La recente produzione sull’Europa è prevalentemente concentrata sulla fase costituzionale, vero e proprio Hic Rhodus del processo di costruzione dell’Europa unita. È, infatti, intorno alla costituzione che viene al pettine il nodo della sovranità nazionale che ha finora rappresentato, al tempo stesso, il modello di riferimento e lo scoglio insuperabile dell’unificazione europea.

Nella costituzionalizzazione dell’Unione europea entra in gioco non solo l’omogeneità economico-amministrativa e gli standard nei diritti, ma la scommessa di un’identità altrettanto forte di quella nazionale. Di questa aporia fertilissima si occupano due libri tanto recenti quanto anti-cipatori della crisi attuale del processo costituzionale europeo: Il suicidio dell’Europa di Pietro Barcellona e Europa e mondo di Pasquale Serra . Si tratta di due testi animati da una passione concorde circa la questione europea, ma che delineano due percorsi diversi. Almeno a parere di chi scrive.
Nelle pagine che seguono, si tenterà, pertanto, di individuare le linee essenziali di tali percorsi, e lo si farà attraverso una lettura in contrappunto, o in falsetto rispetto al piano enunciativo esplicito dei due autori.

Fichte, ovvero il suicidio dell’Europa

È buona abitudine che i libri si comincino a leggere dal titolo. Il libro di Pietro Barcellona si intitola Il suicidio dell’Europa. Cosa significa? Certamente si tratta di un titolo con una valenza polemica: nel nostro tempo, in cui molti dicono che l’Europa si costruisce, anzi si costituisce, quando molti la invocano come forza buona e ne auspicano un ruolo importante nella vita del mondo attuale, questo titolo, invece, rimanda ad una negatività, alla scomparsa dell’Europa, e lo fa in maniera forte. Non dice, infatti, la scomparsa dell’Europa, o il crollo, ma il suicidio. Il suicidio, si sa, è un gesto intenzionale, per quanto causato da un quadro ambientale di disagio, se non chiaramente patologico, pur tuttavia esso è una risposta voluta, spesso minutamente programmata. Tanto che, ad ulteriore conferma del suo carattere di azione imputabile, è considerato un reato da molti ordinamenti giuridici. Allora cosa può significare qui il suicidio dell’Europa? Confesso che il titolo mi ha colpito, sebbene mi siano familiari le formule originali e, spesso, provocatorie dell’autore, e mi ha colpito, proprio perché cercavo di capire dove fosse l’intenzione dell’Europa di autoeliminarsi, dato che qualcuno, i cosiddetti euroscettici, dicono, addirittura, che l’Europa non esiste, o meglio che costruirla è un male.

Dunque, come spesso accade per le espressioni filosofiche, anche per comprendere la nozione di suicidio dell’Europa, bisogna partire dal genitivo di specificazione dell’Europa, ponendo la solita interrogazione se esso vada inteso come genitivo soggettivo od oggettivo. E bisogna tenere presente che, in questo caso, il problema si pone non già sul piano grammaticale, bensì sul piano ontologico. Ora, poiché l’azione del suicidio è un’azione intransitiva, credo di poter escludere che quel genitivo possa essere interpretato in senso oggettivo. L’Europa, cioè, non può essere oggetto dell’azione di qualcun altro. Ma, se il genitivo dell’Europa è un genitivo soggettivo, vale a dire un genitivo che specifica quale sia il soggetto dell’azione, il problema che l’espressione il suicidio dell’Europa pone è ben diverso e si può sintetizzare nel seguente interrogativo: l’Europa è un soggetto imputabile, dico esattamente in termini giuridici, è un soggetto unitario dotato di una volontà determinata ed inten-zionale?

