Umberto_AllegrettiFare il punto, in questo momento, sulla situazione e sulle prospettive europee non è facile. Come è ben noto, la situazione si è fatta molto complessa dopo i voti referendari della Francia e dell’Olanda contro il trattato costituzio-nale, a cui ha fatto seguito l’orientamento assunto dalle istituzioni dell’Unione di proseguire nel processo di ratifica del trattato e in quello di allargamento a nuovi paesi membri ma concedendosi pause e rallentamenti (che, per le ratifiche, si prolungheranno presumibilmente fino a metà del 2007, pur prevedendosi un primo esame in consiglio nella prima metà del 2006). Si è poi ulteriormente complicata a seguito dei dissensi sul bilancio comunitario pluriennale determinati in particolare dall’atteggiamento inglese e, infine, per effetto dell’insediamento alla temporanea presidenza dell’Unione di una direzione britannica che si annuncia assai intraprendente.

La conclusione del Consiglio europeo di metà giugno e i pur fitti commenti apparsi sui mezzi di comunicazione lasciano grandi incertezze e provocano a proposito dell’atteggiamento degli organi responsabili un misto di impressioni di saggezza e di sostanziale incapacità di affrontare gli eventi.

Nel breve periodo, risulta verificata la previsione, fatta da non pochi tra cui chi scrive, che, per quanti difetti giustifichino la critica del trattato costituzionale, il rifiutarne la ratifica avrebbe condotto a una crisi dannosa e oscura; parallelamente, risulta smentita la speranza di quella parte di oppositori (che pure viene da taluni di essi ribadita dopo gli avvenimenti recenti) che puntavano sulla crisi come ad un’occasione di ripresa del discorso sociale europeo e di miglioramento delle possibilità di creare un’Europa più coesa, più capace di politiche di pace e più aperta ai problemi del mondo circostante.

Più difficile la diagnosi di medio e lungo periodo, quella che davvero importa. Innanzi tutto, non è facile interpretare a pieno il senso dei voti referendari già espressi e del complessivo muoversi dell’opinione dei popoli europei, su cui giocano fattori complessi.

Vi sono, sembra, una parte di ragioni ispirate al desiderio di decretare (come in Francia) una sconfitta dei leader interni per motivi, appunto, di politica interna. Nessuna mitizzazione della volontà popolare può spingere ad apprezzare positivamente quest’ordine di motivazioni, che si deve sperare di poter in futuro superare conducendo un’opera di approfondimento (un approfondimen-to in Francia in parte vi è stato, come frutto benefico di una tesa campagna) circa il ruolo distinto e capitale della questione europea rispetto ai puri risvolti di politica interna.

Per quanto riguarda i fattori di carattere genuinamente europeo, va considerata normale la presenza di una fetta di elettorato ferma a posizioni di nazionalismo di destra, di per sé comunque incapace di raggiungere il peso determinante sull’esito delle votazioni. Ma sembrano essere stati elementi decisivi le posizioni d’una sinistra sociale, critica verso il liberismo che sta a base delle politiche dell’Unione, e un più variegato sentimento di insoddisfazione per i cattivi risultati economici dell’Europa e per i pericoli già in atto per il benes-sere della società europea, con in più il timore per gli ulteriori sviluppi in que-sta direzione attesi soprattutto dall’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est (la cosiddetta paura dell’«idraulico polacco»).

Il vivace discorso di insediamento alla presidenza di Blair ha rincarato su questi disagi, da un lato imputandoli a un modello sociale dei paesi europei di tipo vetero-statalista, contrapposto ai brillanti risultati sociali che sarebbero tipici del diverso modello seguito dal suo paese, e proponendo all’Europa l’adozione di quest’ultimo; dall’altro insistendo sull’inevitabilità degli ulterio-ri allargamenti (inclusi Turchia e Croazia), sull’accentuazione della capacità militare europea e su una politica estera di attivismo, che peraltro – si noti questo punto, del resto più generale – non ha per niente associato al potenzia-mento del quadro istituzionale.

