Signor Presidente, colleghe e colleghi, è con profonda commozione – e lo sentirete dal tono della mia voce – che cerco di trovare le parole adeguate a ricordare la figura, la persona, di Pietro Ingrao.

Non ripercorrerò le vicende contrastate della sua vita politica. Le impegnate parole del presidente Grasso hanno già assolto a questo compito. Voglio illuminare con dei lampi l’uomo Ingrao, l’essenza umana del politico Ingrao: e cerco di farlo più con le sue parole che con le mie. Quelle parole soprattutto dell’ultima fase della sua vita, che ha fatto in tempo a occupare un intero secolo. La morte, l’ultimo nemico, come recitano le Scritture ha faticato ad abbattere le vecchia quercia.

Eravamo così abituati a sentirlo e a farci sentire, a saperlo presente dietro di noi, che questo silenzio, adesso, ci peserà. Ma proprio sul silenzio aveva detto, appena qualche anno fa, delle parole intense: «Il silenzio», diceva, «non è un nulla, una assenza. È un pensare interiormente… taci, ma compi l’atto del tacere. Essere silenzioso è un agire… e la poesia, per me, è come una lettura del silenzio».

E silenzioso era stato in questi suoi ultimi anni, naturalmente appartato, dopo una vita in cui – usando una frase celebre – la lotta era stato il suo elemento. Ma sempre curioso di tutto e di tutti. Il suo conversare era un continuo interrogare. Che fai, che dici, che pensi?

Diceva ancora di sé: «Non sono mai stato uomo della regola. Mi piacevano troppe e disparate cose della vita e, con gli anni, questa disposizione si è acuita. Perciò», ecco una frase che lo definisce quasi per intero, «siate gentili con la mia vecchiaia».

Quando, il 30 marzo scorso, abbiamo celebrato i suoi cento anni, solennemente alla Camera dei Deputati, alla presenza del presidente Mattarella e del presidente Napolitano, Camera dei Deputati di cui, come è stato ricordato, era stato presidente negli anni drammatici 1976-79, si era pensato allora di intitolare la giornata: «Pietro Ingrao ovvero la nobiltà della politica».

Poi, è sembrato che ci fosse in quell’espressione un’enfasi eccessiva, che magari lui non avrebbe gradito; ma oggi possiamo affermare che questo è il tema a cui ci richiama la scomparsa di quest’uomo. Bisogna trasmettere, soprattutto alle giovani generazioni, l’esempio di chi ha vissuto la politica in modo alto, come scelta di vita, dedicata a una causa.

Ingrao è stato un politico di professione; ha vissuto per la politica, non di politica; una professione, in senso weberiano, come Beruf, cioè anche vocazione.

Ancora parole sue: «La politica nella mia vita è una passione tenace. Ancora oggi, in età così avanzata – è una conversazione del 2011 – non è spenta. Esito a spiegarla con una motivazione morale. Non la vivo come un dover essere, anzi, sono scosso da passioni vitali, direi dalla corporeità della vita».

Gettato letteralmente nella politica – come ci ha raccontato più volte – dalla grande storia (fine degli anni Quaranta) in mezzo a quel grande tragico secolo che è stato il Novecento, il Fascismo alla fine, la Guerra, la Resistenza, il Dopoguerra, l’irruzione attraverso la Repubblica e attraverso la Costituzione, delle masse nello Stato, secondo una sua celebre definizione: «Masse e potere» è il titolo di un suo noto libro. Può sorprendere quel passo citato sopra: la passione politica che non si spiega con una motivazione morale, ma è argomentata in modo profondo e per me molto convincente. Diceva: «Mi pesa la sofferenza altrui. Ma non è un sentimento altruistico. Sono io che sto male, che vivo come insopportabili le condizioni di vita degli oppressi e degli sfruttati… La politica, quindi, è un agire per me non per gli altri». E allora diciamo noi oggi: siamo noi che stiamo male, quando vediamo uomini, donne e bambini che faticosamente camminano – un cammino della speranza – sulla rotaie dove in genere corrono i treni, per sfuggire alla guerra e alla miseria. Sono io che sto male quando mi chiedo: sono anche io responsabile di questa condizione del mondo? E che cosa posso fare per rimediare? È qui che scatta, deve scattare la motivazione alla politica.

Si è sempre dipinto Ingrao come un visionario. Si è insistito sul «Volevo la luna», del suo libro di memorie; ma diceva di sé: «Diversamente da come spesso sono descritto, non sono un utopista visionario. La politica mi ha interessato nel suo fare. Mi accade ancora oggi – anche qui, 2011 – di prestare un’attenzione, perfino eccessiva, ai suoi passaggi tattici». Ebbene, anche questa è la politica nella sua ardua complessità. Del resto, di questi passaggi ne ha sbagliato qualcuno e lo ha onestamente e coraggiosamente riconosciuto. Diceva un’altra cosa: «Per me politica è: io e altri insieme, per influire, fosse pure per un grammo, sulle vicende umane. Fuori di questo agire collettivo non saprei fare politica».

Accanto al visionario, si è insistito sull’eretico. Ora, Presidente e cari colleghi, io sono solito fare una distinzione tra l’eretico e l’eterodosso, o il non ortodosso.

L’eretico è quello che rompe ed esce dal proprio campo, dalla Chiesa; il non ortodosso è quello che combatte, con la critica, l’ortodossia, rimanendo nel proprio campo, nella Chiesa. Ingrao è questo secondo tipo di uomo, in cui anche io mi riconosco. Non ha mai fatto atto di pentimento dall’essere stato comunista. È stato sì critico, è stato in dissenso – ricordo la famosa frase: «non sarei sincero se vi dicessi che mi avete convinto…» – ma non ha mai ripudiato la scelta di vita che ha fatto una volta per tutte e per sempre. Fu senz’altro un uomo del dubbio, tanto che proprio «II dubbio dei vincitori» si intitola un suo libro di poesie. In realtà egli era anche uomo di certezze. Io credo profondamente che può dubitare, ha il diritto di dubitare, solo chi crede, chi crede in qualcosa, chi ha – chiamiamola con il suo nome – una fede. Viviamo in un tempo in cui per essere moderni, o peggio, post-moderni, non bisogna credere più a niente: è l’età dello scetticismo assoluto e del relativismo rampante. Ma come ha detto quel nichilista che era Cioran, chi non crede a niente finisce per credere a tutto, a tutto quello che gli viene raccontato.

Da come l’ho conosciuto, devo dire che Ingrao ha vissuto con la stessa passione – una passione, appunto, politica – sia la speranza che la sconfitta del comunismo, con un orgoglio non domato. «Indignarsi non basta», ha detto rispondendo all’«Indignatevi!» di Stéphane Hessel. Dice uno dei suoi versi: «Leva in alto la sconfitta», da leggere così: dai un pensiero alto alla sconfitta e non farti abbassare da essa, ritenta, con la lotta, altri possibili passaggi, cammina sui vecchi sentieri senza lasciarti sfuggire nulla di ciò che è nuovo. Questo è il messaggio che Pietro ci lascia e spero – lasciatemi dire però che un po’ anche dispero – che venga raccolto.

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