1. La posta in gioco

Con l’approssimarsi della primavera elettorale francese crescono le aspettative nei confronti della piattaforma programmatica di François Hollande, candidato socialista all’Eliseo. Il doppio appuntamento presidenziale e legislativo, previsto tra aprile e giugno, rappresenta il possibile tornante verso una nuova fase di protagonismo delle sinistre europee. Le aspettative crescono, dicevamo, perché la vittoria della sinistra in Francia sarebbe un segnale fortissimo per i partiti socialdemocratici e progressisti del continente. Non solo perché la Francia è una delle principali potenze globali. E non soltanto perché, al momento, è con la Germania, la seconda gamba del direttorio informale su cui si reggono gli equilibri politici dell’Unione europea. Ma anche, e soprattutto, perché sarebbe un evento in forte controtendenza rispetto alla storia recente di un paese che, almeno sin dall’avvento di de Gaulle, ha il baricentro politico saldamente ancorato a destra. In cinquantaquattro anni di Quinta Repubblica, la sinistra ha infatti governato solo per 15 anni. E’ stata all’Eliseo solo per 14 anni, coincidenti con l’era Mitterrand, unico presidente socialista. E manca da Matignon da 10 anni, quando si concluse la parentesi della gauche plurielle. Un’asimmetria evidente per quella che passa per essere una democrazia maggioritaria e dell’alternanza. Anche allora, nel 2002, sembrava profilarsi una revanche della sinistra, pronta a riprendere le redini del paese salendo sul gradino più alto delle istituzioni. L’inopinato accesso dell’estrema destra di Jean-Marie Le Pen al secondo turno delle presidenziali disarcionò quello che molti consideravano il presidente in pectore, il premier ministre uscente Lionel Jospin. A fruire di questo imprevisto sconvolgimento del quadro politico fu la destra guidata da uno Jacques Chirac già allora politicamente logoro, che solo per inerzia poteva prevalere nella contesa per l’Eliseo. Sospinto dalla levata di scudi della stampa e dall’indignazione di massa contro lo spauracchio lepenista, Chirac vinse al ballottaggio con una percentuale bulgara (82%). Come gli osservatori della politica francese ricordano bene, fu quella la prima tornata elettorale dopo la riforma che ha ridotto il mandato del presidente francese da 7 a 5 anni e dopo l’altrettanto importante decisione di modificare il calendario elettorale. Per la prima volta si sapeva con certezza che l’elezioni legislative si sarebbero svolte dopo le presidenziali e che ci sarebbe stata sincronia temporale tra il mandato del capo dello Stato e quello dell’Assemblea nazionale, a meno di poco probabili scioglimenti anticipati. Se si considera l’ipoteca del presidente della Repubblica sull’intero assetto istituzionale francese e l’effetto di trascinamento delle elezioni presidenziali sul clima politico, è facile capire come la vittoria di Chirac non potesse che preludere ad una successiva affermazione del centro-destra nelle elezioni di giugno. Così, molto banalmente, accadde. Ripercorrere quei passaggi a un decennio di distanza non serve tanto a ribadire come la storia sia magistra vitae, né a paventare una ripetizione, più o meno farsesca, di eventi passati. Piuttosto serve a spiegare perché François Hollande, nel discorso del 22 gennaio con cui ha aperto la sua campagna presidenziale a Le Bourget, ha detto di essersi candidato “per mettere d’accordo la sinistra con la Francia”. Questo perché l’eventuale elezione di Hollande all’Eliseo, non sarebbe da leggere come una mera affermazione personale. Dovesse farcela, l’ex segretario del Parti socialiste, uomo “della macchina”, da sempre dedito al consolidamento dell’organizzazione partitica e mai premiato da posizioni di governo, metterebbe a segno la classica rivincita dell’outsider. E sarebbe l’innesco di una reazione a catena che oltre ad avere un impatto certo sulle legislative di giugno orienterebbe, con buona probabilità, il clima delle successive scadenze elettorali europee. Ma perché la sinistra possa approfittare dell’effetto traino di cui beneficiò la destra nel 2002, deve evitare di incorrere negli stessi errori che commise nel 2002, quando fu la dispersione del voto gauchiste in molti rivoli, da Chevènement ai trotzkisti, a sbarrare la strada a Jospin. La proposta di Hollande, per quello che si può intravedere nel discorso di Le Bourget e nei “60 engagements pour la France” è dunque “centrata a sinistra” per coagulare il consenso plurale delle diverse famiglie della gauche transalpina. L’impresa riuscì a Mitterrand nell’81, dopo un decennio di lavorìo politico speso a contendere al Parti comuniste français l’egemonia della sinistra. I tempi per il rassemblement hollandiano sono senz’altro più ridotti, ma la crisi potrebbe fungere da potente acceleratore della riaggregazione, soprattutto al cospetto della non troppo temibile concorrenza del Front de Gauche, schieramento guidato dal transfuga socialista Mélenchon in cui si riconosce un Pcf ormai ridotto all’inconsistenza elettorale.