Il bello del dibattito sull’Europa è proprio questo: tutti ne parlano come di un’entità, ma nessuno è in grado di definirla; e, aggiungo, è perfino giusto che sia così. La strategia attuale per comprendere cosa sia Europa, infatti, non consiste nell’analizzare il discorso sull’Europa al fine di scoprire che, appunto, qualcosa come l’Europa non esiste, oppure che il discorso che la riguarda è incoerente, giacché esistono tante nozioni dell’Europa fra loro incomparabili e, per di più, prescrittive (che dicono cioè cosa l’Europa dovrebbe essere), e non descrittive-diagnostiche (che dicono cosa essa sia). È chiaro che, se la strategia fosse questa, raggiungere un accordo risulterebbe impossibile.

Il nodo centrale, però, non è questo. Il punto, infatti, è proprio che l’Europa c’è, che esiste un senso dell’unità geografica, culturale, di civiltà e di storia che permette di individuarla come soggetto di azioni e oggetto di un discorso che la riguarda. Ciò che resta da chiarire, semmai, è come tale unità si defini-sca, quale sia il suo senso e quale la sua origine. Su questa questione mi sfor-zerò di fornire alcune indicazioni più avanti.

Per il momento, mi limiterò alla seguente riflessione, peraltro, molto importante: se ammettiamo che, in un certo senso, l’Europa esiste, allora dobbiamo cominciare con il dire che il titolo del libro è pienamente legittimo, perché la formula in esso contenuta (il suicidio dell’Europa) stabilisce un pia-no di referenza ad un oggetto effettivamente esistente e prende posizione nel dibattito che lo riguarda. Detto questo, possiamo passare a questioni più specifiche, come per esempio, chiederci cosa sia l’Europa per Barcellona, e in cosa consista il suicidio di essa.

Per Barcellona, che si richiama ai luoghi classici della storia della civiltà europea, l’Europa è quell’identità geografico-culturale che nasce nell’antica Grecia e, nel corso dei secoli dall’antichità all’età moderna, si allarga lungo le sponde del Mediterraneo, facendone il suo centro. Essa è fondata sul ricono-scimento della socialità dell’essenza umana e sulla costitutiva relazionalità dell’identità del singolo individuo e della vita delle comunità. Una relazionalità che, sicuramente, ha un carattere politico e si basa, cioè, sul conflitto, ma su un conflitto inteso nel senso agonale sviluppato dai greci dell’età arcaico-classica. Si tratta, dunque, di una relazionalità che riconosce la pluralità delle culture e stabilisce un rapporto con la natura tale per cui l’essere umano pone delle norme (nomoi) da sé, per i propri bisogni, si autofonda, ma senza obliare la propria finitezza e la propria insecuritas originaria. Dice Barcellona: «Come ha scritto Castoriadis nel seminario del 10 novembre del 1982 sull’eredità della Grecia, tre sono le grandi opposizioni istituite dai Greci: fra l’essere e l’apparire, fra la Verità e l’opinione, fra la natura e la legge.

«Ma a mio avviso queste opposizioni che strutturano la vita della polis e la cultura greca implicano come significato profondo la separazione dell’individuo dal mondo/cosmo. Senza questa separazione non sarebbe pensabile né la libertà, né la storia umana come storia delle forme di vita, non sarebbe pen-sabile la distinzione fra sacro e profano, fra morale e diritto, tra finito e infinito; in altre parole, non sarebbero pensabili tutte le coppie oppositive che strutturano l’esperienza dell’uomo europeo come espressiva in ultima istanza di un’implacabile angoscia di morte. In che forma e a quali condizioni si deter-mini questa lacerazione fra io e mondo, questa angoscia e il desiderio di sedar-la ritrovando la perduta «armonia», è il tema della nostra avventura mentale» .

