 è stato così lungo e difficile, che cosa sarebbe stato più realistico: tentarne delle correzioni mantenendo il patrimonio accumulato, o abbandonarsi a miraggi palingenetici, imma-ginando che la scrittura di una riforma fosse una bacchetta magica, semplice da usare, e che immediatamente avrebbe conformato la realtà? Ci hanno voluto far credere che l’alternativa fosse tra sentimentalismo (i difensori) e realismo (gli innovatori). In realtà era il contrario; e i fatti lo stanno dimostrando.

I difensori sapevano che, alla fine degli anni ottanta, la malattia stava dentro le forze politiche, e che toccava a queste – o meglio, a quelle loro parti che si erano salvate dal diluvio – rinnovare se stesse per facta concludentia e dare un nuovo assetto al sistema politico italiano; e sapevano che questo avrebbe potu-to anche richiedere di emendare la costituzione, senza farne però il capro e-spiatorio delle colpe di chi aveva modernizzato la corruzione gabellandola per una modernizzazione della società, e che aveva con ciò innescato il cataclisma. Si è scatenata invece una furia iconoclasta e megalomane, palingenetica, che ha caricato il capro-costituzione di tutte le colpe di tutti, e che è rimasta viva, e ha accompagnato il pendolo delle maggioranze politiche.

Dove stava il realismo, nella sinistra?

Come si può negare che il torbido momento della vita pubblica italiana che stiamo attraversando costituisca il punto d’approdo di quelle megalomanie via via passate di mano? Che finora hanno provocato guasti nelle istituzioni e ferite nella loro legittimazione, e che stanno per dare al paese una costituzio-ne che – usando le parole di Sartori – è tanto dispotica (perché il potere non è limitato da contropoteri) quanto tirannica (perché consente un esercizio as-soluto del potere di maggioranza)?

Se la politica realista e pragmatica è quella che pretende di essere giudicata non in base ad astratte coerenze, ma all’efficacia dei risultati, che razza di realismo è stato quello che si è lasciato coinvolgere in un’illusione che ha finito per propiziare questi risultati?

Ma la questione del realismo non si pone solo in riferimento alla politica costituzionale. Si può forse negare che esista un legame tra le modalità con cui è stata esercitata la dittatura della maggioranza parlamentare (dalle leggi personali alla revisione autoritaria) e i veleni oggi in circolo (tanto per essere chiari: non solo la campagna elettorale a colpi di intercettazioni, ma anche l’offensiva sul «collateralismo» – compreso il rapporto con il sindacato – e le pretese «illuminate» che il partito democratico nasca da una Canossa battesimale, che lavi il peccato originale di chi ha ascendenze nel movimento operaio e socialista)?

Il giudizio potrebbe apparire affetto da pan-giuridicismo. Ecco – si potrebbe dire – il solito azzeccagarbugli coi paraocchi, che riconduce tutti i mali politici del presente ad una causa «giuridica». E invece no. La causa non è giuridica. Lo ha detto il profeta-giullare Michele Serra (e si sa che i profeti-giullari dicono sempre la verità):

«La mia impressione, che vale quanto queste poche righe quotidiane, è che molti uomini della sinistra italiana, anche i migliori, siano spesso paralizzati dal timor panico di apparire “vecchi” e “moralisti”. E che lo sconquasso i-deologico che ha travolto l’ideologia d’origine abbia in qualche modo contaminato anche valori e metri di giudizio altamente rispettabili (e modernissimi) che si esita a pronunciare perché si è sotto il ricatto culturale di una “modernità” in realtà fasulla e decrepita (niente è più vecchio, specie in Italia, della furbizia e della spregiudicatezza). Ci sono dei “no” e degli “alt” duri da pronunciare, perché corrono il rischio di suonare dissonanti rispetto ai tempi. Ma quando i tempi suonano così male, provare a dirlo in tempo è proprio il mestiere degli onesti» , ma prima ancora – si dovrebbe obiettare a Serra – dei politici realisti, che dovrebbero sapere quali sentimenti profondi chiedono di essere rispettati.

Il sillogismo è dunque semplice.

All’origine c’è il timor panico paralizzante indotto dal nuovismo; un vento che ha investito tutto: dalle ideologie delle diverse famiglie politiche ai principi dell’economia mista a quelli del costituzionalismo liberal-socialista (se vogliamo dar loro questo nome)…

Questo timor panico, questa incapacità di distinguere – e scegliere – tra comportamenti e atteggiamenti sociali aperti al «nuovo» e comportamenti e atteggiamenti legati a forme di pensiero e a modelli sociali radicati e considerati «preziosi» è stata manifestazione di irrealismo. Un irrealismo che ha riguarda-to tanto l’importanza della «morale politica» dei singoli quanto quella dei mo-delli politico-ideali di riferimento (giustizia distributiva, pace, sicurezza del fu-turo…), quanto il ruolo della costituzione, intesa come «morale istituzionalizza-ta»: punto di riferimento minimo collettivo proiettato sul lungo periodo.

Questo irrealismo intorno ai fattori soggettivi della politica si è trasformato in debolezza, perché ha determinato un piano inclinato sul quale le richieste di, appunto, «modernizzazione» si sono fatte sempre più incalzanti, fino a preten-dere il rifiuto di ogni legame con la lunga storia del movimento socialista.

In quest’ottica, ricordare la storia delle difficoltà che ha incontrato la «politica nel solco della costituzione» (è meglio usare quest’espressione, per evitare l’equivoco di considerare la costituzione come un programma conchiuso pronto per essere attuato) può essere utile per mettere a fuoco due errori:

a) non aver circoscritto esattamente, fin dall’inizio, l’area della possibile revisione, lasciando così intendere che parti del patrimonio faticosamente accumulato, per compromessi e maturazioni successive, potessero essere messi in discussione: dal federalismo, dalla sussidiarietà orizzontale, dall’oscura-mento del ruolo della politica economica e industriale… al di là dei delicati problemi relativi al nesso tra forma di governo e sovranità popolare, che im-plica una rappresentanza «reale» del corpo elettorale, e dunque una tutela reale del principio di uguale libertà politica;
b) aver presunto che la costituzione rinnovata potesse essere strumento efficace e diretto di una trasformazione politica e sociale; presunzione che comportava un aggiramento della domanda: gli interessi che avevano reso così difficile la «politica nel solco della costituzione» vecchia, perché dovrebbero rapidamente acconciarsi ad assecondare quella nuova?

Già, perché?

Un commento a “Difendere la Costituzione: un atto di realismo”

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