2. Economia, produzione, lavoro

L’analisi della crisi è la chiave di lettura del progetto di Hollande. Nell’imputare le responsabilità dei processi recessivi che investono l’economia globale dal 2008 il candidato socialista assume una posizione tranchant. Nel discorso di Le Bourget l’avversario contro cui combattere ha la sagoma anonima del “mondo della finanza”. “Sotto i nostri occhi”, ha detto il candidato Ps, “in vent’anni la finanza ha preso il controllo dell’economia, della società e anche delle nostre vite. Le banche, salvate dagli Stati, mangiano ormai la mano che le ha nutrite. Le agenzie di rating, criticate giustamente per non essersi accorte della crisi dei subprime, decidono della sorte dei debiti sovrani dei principali paesi, giustificando così dei piani di rigore sempre più dolorosi (…) La finanza si è svincolata da ogni regola, da ogni morale, da ogni controllo”. Di qui l’intenzione, espressa negli engagements, di vietare alle banche francesi qualsiasi operazione speculativa. La constatazione della crisi è una doverosa presa d’atto. La durezza dei tempi consiglia sobrietà e lascia poco spazio a slanci onirici. L’allusione al sogno francese, cui Hollande fa riferimento nel bagno di folla di Le Bourget, si risolve in un richiamo molto prosaico ai valori democrazia e alla difesa della scuola pubblica, della dignità umana, della laicità delle istituzioni e dell’interesse generale, nozione controversa ma irrinunciabile per qualsiasi capo dello Stato. Allo stesso modo, nel discorso di un aspirante all’Eliseo è di prammatica la celebrazione dei miti fondativi del 1789, del 1848, della Terza repubblica, come pure l’omaggio rituale al valore dell’eguaglianza, un “simbolo di condensazione” irrinunciabile per la sinistra, che accomuna illustri esperienze socialiste del passato, da Leon Blum a Jospin, passando per Mitterrand. Nell’evocazione di una Francia del civismo, “in cui ognuno non chiederà che cosa la République può fare per lui, ma che cosa può fare lui per la République”, si avverte anche una buona dose di kennedysmo di maniera. In questo, Hollande paga dazio al pathos elettorale e alla retorica dominante della narrazione. Il tributo al mito politico e all’immaginario è, tuttavia, solo la cornice di un’analisi che individua nella rivalutazione del lavoro, dello Stato e dell’idea stessa di pubblico le precondizioni del rilancio della Francia. Il sostegno alla sanità pubblica, alla scuola e ai pensionati, la battaglia contro la “stigmatizzazione” dei dipendenti pubblici sono priorità che si stagliano nitide nella piattaforma dei socialisti. Hollande costruisce il proprio piano partendo dai bisogni e dalle condizioni materiali dei francesi e non ha timore di incardinare l’analisi della situazione socioeconomica sul concetto di “classe”. La reindustrializzazione attraverso la rivalutazione del lavoro è la chiave di volta del risanamento nazionale. Nel discorso di Le Bourget risalta un modernismo senza post, che si esprime nella denuncia della “chimera di un’economia senza fabbrica e senza macchina, come se l’immateriale potesse rimpiazzare il lavoro dell’operaio, del capomastro, dell’ingegnere e del suo saper fare. La reindustrializzazione della Francia sarà la mia priorità”. La prospettiva socialista è quella di riconfigurare un profondo radicamento in quella che un tempo si chiamava classe gardée. “Non lascerò gli operai e gli impiegati”, ha proclamato Hollande, “andare verso una famiglia politica che non ha mai fatto niente per servire gli interessi della loro classe”. Oltre a confermare la vocazione nazionale all’agricoltura, tenendo fede sia