Questa eredità che, inoltre, comprende l’origine pratica dei saperi (e della stessa filosofia), l’origine artificiale ed umana della legge e il carattere politico della società (ovvero la sua natura di scambio continuo come risposta al vuoto antropologico che caratterizza l’uomo) sarebbe il fondamento anche di un’altra caratteristica essenziale dell’Europa: la democrazia. Ma, dice Barcellona, ad un certo punto della storia, che, accogliendo l’artificio nella sua origine, deve comprendere necessariamente le tecniche, l’origine collettiva dell’autofondazione sociale della natura umana è stata obliata per una strana follia faustiana di autocreazione del soggetto, che si arroga il diritto e la po-tenza di porre da se stesso il mondo. Il momento di questa deriva è la modernità e, per usare una sua espressione, il suo matrimonio con la tecnica: «La tecnica – dice Barcellona – sembra aver compiuto il miracolo di saldare definitivamente lo scarto fra io e mondo, fra natura e cultura, eliminando la stessa possibilità di esperire la distinzione fra queste due dimensioni: non ci sono più residui, né zone d’ombra, né rimandi ad un oltre ciò che vediamo e sentiamo. Non solo il mondo coincide con se stesso, ma anche il reale e il virtuale, la mente e il cervello, il pensiero e la chimica neuronale. Per questo il singolo è tutto, autarchico e autoreferenziale, perché micro-cosmo e macro-cosmo coincidono perfettamente» .

Ora, parallelamente a tale processo, si verifica anche lo spostamento dell’asse geografico della civiltà europea dal Mediterraneo al Nord del continente europeo. La nascita del capitalismo instaura una nuova dialettica storica dominata dallo scontro fra le potenze continentali e il mondo angloamericano, il cui momento destinale a livello filosofico è l’Io creatore del non-io di Fichte . Questo momento del pensiero che è anche un luogo dell’Europa (come non pensare anche ai Discorsi alla nazione tedesca e al loro significato strategico nella formazione di quel discorso sulla Germania e i tedeschi che in un per-corso tortuoso ed ambiguo porterà al nazismo?) diviene l’emblema del destino faustiano della modernità che si rovescia in dominio soggettivistico e perciò distruttivo della società e della natura.

Discenderebbero di qui tutte le aporie tragiche della modernità, dall’astrazione dei rapporti sociali all’annientamento tecnico della natura. In particola-re, il confronto con quest’ultimo problema caratterizza molte pagine del libro e si apre su questioni etico-antropologiche, ma anche su questioni epistemologiche, teoretiche e teologiche. Ciò che permette tale sintesi è la focalizzazione dell’analisi intorno ad un centro critico: lo studio della modernità a partire dal nesso secolarizzazione-tecnica. L’individuazione di tale nesso fondamentale per chiarire il processo del moderno, permette di soffermarsi meglio su due punti determinanti nel percorso complessivo della riflessione dell’autore: il primo riguarda il rapporto fra modernità e nichilismo e si svolge attraverso un confronto serrato con il pensiero di Emanuele Severino. Il secondo si sofferma sulle attuali incursioni della tecnoscienza nel ciclo biologico (clonazione, selezione e controllo biologico delle colture agricole, ecc.), che l’autore raccoglie sotto il nome di biopolitica, collegandolo al più ampio fenomeno delle tecnologie sociali di controllo sui corpi umani. Su quest’ultimo punto, si po-trebbero svolgere diverse distinzioni fra la definizione della biopolitica come reductio biologistica e neodarwiniana dell’antropologia sociale dominante e l’originario significato del termine nell’opera di Foucault. Ma ciò che mi sembra più interessante è proprio la connessione fra l’analisi del nichilismo come destino dell’Occidente e la questione epocale posta dalla tecnoscienza in quanto incursione nella sfera del vivente.