Da questi propositi ovviamente, come pure dai propositi espressi da Chirac e da Schröder (e questo è meno naturale, anche se sembra trovare radici nell’indebolimento generale di questi due massimi esponenti politici), esula l’idea d’un seguito sociale – nel senso normalmente inteso nei paesi del continente – da dare alle istanze espresse dal voto popolare capitalizzando le ragioni più serie del «no», e si conferma dunque che quel voto non pare produrre un avanzamento verso l’affermazione di politiche sociali in quel senso ma semmai l’esatto contrario. In definitiva, l’asse della politica suggerita da Blair per l’Europa, argomentandola dai successi da lui vantati per l’Inghilterra, con-siste nel perseguire il progresso sociale «sulla base e non a spese di una forte economia»: la crescita è dunque l’assoluta e unica condizione per una più corretta distribuzione del benessere sociale. Su questo concorda in pieno quel vangelo dell’economia liberale e della politica puramente intergovernativa che è dato dall’Economist, il quale da un mese predica che l’Europa e la costituzione finora pretese sono morte.

Non è comunque facile che, nonostante la lucidità del suo discorso, Blair – con gli scarsi poteri della presidenza – riesca ad imprimere all’Unione un indi-rizzo deciso nel senso da lui auspicato. La cosa più prevedibile è un periodo di stallo, nel quale l’Unione continuerà a operare sulla base delle regole esistenti. Le lunghe «Conclusioni» del consiglio di metà giugno, vertenti in misura particolare sulla politica internazionale ma che si possono sospettare di essere solo retoriche, e il corso delle altre procedure quali quelle riguardanti i paesi in deficit come l’Italia, sono esempi della possibilità che l’Unione continui a funzionare secondo meccanismi già assestati, ma certo senza smalto, e prenda alcune decisioni transattive, soprattutto in campo economico. Nel frattempo alcuni stati, specialmente i nuovi membri, che al consiglio di giugno hanno dato prova di tenere molto all’Europa, probabilmente ratificheranno il trattato con le ordinarie procedure parlamentari, mentre altri, soprattutto quelli del nord e quelli che hanno già deciso di indire un referendum, potranno rallentare la marcia. Se non si condividono i propositi inglesi, occorre domandarsi come utilizzare questa fase per mettere in moto con più intensità i meccanismi dell’integrazione nel corso del 2006-2007.

Habermas ha scritto meglio di tutti che ciò che si è mancato di mettere in rilievo nel dibattito sono «la finalità e i motivi di fondo della volontà di portare avanti il processo di unificazione», ovvero che non vi è stata la presenza di «una prospettiva che agli occhi dei cittadini giustifichi l’esigenza di una costituzione per l’Europa di oggi».

È sulla discussione di questa finalità profonda che occorre ora impegnarsi. In sede, certo, di governi nazionali, poiché ad essi ritorna ora l’iniziativa (co-me rilevato da Gian Enrico Rusconi nel seminario Quo vadis, Europa? prontamente convocato dal Crs dopo i due voti referendari). Ma anche, a nostro avviso, in sede di parlamenti e di partiti. Perché il nostro parlamento non dibatte a fondo il grande tema dell’unificazione europea, dei suoi obiettivi, delle sue finalità geopolitiche? Perché – e questo ci sta particolarmente a cuore – il centrosinistra e l’Unione tardano a farne un punto essenziale delle loro discus-sioni programmatiche? Lo stesso dovrebbe accadere nelle sedi culturali: gli universitari non potrebbero fare in minor misura i commentatori dei trattati esistenti e gli osservatori distaccati dei processi in corso e riflettere maggiormente sulle esigenze di fondo di un’integrazione al tempo stesso forte e realistica? E ancora, una discussione viva dovrebbe essere provocata nello «spazio pubblico» generale, di fronte ai popoli e coi popoli.

In questo contesto, anche il discorso sui confini d’Europa e quindi sugli allargamenti vecchi e, soprattutto, nuovi, andrà affrontato, per quel che è possibile dopo i passi già consumati, senza occasionalismi e senza precipitose ap-prossimazioni. Forse proprio questo si è fatto (lo diciamo con tutti i dubbi che ci possono essere al riguardo) sotto la pressione, comprensibile ma non in tut-to buona consigliera, di eventi formidabili come la caduta del blocco dell’Est e in una non abbastanza avveduta (nei modi e nei tempi) sequela data ai com-prensibili desideri espressi dalle élite dei paesi usciti dal giogo sovietico e alle tendenze manifestate da parte degli Stati Uniti d’America; e l’opi-nione inglese (condivisa ancora una volta da Blair e dall’Economist) è troppo semplificata quando sostiene che l’allargamento renderebbe l’Europa più potente e che un’Europa che non si allarga tradirebbe i suoi ideali e cadrebbe nel nazionalismo e nella xenofobia.