alla tradizione che vede la Francia primeggiare nella gestione del Pac, sia al proprio retroterra personale (Hollande viene dal dipartimento rurale della Corrèze, lo stesso di Chirac) il candidato socialista mette dunque in risalto il bisogno di reindustrializzare il paese per ridurre l’impatto delle importazioni sulla bilancia commerciale e arginare la disoccupazione. Vanno in questa direzione sia la misura che riguardano l’obbligo, per le imprese che delocalizzano, di rimborsare le sovvenzioni ricevute dallo Stato, sia l’impegno a favorire un accordo europeo per l’adozione di una politica commerciale anti dumping. Se il progetto socialista non preconizza la decrescita, non esprime nemmeno un’opzione per il produttivismo sfrenato. Tra i punti programmatici di Hollande c’è l’iniziativa di contribuire all’istituzione di un’Organizzazione mondiale dell’ambiente e la prospettiva di condurre la Francia, di qui al 2025, ad una valorizzazione di energie alternative che riduca dal 75 al 50% il contributo del nucleare nella produzione del fabbisogno elettrico nazionale. Contribuire ad un ragionevole rilancio della produzione implica, inoltre, l’intervento della mano visibile dello Stato nella regolazione del ciclo economico. A questo scopo Hollande vuole operare attraverso la creazione di una Banca pubblica di investimento e coinvolgendo le regioni nella gestione delle imprese strategiche a livello locale. Sulla rinnovata funzione arbitrale dello Stato si fonda anche il rilancio della concertazione, che partirebbe dalla convocazione, già nell’estate 2012, di una grande conferenza economica e sociale a cui partecipino sindacati e associazioni imprenditoriali In un paese che è già ai vertici europei per investimenti nella ricerca e deposito di brevetti, dare propulsione alla crescita significa, poi, incoraggiare l’immissione delle nuove generazioni nel mondo del lavoro. Il candidato del Ps intende farlo in due modi: attraverso la creazione di 150mila emplois d’avenir e l’istituzione di un “contratto di generazione”. La prima misura è finalizzata a facilitare l’assunzione di giovani sostenendo l’attività delle associazioni che operano nei quartieri popolari e nelle periferie suburbane. L’altra mira alla creazione di posti di lavoro a tempo indeterminato che prevedano, nella prima fase, azioni di accompagnamento e tutoraggio garantite dall’affiancamento ai nuovi assunti di lavoratori esperti, prossimi all’età pensionabile.

3. Stato sociale, diritti, istituzioni

Naturalmente non ci può essere aumento di produzione senza sostegno alla domanda interna. Echi di keynesismo si avvertono nell’enfasi posta dal progetto socialista sul rilancio dei consumi e la rivalutazione del potere d’acquisto attraverso una modulazione progressiva, in base al reddito, delle tariffe di gas, acqua ed elettricità. Di fronte alla doxa neoliberista che impone di liberalizzare e privatizzare i servizi pubblici per renderli più efficienti, Hollande insiste sull’importanza di preservare lo statuto pubblico delle imprese partecipate dallo Stato, come l’Electricité de France, le ferrovie e le poste. E nel farlo segnala l’urgenza di una direttiva europea sulla protezione dei servizi pubblici. La difesa del pubblico è, anche in questo caso, un valore non negoziabile. Oltre a riaprire al turnover del pubblico impiego, bloccato negli ultimi anni di governo della destra, Hollande individua nella scuola e nella sanità due fronti strategici. Uno degli impegni più ambiziosi riguarda il piano per 60mila assunzioni nel settore scolastico, tra insegnanti, effettivi del personale ausiliario, assistenti sociali e