In questo senso, è la prima direzione di indagine a costituire la base teoreti-ca dell’intero testo. Infatti, il punto centrale del confronto con Severino riguarda il nesso fra modernità e Occidente. Severino sembra dire che il nichil-smo sia il destino dell’Occidente già molto prima che la modernità nascesse, con la sua natura globalmente tecnica, e affronta il problema a partire dall’illusione originaria che ha spinto il pensiero greco a conferire realtà ontologica al divenire. Barcellona, invece, sostiene che la svolta verso il nichili-smo, ovvero verso il suicidio dell’Europa, erede del pensiero e dell’atteg-giamento fondamentale dei greci rispetto al mondo, avviene durante la mo-dernità ed è simboleggiata da Fichte, che ritiene addirittura la coscienza crea-trice del mondo reale e non la semplice istanza rappresentativa di esso. Bene, in questa contrapposizione è in gioco molto di più di una pura questione di periodizzazione del nichilismo: è in gioco la concezione della natura stessa del fenomeno nei due autori. L’originale riferimento a Fichte, infatti, struttura l’intera analisi della modernità come processo di soggettivizzazione della ragione, del mondo e della storia. Hegel e perfino Marx vengono rivisti attraver-so questa prospettiva. Il moderno, dice Barcellona, nasce dall’urgenza di ri-spondere alla lacerazione fra uomo e mondo posta dalla fine della garanzia trascendente dell’essere storico caratteristica del Medioevo. In tal senso, «il postulato che accomuna l’intero discorso filosofico moderno è la coincidenza della congiuntura storica con il manifestarsi pieno dell’Assoluto» . Un’esigenza di conciliazione che si articola successivamente in tre momenti:

«1. La riconciliazione assoluta tra uomo e mondo, tra uomo e natura. Il mondo diventa il mondo storico. La natura è oggetto dell’attività trasformatrice dell’uomo, è umanizzata, è inclusa nel movimento del logos. Storia e natu-ra cessano di contrapporsi. La natura è per Marx, come per Hegel, soltanto la condizione preliminare, subordinata di un’attività storica dell’uomo. […]

«2. […] si afferma la coincidenza fra reale e razionale, il reale è prodotto dalla ragione, è il mondo storico che l’uomo crea attraverso le sue azioni in-tenzionali, attraverso il perseguimento dei suoi scopi.

«3. Su questa base si attua la coincidenza di esistenza ed essenza, di finito e infinito. Essa si realizza nel processo circolare in cui si iscrivono ormai soggettività e oggettività come universale movimento del soggetto che produce l’oggetto, che si oggettivizza e ritorna a sé arricchito dalle determinazioni che ha prodotto.

«Questa conciliazione è la conseguenza della istituzione di un punto di vista assoluto, della totalizzazione delle determinazioni possibili. Il moderno porta alle estreme conseguenze la decisione ontologica ereditata, la coincidenza tra pensiero ed essere. Questa coincidenza si struttura nel punto di vista del soggetto, nel suo agire razionale, nella sua costruzione del mondo, nella co-struzione soggettiva del reale» .

Tale processo comporta la soggettivizzazione della ragione e l’immanen-tizzazione del criterio normativo del sociale e include così anche Marx nella linea del razionalismo assoluto. Il rovesciamento marxiano della dialettica he-geliana che mette la prassi al posto dell’autocoscienza, secondo Barcellona lascia aperto un interrogativo da cui nasce poi lo scacco del progetto marxino. Infatti, di fronte all’immanentizzazione dell’intero processo sociale, si chiede Barcellona: «chi è il garante del processo della prassi che determina l’autoproduzione e l’auto-trasformazione dell’uomo»?

In assenza della hegeliana ragione assoluta come autosvolgimento dello Spirito, è chiaro che tale legittimazione può derivare solo dall’effettività del processo stesso di produzione. Ma con ciò la stessa dialettica di soggetto e oggetto risulta schiacciata dalla mera fatticità, il vero e il fatto, vichianamente, convertuntur…

In Marx «la razionalità si identifica con i “meccanismi” che presiedono alla produzione e riproduzione delle condizioni dell’esistenza umana. Ciò porta inevitabilmente alla riduzione della razionalità alla ragione soggettiva come organizzazione di mezzi in vista di uno scopo, e del reale all’essere determi-nato secondo connessioni causali/comprensibili. Ogni discontinuità viene ricondotta ad una unità sottostante.

«Marx appartiene dunque al razionalismo assoluto e porta il segno della ragione soggettiva e del principio individualistico che è alla base del moderno, come ha sottolineato Louis Dumont (Homo aequalis)» .

