Interventi
La si può vedere in due modi, opposti. Primo modo. Il governo Conte 2 è il risultato di una operazione di grande abilità politica, che mette fuori gioco Matteo Salvini e i suoi deliri sovranisti, restituisce alla democrazia parlamentare le sue prerogative, mette finalmente al mondo quell’alleanza “naturale” tra Pd e M5s strangolata nel 2013 dall’intemperanza grillina e nel 2018 dai popcorn renziani, riunifica il popolo del centrosinistra transfugo nella protesta pentastellata o disperso nell’astensione, restituisce al Pd il suo ruolo di perno del sistema politico e di “partito della nazione”, sempre pronto a rispondere agli appelli alla sua responsabilità tanto più se provengono da Bruxelles, nonché ad accollarsi l’onere di costituzionalizzare forze “anomale” e riottose. Nel medio periodo, ne verrà il guadagno di un riordino del sistema politico, affidato come al solito a un’ennesima legge elettorale (ma qui le strade già si dividono, come al solito, tra fautori del proporzionale e del maggioritario, e relative visioni del suddetto riordino). In sintesi, per dirlo con una battuta, un colpo di fortuna machiavellicamente gestito.
Secondo modo. Il governo Conte 2 è il risultato di un’operazione di ceto politico, mossa più dalla paura delle elezioni e dall’istinto di autoconservazione che dall’urgenza di fare fronte all’emergenza democratica, manovrata da Renzi e da Grillo e capitalizzata dall’abile neocentrismo di Conte a tutto discapito del Pd, ridotto a portatore d’acqua di un governo trasformista in cui le richieste di discontinuità di Zingaretti sono state subissate dalle rivendicazioni di continuità di Di Maio. Salvini è fuori gioco ma temporaneamente, perché anche dall’opposizione può fare molti danni e perché la svolta a destra che egli incarna si sconfigge nella società e nelle urne, non nelle operazioni di palazzo. Nel medio periodo, il sistema politico resterà instabile e schiavo delle divisioni (e ritorsioni) interne al Pd e all’M5s, e a farne le spese sarà il progetto di rigenerazione del Pd e della sinistra abbozzato da Zingaretti e soffocato sul nascere. Come in altri passaggi della storia politica repubblicana, il Pd-ex Pci-Pds-Ds pagherà con un dissanguamento, se non con l’estinzione, un’ideologia della responsabilità che copre la sua vocazione ormai esclusivamente governista. Sfortuna, altro che fortuna, della sinistra.
Che questi due modi di vedere la nascita del secondo governo Conte siano entrambi presenti nell’opinione di sinistra, e spesso secondo linee di demarcazione non scontate, la dice lunga sul carattere nebuloso, poco o niente ragionato ed esplicitato, dell’operazione in questione. A conclusione della quale si può e si deve certo brindare alla cacciata dal Viminale di Matteo Salvini, un capopolo che del suo ruolo istituzionale abusava senza vergogna e senza contenimento alcuno a fini neanche tanto velatamente eversivi. Ma non si può non rimarcare che l’intera conduzione della crisi non sia stata affatto all’altezza della posta in gioco. E poiché in politica il metodo è sostanza, quella conduzione inficia inevitabilmente il risultato.
Si era detto da più parti, all’inizio della crisi di governo, che solo una posizione netta del Pd e della sinistra sui danni apportati dall’esperimento giallo-verde alla democrazia costituzionale e allo stato di diritto avrebbe potuto fornire una barra sia nel caso di elezioni sia nel caso di un cambio di maggioranza e di governo. Significava esigere un’autocritica di Conte e dell’M5s sulla piena complicità fornita a Salvini in materia di immigrazione e sicurezza, e più in generale sulla convergenza tra leghisti e pentastellati nell’attacco alla divisione dei poteri e alla democrazia rappresentativa. Offrendo in cambio un’autocritica altrettanto necessaria del Pd sulle politiche sociali espresse dai governi precedenti, e largamente responsabili degli exploit populisti e sovranisti del 2013 e del 2018.
Senonché la questione democratica non è stata neanche messa a tema nel corso della crisi, le richieste di discontinuità avanzate da Zingaretti sono state sistematicamente scansate dalle rivendicazioni di continuità con l’operato del governo giallo-verde di Conte e Di Maio (che si riflettono nelle postazioni mantenute nel nuovo governo dai pentastellati più fedeli al neoministro degli esteri), il ritiro dei decreti sicurezza si è ridotto nel programma alla loro blanda correzione richiesta da Mattarella, e anche sulle politiche sociali l’inversione di rotta appare alquanto vaga, in un programma che fin nel linguaggio porta il segno dell’egemonia post-ideologica grillina su quello che dovrebbe essere il punto di vista di parte della sinistra. È vero che la composizione del governo, pur risultando dal gioco correntizio delle promozioni e dei veti, sembra alla fine migliore di quello che ci si poteva aspettare, soprattutto nelle postazioni cruciali dei rapporti con l’Europa, dell’economia, del mezzogiorno e delle autonomie regionali. Ma è vero altresì, e d’altra parte, che nel suo complesso il Conte 2 sembra destinato a riprodurre la conflittualità interna del Conte 1, con il Pd che rischia di ritrovarsi nella posizione del guardiano dell’establishment europeo e i cinquestelle in quella dei difensori delle proprie bandierine.
Il che non sembra preludere tanto a un riordino, quanto piuttosto a un’ulteriore destrutturazione del quadro politico. Della quale verosimilmente non sarà la sinistra ad avvantaggiarsi, ma un centro già alquanto affollato fra le ambizioni di Conte, le scissioni annunciate di Renzi e Calenda, le contorsioni di quello che resta di Forza Italia. Senza contare i rischi di un ritorno di fiamma tra Di Maio e Salvini, l’unica coppia che abbia continuato a dare segni di un desiderio non spento mentre si officiava il matrimonio d’interesse giallo-rosso. Vogliamo credere intanto che i giuramenti dei ministri sulla costituzione siano stati oggi più affidabili di quelli del governo precedente. E nell’attesa degli sviluppi, festeggiamo due ottime notizie: l’indagine a carico di Salvini per aver diffamato Carola Rackete, e la revoca a Mimmo Lucano del divieto di dimora a Riace. Entrambe ascrivibili ai meriti non della politica istituzionale, ma di un’inedita alleanza tra l’opposizione sociale e lo stato di diritto.

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