addetti al sostegno. Quanto alla sanità pubblica, Hollande è convinto dell’esigenza di differenziare il sistema di tariffazione degli ospedali pubblici da quello delle cliniche private, nella convinzione che l’ospedale sia “un servizio pubblico, non un’azienda”. L’applicazione alla sanità della metafora dell’azienda, entrata nel senso comune dell’occidente neo-liberista, trova qui un limite invalicabile. È bene chiarire che le prese di posizione sull’intervento statale in economia e sulla necessaria difesa di alcuni servizi pubblici non mercificabili non apre a nessuna fuga in avanti verso la messa in discussione del modello capitalistico. Lo spirito del tempo monetarista affiora anche nel programma di Hollande, in cui viene rimarcato il dovere di rientrare nei parametri di Maastricht contenendo il deficit e arginando il debito pubblico, esploso nel decennio al governo della destra. Il rispetto dei vincoli budgetari è però solo un obiettivo congiunturale che nulla ha a che vedere con il proposito sarkozyano di costituzionalizzare il pareggio di bilancio stabilendo la cosiddetta règle d’or. Nelle parole di Hollande, peraltro, il richiamo all’equità compensa qualsiasi indebita pulsione al rigorismo, che già negli anni ’80 fu fatale all’esperienza neofrontista del primo settennato mitterrandiano. Quello intitolato “Ristabilire la giustizia”, intesa come giustizia sociale, è infatti un altro cruciale capitolo degli impegni hollandiani. “E’ per la giustizia”, ha detto Hollande a Le Bourget, “che voglio che i redditi del capitale siano tassati come quelli del lavoro”. La riforma prospettata dal candidato socialista riguarda una più equa ripartizione del carico fiscale. Innanzitutto elevando la tassazione su tutte le attività finanziarie (“Chi può trovare normale, che si guadagni di più dormendo che lavorando ?”) e intensificando la lotta all’evasione fiscale, che è più bassa che in Italia, ma ammonta comunque a circa 50 miliardi di euro, pari a tre punti di pil. In secondo luogo, adottando provvedimenti come l’innalzamento al 45% dell’aliquota sui redditi al di sopra dei 150mila euro annui, il taglio alle detrazioni fiscali per importi superiori ai 10mila euro annui, la revisione del quoziente familiare per il 5% più ricco delle famiglie. Infino, rivedendo le imposte sul patrimonio e sulla successione, alleggerite negli ultimi anni da Sarkozy. La difesa del modello francese di welfare state è un’altra tessera del mosaico socialista, e costituisce una risposta implicita alla volontà palesato da Sarkozy di combattere “l’assistanat”, termine peggiorativo che nel lessico della politica francese equivale all’italiano “assistenzialismo”. Sulle pensioni, la visione di Hollande è in totale controtendenza rispetto agli orientamenti di molti governi europei in questa fase recessiva. I socialisti intendono riportare l’età pensionabile a 60 anni di età e 41 anni di contributi, facendo marcia indietro rispetto alla riforma varata da Sarkozy, che da qui al 2018 prevede un passaggio graduale ai 62 anni con un sistema di incentivi e disincentivi che permette di lavorare fino ai 67. Per dare una risposta alla questione abitativa, Hollande intende bloccare il costo degli affitti più onerosi e di costruire più case popolari senza creare nuovi ghetti sociali. Ciò mettendo a disposizione degli enti locali dei terreni demaniali che dovranno essere utilizzati per la costruzione di unità abitative da distribuire ai cittadini secondo il principio della “mixité sociale”: un terzo assegnati secondo graduatorie, un terzo a canone ridotto, un terzo vendibili o affittabili a prezzi di mercato.