Per questo motivo, non c’è stato né il compimento hegeliano della storia, né la rivoluzione sociale marxiana, ma oggi ci sembra di assistere al trionfo del capitale come autonomizzazione sistemica della produzione per la produzione. La conversione costitutiva dell’oggetto in soggetto si è trasformata nella «producibilità di tutto e ha trasformato anche il soggetto in oggetto producibile e prodotto. Perciò non c’è più un soggetto, il soggetto, ma tanti quanti se ne possono produrre, e questi non sono qualitativamente altri rispetto agli oggetti, ma soggetti-oggetti predisposti per certe operazioni nei confronti di oggetti-soggetti e cioè di prodotti capaci a loro volta di funzionare al posto e nel mo-do da essi richiesti» .

Nell’ipotesi di Barcellona, il tentativo moderno di conciliare la frattura fra io e mondo a partire dall’onnipotenza del soggetto si traduce in un processo senza soggetto che ha distrutto il senso stesso dello scarto irriducibile fra uo-mo e mondo nel quale è nata l’Europa.

In questo senso, possiamo dire che in Barcellona, a differenza di Severino, c’è lo sforzo di salvare, insieme al divenire, l’uomo stesso, che pure è responsabile della deriva nichilistica (sarà forse questo il significato profondo del suicidio dell’Europa? Sarà perché il nichilismo dipende dalla responsabilità dell’uomo che l’Europa è andata incontro al suicidio? Il punto è certamente da approfondire, anche perché può dare delle sorprese…); in Severino, invece, l’uomo resta del tutto messo da parte, come in ogni filosofia epocale basata sull’analisi ontologica.

È qui che si innesta il tema della tecnoscienza. Infatti, il rapporto fra Euro-pa e nichilismo rimanda a due questioni molto importanti. Da un lato, è in gioco il problema di salvare le differenze, per parafrasare il celebre motto anti-parmenideo di Anassagora («salvare i fenomeni», problema peraltro pienamente coinvolto in questo ambito). Salvare il divenire, infatti, significa salvare l’uomo; e salvare l’uomo significa salvare il mondo dei fenomeni, ovvero salvare il mondo tout-court. Dall’altro, è in gioco il problema della natura stessa della tecnica.

Da questo punto di vista, mi sembrano molto interessanti le considerazioni di Franco Volpi in un recente libro sul nichilismo. Relativamente al problema delle differenze in Severino, Volpi dice: «Rimangono […] aperti molti problemi, specialmente […] la difficoltà di mediare tra il tutto dell’essere e i con-tenuti dell’apparire, tra l’essere e gli enti, tra la coscienza infinita e quella finita, tra il pensiero e l’esperienza, tra la logica e la fenomenologia. È questo un interrogativo fondamentale con cui tutte le forme di pensiero dell’Assoluto hanno da sempre dovuto fare i conti, ma che in Severino si presenta in termini particolarmente evidenti, dal momento che il “punto di vista” dell’Assoluto è in lui riconosciuto e definito unicamente in forza del principio di non contrad-dizione assunto nella sua valenza ontologica. Ciò rappresenta un problema perché – come Aristotele ha mostrato – proprio l’assunzione del principio di non contraddizione nella sua portata ontologica impone di riconoscere le determinazioni molteplici e diverse dell’essere (che in effetti Severino ammette come eterne). Ci si chiede allora: come è possibile dire il diverso senza negare, cioè senza dire “questo non è quello” o “quello non è questo”? Ovvero senza dire che un “quello”, che è ente, non è un “questo”, che è anch’esso ente? Quindi senza dire che qualcosa che è non è, ovvero che l’ente è non ente, cioè niente?