Non è fuori luogo ricordare che, storicamente – come risulta dalle migliori storie d’Europa e dell’idea d’Europa (dal classico Chabod al recente libro di Marcello Verga) – già dal settecento l’estensione dell’Europa verso oriente è sempre stata incerta e controversa, in rispondenza alle diverse vicende pro-fonde e ai diversi caratteri propri dei paesi, o di un certo numero di paesi, di quelle aree, e che, dunque, le differenze tra l’Europa occidentale e l’Europa spesso denominata orientale o centro-orientale (per non parlare della Russia per un verso e della Turchia per l’altro) non sono state il mero frutto delle vicende seguite alla seconda guerra mondiale né un effetto della discutibile idea di Europa «atlantica» diffusasi in quella fase.

In secondo luogo, va tenuto conto che, nelle strutture politiche e giuridiche, l’inserimento istituzionale di nuovi membri nell’Unione non è l’unica formula capace di risultati adeguati alle istanze ideali da onorare né alle esigenze politiche, economiche e d’altra natura da soddisfare. Gli accordi di associazione e di partenariato o altri appositamente studiati, che potrebbero essere più saldi che negli esempi già collaudati, potrebbero in molti casi – per esempio in quello dell’Ucraina o della Turchia, ma forse anche in altre ipotesi – fornire la giusta soluzione per un rapporto proficuo dell’Unione verso quello che a Bru-xelles è stato chiamato «l’anello degli amici», che la circonda verso est e verso sud. Lo stesso angoscioso problema dei Balcani occidentali, per i quali è obiettivo prioritario porre definitivamente fine alle tragiche conseguenze della separazione jugoslava, e che sicuramente spinge (da gran tempo lo si è sostenuto) al loro inserimento in Europa, non deve probabilmente vedersi in termi-ni rigidamente predefiniti nelle tappe e nelle forme.

Senza preliminari dibattiti di questa natura, non è oggi definibile quale sbocco si potrebbe dare al processo di costituzionalizzazione, o comunque ad un nuovo trattato, sia nell’evenienza, sperabile, che almeno i quattro quinti degli stati membri, come è previsto nella dichiarazione allegata al Trattato di Roma, ratifichino quest’ultimo, sia in caso diverso. Un conoscitore molto e-sperto e realista, come Giuliano Amato, ha avanzato l’ipotesi che si possano almeno introdurre nei trattati esistenti alcuni elementi già previsti nella costituzione, come l’istituzione di un ministro degli esteri europeo, un nuovo ruolo dei parlamenti nazionali e altri (ma non, gli pare, la Carta dei diritti che pure ne è una componente tra le più essenziali).

Volendo soddisfare le esigenze portate avanti dalla sinistra politica e sindacale più sensibile ai temi sociali (un intervento di Titti Di Salvo, della Cgil, ha, nel seminario citato, giustamente sottolineato ancora una volta che non l’idea del trattato è stata respinta ma il superliberismo dell’Unione), bisogne-rebbe che questa uscisse dal clima puramente critico e rivendicativo che le è in genere proprio, per avanzare ipotesi articolate circa gli strumenti da usare. Questi non mancherebbero: basterebbe prevedere, come altre volte ipotizzato, che tra le politiche demandate all’Unione, pur senza trasferirle la generalità delle competenze in materia di diritti sociali (che sono da lasciare agli stati), vi fosse l’indicazione, o almeno il coordinamento, dei livelli essenziali di quei diritti da soddisfare in ogni stato. Si otterrebbero così, insieme, l’obiettivo di armonizzare nell’essenziale le prestazioni sociali a cui si ha diritto in ogni stato membro, antico o nuovo che sia, e quello di interiorizzare alle politiche finanziarie e monetarie delle istituzioni dell’Unione, assieme ai parametri fi-nanziari e ai traguardi economici, gli obiettivi sociali ineludibili.

