Interventi

Giuseppe Prestipino è stato per me compagno, amico, maestro. L’ho conosciuto, ed ho appreso ad apprezzarlo, nell’Università di Siena dove è stato una delle figure più autorevoli, pur nell’estrema discrezione; più attento, interessato all’ascolto e allo scambio che non all’affermazione. Comunisti entrambi, negli anni abbiamo avuto rapporti fecondi nella politica e nelle istituzioni culturali della sinistra.

Oggi vivo dolore e rimpianto, ma avverto anche, forte, il desiderio di tornare al suo pensiero, di riproporlo al confronto, alla riflessione comune.

Voglio iniziare qui, pubblicando brani di un suo scritto su guerra e pace, tratti dagli Atti del Convegno, svoltosi a Siena dall’11 al 13 aprile 2003, per iniziativa del Centro di filosofia italiana, del quale era presidente, del Centro Mario Rossi per gli studi filosofici e dell’Istituto italiano per gli studi filosofici.

Grazie Peppino, lasci un vuoto, ma spero riusciremo in parte a colmarlo, continuando a pensare e agire, con te e per quello in cui hai creduto.

Guerra e pace

Guerra in forme nuove, globale: perché il nemico, ora, pare non abiterebbe in nessun luogo, ma si anniderebbe dovunque…

Dopo i mutamenti della guerra, per motivare una più profonda avversione alla guerra, sarebbe necessario anche un mutamento semantico della parola pace, che dovrebbe essere ripensata e radicalizzata. Radicalizzata: non soltanto terrorismo e guerra, ma ogni violenza (pubblica e privata) dovrebbe dichiararsi, più che illecita, disumana. Umanamente doverosa sarebbe soltanto la non-violenza illimitata. Perciò potrebbe considerarsi superata anche la definizione weberiana dello Stato come titolare del monopolio della violenza legittima…

L’ultramoderna età della tecnica, dopo aver rovesciato la nota formula di Clausewitz, ravvisando nella politica la continuità della guerra con altri mezzi, potrebbe celebrare oggi nella guerra la dissoluzione della politica.

Direi, riproponendo proprio la tematica kantiana della ragione e del suo bene operare, che non è sufficiente affermare la positività del concetto di pace e il rovesciamento (guerra come non-pace) dell’equazione tradizionale. È anche necessario pensare la pace, non come “idea regolativa”, ma come costituente e costitutiva.

Come intendere una funzione della pace che sia realmente costitutiva? Èpossibile non appagarsi soltanto del suo impianto formale, ma scorgervi l’auspicabile concretizzarsi di un atto formativo?

La pace senza giustizia è vuota, o sorda, e la giustizia senza pace è cieca. Cieco, infatti, è stato ogni tentativo di instaurare la giustizia (la giustizia sociale) nel contesto di uno stato di guerra, imposto o proposto, e con l’abito di una “militanza” affetta dal peccato originale di una prolungata “militarizzazione”, come ha osservato in altra occasione Pietro Ingrao, dell’impegno rivoluzionario.

Alle fallaci teorizzazioni socialdarwinistiche, sulla necessità delle divisioni gerarchiche o etnocentriche in ogni società come nel vasto mondo geopolitico, deve dunque opporsi una pace “sostantiva”, che non sia un nobile ideale soltanto, ma una realtà pervasa di idealità

La pace non sarà certo né “armonia prestabilita”, né reductio ad unum… si dichiari che la pace è il conflitto, e che l’una e l’altro insieme sono l’opposto della guerra.

Abbiamo discusso di guerra e pace. Perché mai, nel mondo d’oggi (finalmente unificato, non soltanto dai commerci, ma anche dalle comunicazioni e dalla contaminazione tra le culture) c’è più guerra che pace? Perché la guerra è il reale e la pace soltanto l’ideale?

Guerra e pace. Sì, un nostro pensiero malcelato va anche al romanzo epico di Tolstoj. Ma non per cercare un’evasione improbabile nel conforto della grande letteratura. Al contrario: perché, dopo Aristotele, sappiamo che la grande letteratura è catarsi, ossia è per sua vocazione pacificatrice delle contese tra gli animi e tra i corpi.

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