«È chiaro a questo punto che la resa dei conti deve essere fatta con Aristotele, che per primo ha mostrato come l’assunzione del principio di non contraddizione implichi il riconoscimento della pluralità dei significati dell’essere e quindi il rifiuto della concezione univocistica dell’essere di cui quella parmenidea è la prima rigorosa formulazione. Viceversa, accettando quest’ultima, si è costretti non solo a negare il divenire, come effettivamente fa Severino, ma anche a togliere le differenze, cosa che invece Severino non ammette. Ora, mentre nella sua ripresa di Parmenide Severino ha avuto buon gioco nel negare il divenire e il tempo dichiarandoli mere forme dell’apparire, rima-ne invece ancora aperto il problema di spiegare e dire le differenze e le determinazioni senza contraddizione; in quanto per farlo – nell’orizzonte di una concezione univocistica dell’essere, entro la quale la copula “è” viene impie-gata sempre e soltanto nel significato di “è identico”, anzi, di “è eternamente identico”, quindi nel senso della predicazione essenziale di identità – bisogna dire le differenze senza usare la negazione. È ciò che Severino tenta di fare in Tautótes» .

Mi sono permesso una citazione così lunga per non interrompere l’argomentazione di Volpi, ma anche perché ritengo che una sua lettura pres-soché integrale possa mostrare meglio il carattere, a mio parere, convergente di queste considerazioni con la posizione di Barcellona su Severino.

Volpi, infatti, sottolinea come non è possibile cancellare il divenire senza cancellare le differenze e, quindi, anche l’uomo e l’esperienza. E aggiunge: poiché le differenze implicano la negazione, il problema centrale del pensiero occidentale non è il divenire come per Severino, bensì l’aver pensato gli enti a partire dal tutto dell’essere. Il riferimento al carattere ontologico del principio d’identità, secondo Volpi, rende obbligatorio il ritorno ad Aristotele e alla sua declinazione pluralistica delle radici dell’essere (Metafisica, VI, 2). Com’è noto da tali premesse teoretiche, Aristotele giunge ad una declinazione realistica e naturale della vita pratica e sociale, che è alla base del lavoro sia di Volpi sia di Barcellona.

Il punto più importante tuttavia, è un altro: il rapporto fra la concezione di Severino, quella di Barcellona e la tecnica. Alla luce delle ultime riflessioni, infatti, sembra emergere un nesso paradossale fra queste due analisi e la tecnica stessa. Un nesso che riapre la domanda su cos’è tecnica e che, non a caso si rivela nel giudizio sulla tecnoscienza attuale. Quando Volpi dice che il pensie-ro dell’Assoluto privilegia il tutto dell’essere rispetto all’ente, è possibile desumere un’analogia fra pensiero dell’essere e tecnica? Ovvero, si può dire che le letture ontologiche in realtà condividono qualcosa con la tecnica, una nozione reificata e deificata della potenza, condividendo la medesima declinazione cosale dell’essere che Severino vede all’origine del nichilismo? Da questo punto di vista, il recupero da parte di Barcellona dell’umano, dell’umano tradizionale, cioè della finitezza, dell’esperienza costitutiva per l’uomo del rapporto con la mancanza e il bisogno, contro l’illusione della potenza di creare l’essere da parte della coscienza moderna, permette di vedere tale punto nodale delle letture ontologiche, non a caso tutte antiumaniste (naturalmente nel senso heideggeriano e non genericamente etico-politico del termine). Esse, infatti, non chiariscono a sufficienza un problema, a mio parere, fondamenta-le, che proverò a sintetizzare brevemente.

Tutte le letture ontologiche svolgono la critica del nichilismo partendo dal seguente assunto: la filosofia nasce dal thaumázein, ovvero dalla meraviglia originaria che ci fa scoprire che il mondo esiste, che vi è dell’essere e non piuttosto il nulla. Ma quasi nello stesso istante la meraviglia si trasforma in pensiero dell’ente e non dell’essere, ipostatizzando la sostanza come natura dell’ente. Nasce così la cosalità dell’essere e la fine del pensiero nella sistematizzazione metafisica. Ora, il punto è proprio che non è affatto facile distinguere fra la meraviglia come situazione emotiva fondamentale che ci fa apprezzare l’essere come l’altro da noi, e la meraviglia come processo di tota-lizzazione e annientamento del molteplice, ovvero come slittamento originario dalla scoperta (meraviglia) che uno o più mondi sono, alla conclusione che il mondo c’è, dall’esperienza che vi sia dell’essere, alla conclusione che l’essere deve esistere necessariamente.