4. Elezioni e culture politiche in Francia

L’attenzione per i diritti sociali è dunque al centro del progetto che Hollande incarna nella contesa per l’Eliseo. Inoltre, il retaggio della Terza repubblica laica e radicale affiora negli accenni al tema dei diritti civili, prima fra tutti la proposta di garantire agli omosessuali il diritto al matrimonio e all’adozione. La sezione dei 60 engagements intitolata “Una repubblica esemplare e una Francia che faccia sentire la sua voce”, si apre con l’impegno ad inserire nella costituzione un rimando alla legge del 1905 sulla separazione fra Stato e Chiesa. Se è vero che qualsiasi elaborazione programmatica contiene elementi di tatticismo e che gli estensori di un’agenda di policy non possono esimersi dal tentativo di invadere il territorio di caccia altrui, in questo caso l’insistenza sulla costituzionalizzazione della laicità delle istituzioni ha un bersaglio insospettabile: il Front National. Di recente proprio Marine Le Pen ha insistito molto su un necessario rafforzamento della neutralità statuale nei confronti delle confessioni religiose, riferendosi soprattutto al pericolo rappresentato dalla nazionalizzazione dell’Islam. Impedire al Fronte nazionale di appropriarsi del tema, enfatizzando una lettura tradizionalmente républicaine dell’equidistanza dello Stato nei confronti dei culti, è tanto più utile nel momento in cui i socialisti propongono l’ampliamento dei diritti politici degli immigrati tramite la concessione del voto amministrativo ai residenti in Francia da almeno cinque anni. D’altra parte i socialisti sanno che dalla vitalità della destra radicale può dipendere la perdita di consensi della destra oggi al governo. La proposta hollandiana di introdurre una “parte di proporzionale” nella legge elettorale può restituire al Fn velleità di capitalizzare i propri consensi potenziali. Benché in passato alcuni studi di sociologia elettorale (i lavori di Nonna Mayer) e indagini di opinione (Sofres) abbiano enfatizzato l’idea che la forza del Front National si basasse principalmente sulla conquista del voto operaio, è parso evidente già nella doppia tornata elettorale del 2007 come l’Ump di Sarkozy abbia sfondato soprattutto nelle aree periferiche che costituiscono il tradizionale serbatoio del voto conservatore e poujadista. L’attuale sistema elettorale delle legislative, infatti, è fortemente disrappresentativo e scoraggia il voto per le forze minoritarie. Quando lo scontro si polarizza a beneficiarne sono i grandi partiti e quindi, a destra, l’Ump ha gioco facile nell’assorbire l’elettorato nazional-frontista. L’accenno ad una modifica, seppure parziale, del doppio turno alla francese, può essere allora letto alla luce di una duplice finalità. Da una parte destabilizzare la destra, come provò già a fare Mitterrand nell’86 quando introdusse una proporzionale integrale permettendo al Fn di entrare a Palazzo Borbone senza però evitare la vittoria della coalizione Rpr-Udf. Dall’altra tranquillizzare le formazioni alla sua sinistra, quali i Verdi e il Front de gauche. La questione dei rapporti con le altre formazioni della sinistra è, vista l’incombenza delle legislative di giugno, un nodo molto delicato. Anche perché lo spirito di aperta competizione inscritto nella logica delle elezioni presidenziali, specie al primo turno, stride con qualsiasi negoziazione preventiva di intesa. Ma proprio perché il primo obiettivo della sinistra deve essere evitare la frammentazione suicida del 2002, Hollande non ha potuto fare a meno di recepire alcune istanze tipiche della deuxième gauche antigiacobina e solidarista. Pur senza riproporre l’adozione di dispositivi di democrazia deliberativa, come le giurie popolari prospettate cinque anni fa da Ségolène Royale, il progetto socialista prevede infatti un forte impegno per il decentramento amministrativo, attraverso una legge per il rafforzamento “della democrazia e delle libertà locali” e un “patto di fiducia e solidarietà” tra Stato e collettività locali che si declina in una maggiore autonomia nell’imposizione fiscale e nella gestione diretta dei tributi. In altre parole è quello che in Italia chiamiamo federalismo fiscale. La concorrenza del discorso anticasta di Jean-Luc Mélenchon, fautore di una révolution citoyenne e di un ricambio radicale all’interno della classe politica, sembra invece influire sui punti programmatici riservati all’etica pubblica: riformare lo statuto penale del presidente della repubblica, tagliare i costi della politica, impedire la candidatura per almeno 10 anni a condannati per corruzione, favorire la presenza femminile nelle liste elettorali, vietare il cumulo dei mandati, aumentare i poteri di iniziativa e di controllo del Parlamento sulle nomine degli alti dirigenti statali. La ristrutturazione dell’immagine dello Stato, nelle intenzioni di Hollande, si realizza anche affidando ad un’autorità indipendente, e non più al capo dello Stato, la nomina dei dirigenti dell’emittenza pubblica radiotelevisiva. La sfida ingaggiata dai socialisti per scongiurare la rielezione di Sarkozy coincide, nel complesso, con l’impegno per la formulazione di una proposta politica credibile in grado di incarnare, a livello europeo, l’ambizione progressista a uscire dalla crisi riaffermando il primato del “governo degli uomini” contro “l’amministrazione delle cose” e l’etero-direzione della tecnocrazia. Se Hollande ci riesce in Francia, la sinistra può riuscirci in Europa.

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