Ma ci sarà negli europei, e per quanto ci riguarda negli italiani, la volontà di abbandonare il terreno dei genericismi polemici e delle esitazioni tattiche, per inoltrarsi, nel contempo, in un vero dibattito «filosofico» sui fini e i ca-ratteri d’Europa e in un’autentica discussione politica e giuridica sulle mo-dalità con cui soddisfare i fini e i caratteri prescelti? È stata questa capacità creativa che, nel tempo del dopoguerra (che non era certo un tempo facile), ha consentito di avviare la costruzione europea e in seguito di condurla avanti.

In quest’opera, complessivamente positiva, c’è stato anche un reale impe-gno dell’Italia. Telò, ripercorrendo nel suo contributo alla Storia dell’Italia repubblicana di Einaudi l’apporto del nostro paese a quella costruzione, ne ha messo in luce i punti alti e le debolezze. Tra i punti alti vi sono quelli riscon-trabili in particolare nel politico più lungimirante a questo riguardo che fu De Gasperi e nelle altre componenti individuali e partitiche di quel cammino. Le debolezze hanno portato in altre fasi a una «navigazione di conserva» e addirittura (nel 1972 e anni seguenti e dopo Maastricht) a «crisi serie», dovute per lo più al non tener conto che «le condizioni per avere accesso a questa risorsa politica sono sempre meno ideologico-politiche e sempre più economico-sociali»: di «coerenza a livello dell’attuazione delle politiche concordate» e di «nuovo equilibrio tra dimensione nazionale e sopranazionale».

Dieci anni dopo quello studio, si deve ascrivere a merito dell’Italia aver realizzato un nuovo momento di convergenza tra idealità e politiche reali nell’adesione all’euro, con tutto ciò che esso ha significato di sacrifici (soprattutto per alcune categorie di cittadini) ma anche di acquisizione di benefici. Oggi il rileggere tutta quella storia non può non indurre a proporre, in particolare a chi sta nella sinistra, un impegno almeno uguale di intelligenza e di volontà.

P.S. Le bombe che hanno ferocemente colpito Londra, oltre al loro significato per tutto il mondo, gettano ora una luce ancor più problematica sulla stes-sa questione europea. In poche ore, l’atteggiamento del capo del governo inglese è passato dalla dichiarazione di sentirsi «elettrizzato e felice» per l’assegnazione alla città della sede di una lontana olimpiade (ma davvero si trattava di una notizia tanto esaltante?), alla «maschera terrea» (La Repubblica, 8 luglio) di chi non sa dir altro se non che «la nostra vita non cambierà» e «i nostri valori dureranno più a lungo di loro». Ma le condizioni ogni giorno più drammatiche delle relazioni mondiali smentiscono proprio la sufficienza della crescita economica, dell’esercizio sofisticato dell’intelligence e della capacità militare a dare un connettivo all’Europa e a caratterizzare il suo modo di agire all’esterno.

Ribadiscono la necessità che cambi, in Europa, l’atteggiamento culturale e politico, oltre che economico, in tutti i rapporti mondiali e che venga assicurata la coesione istituzionale che renda possibile una presenza efficace a livello mondiale. Sarebbe forse il caso di rimeditare, magari sulla base di una lucida esposizione della congiuntura originaria delle prime forme di integrazione del continente quale quella dei Mémoires di Monnet, come il passaggio essenziale che i paesi dell’Ovest europeo seppero affrontare intorno al 1950 sia stato quello di proporsi come un elemento di aggregazione nuovo tra le due superpotenze che sembravano destinate ad occupare tutta la scena, affrontandosi in campo ideologico, economico e anche, pericolosissimamente, in campo militare.

Se ne dedurrebbe, seppure con tutte le differenze di situa-zione, la percezione della necessità che l’Europa tutta si unisca ora con un’integrazione così solida e istituzionalmente definita da potersi presentare, nelle relazioni mondiali tra Stati Uniti e le aree del continente asiatico che in vario modo si pongono o si porranno in futuro come determinanti per i rap-porti internazionali, con una sua precisa ipotesi culturale e politica capace di scongiurare la violenza come unica risorsa per il confronto tra l’Occidente e il suo fuori.

Un commento a “Europa, che fare?”

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