In altre parole, si può dire che è proprio la meraviglia in sé a produrre, per dirla con le parole di Heidegger, la fine della differenza ontologica? Si può dire che risiede qui la confusione fra essere e tutto dell’essere? E che, da que-sto punto di vista, c’è un’analogia fra il thaumázein e il pensiero della potenza moderna, analogia dettata proprio dall’assenza del tema delle differenze, tema politico-pratico par exellence, più che teoretico? Se mi fosse concessa una domanda molto provocatoria, chiederei: il problema fondamentale del nichilismo è sapere se Nietzsche, Heidegger e Schmitt sono stati nazisti, oppure se Hitler provava la meraviglia? Fino a che punto, cioè, la meraviglia non impli-ca una visione del mondo in cui l’essere è concepito come un tutto uniforme, che o c’è o non c’è, esattamente come, nel paradosso più completo, la tecno-scienza attuale ritiene di poter intervenire sulla catena biologica, intendendo la vita come cosa manipolabile?

Lascio al lettore la risposta a tali questioni, quand’anche fossero ben poste. In ogni caso, per quanto chi scrive sia convinto che l’umanismo oggi dia una risposta al nichilismo della tecnica molto più incisiva dell’analisi ontologica, le riflessioni di Volpi mostrano un punto che resta indeciso anche nella lettura di Barcellona. Se si contesta, giustamente, la saturazione del senso operata dalla tecnica sia dal punto di vista estensivo (mondo che coincide con se stes-so), sia da un punto di vista intensivo (tecnoscienza biopolitica); se si denuncia il fatto che da essa derivi l’abolizione dello scarto necessario fra uomo e mondo, nel quale soltanto si può aprire lo spazio della cultura, della filosofia e della politica come risposte collettive all’insecuritas originaria, non si deve anche riconoscere che tutto questo, in fondo, implica necessariamente la restituzione di un ruolo importante alla tecnica stessa? Mi spiego meglio: quando si dice che l’uomo si costituisce collettivamente nello scarto, che il diritto e la democrazia sono decisioni originarie, autofondative dell’umano, non si sta enunciando proprio la definizione della tecnica, così come essa fu elaborata nel dibattito greco al tempo della Prima Sofistica (Protagora contro Gorgia)?

Mi rendo conto che le tesi che propongo sono molto ardue, ammesso che siano legittime. Stando a queste considerazioni, infatti, le due correnti principali della critica della modernità e del nichilismo si ritrovano con le proprie armi rivoltate contro: l’ontologia, scopre che in fondo non c’è opposizione, ma addirittura continuità fra essere e tecnica, in quanto c’è complementarità fra il concetto di cosa e il concetto di essere come totalità; la seconda perché, un volta arrivata in fondo al suo percorso di critica della tecnica si ritrova di fronte alla tecnica stessa. Se così è, allora mi chiedo: non c’è un conflitto fra la critica della tecnica a partire dal processo moderno di soggettivizzazione e la rivendicazione dello scarto originario? Non si dovrebbe ammettere che lo scarto, in fondo, è la tecnica stessa, che la pratica istituente, per quanto collettiva è un processo di soggettivazione basato sulla libertà, nella misura in cui per decidere (questo significa istituire) si deve essere, almeno in parte, fuori da ciò che si è?

Per questo motivo, sopra dicevo che tali riflessioni riaprono la domanda su cos’è tecnica? Il punto, infatti, investe oggi la natura della tecnica e il giudizio ultimo sul suo valore.

Posto che essa apre un orizzonte epocale e, quindi, è in grado di determina-re un’ontologia e una forma soggettiva specifiche, la domanda è se essa costi-tuisca un Gestell, come voleva Heidegger, oppure no. Nel primo caso, evidentemente, il giudizio sulla tecnica è definitivamente negativo. Ma secondo questo approccio si è costretti ugualmente ad ammettere l’impotenza nei confronti della tecnica e considerarla un destino.

Se il pensiero di Severino sembra esplicitamente propenso ad ammettere il carattere destinale della tecnica nell’aura sacrale della sua filosofia dell’essere, in Barcellona, probabilmente tale giudizio è più una valutazione storica del nesso strutturale fra tecnica e modernità.

È questo, forse, il punto celato nell’importante periodizzazione che Barcellona fa del nichilismo. Infatti, è indubbio che la tecnoscienza porti ad effetto una frattura all’interno della stessa storia della tecnica, un salto qualitativo, certamente contenuto nella natura della tecnica, ma che al tempo stesso ne ha mutato il ruolo e il peso nella storia.

Identificando però, tecnica e modernità, probabilmente, sfugge una distinzione fondamentale: quella fra modernizzazione e modernità. La tecnica diviene il destino della modernità se quest’ultima viene ridotta a modernizzazione. Ma la modernità, che contiene sicuramente questa componente, tutta-via, mostra una dialettica interna più complessa. Il versante destinale della tecnica è legato a quella dialettica dell’illuminismo illustrata da Adorno e Horkheimer , ma la modernità non si riduce solo alla ragione calcolante che antepone i mezzi ai fini. Essa contiene anche quel processo di rischiaramento (Aufklärung), ovvero quel compito di cui parla Kant quando nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? dice che quella in cui ha vissuto non è un’epoca illuminata ma un’epoca di illuminismo . In quel passo Kant intende la modernità come lo scarto fra soggetto e mondo, un differire fondamentale in cui soggetto e mondo si costituiscono necessariamente a partire dall’analisi del presente, dalla denuncia del potere in quanto fatto bruto e dall’individua-zione, a partire da essa, del senso possibile dell’avvenire. La tecnica, da que-sto punto di vista, resta un pezzo importante della modernità, ma non è tutta la modernità.

Nell’analisi dei francofortesi, d’altronde, è contenuto un elemento diagnostico preliminare e fondamentale: la modernità nasce dalla sussunzione dell’eccezione all’interno del potere (ciò che Barcellona chiama edonismo cognitivo). Questo è il senso della tecnoscienza: il potere, oggi manipolatorio e creatore del reale, non si dà più come disciplina, ordine, repressione, ma come eccezione, potenza che forza i limiti (del diritto, della natura, dell’etica, della politica, della storia, della ragione e del soggetto stesso, come nel nazismo). La Dialettica dell’illuminismo si apre proprio con questo dato paradossalmente antidialettico del potere moderno, cioè del suo divenire irrazionale e devastante.

Ora, tale elemento diagnostico è possibile solo a partire dalla distinzione fra modernità e modernizzazione. Non a caso, infatti, nella teoria critica della società si trova sia la denuncia della modernizzazione, che nasce come emancipazione e razionalità, ma poi diviene eccezione quando il progresso termina il suo compito e lascia il potere privo di una missione necessaria; sia la rivendi-cazione dell’arte moderna della critica come scarto del pensiero rispetto al presente in quanto mera datità. Da questo punto di vista, l’analisi della dialettica dell’illuminismo tenderebbe a mostrare una componente della modernità che non si identifica con la modernizzazione e si esprime in quanto capacità di analizzare il presente a partire dal presente stesso. Si può pensare che sia questo lo scarto originario da cui nasce l’occidente come libertà, intendendo con essa non già l’arbitrio, ma l’esercizio di diagnosi del presente?

Si potrebbe certamente contestare che questa tradizione di pensiero sia riconducibile all’altro illuminismo di cui parla Foucault a più riprese e che, come dice lo stesso Foucault, è un’arte residuale, è l’arte di non farsi gover-nare troppo. In questo caso, il problema della tecnica come signore dei significati (Ge-stell) rimarrebbe immutato e non ci resterebbe alcuna possibilità di rivoluzione o anche di controllo della tecnica stessa, ma solo la possibilità di fare esercizi spirituali per renderci liberi restando in catene (o in gabbia, per usare l’immagine weberiana).

Invece, riproporre oggi la questione della tecnica, a mio parere, significa mostrare ancora una volta i limiti della tecnica, se vogliamo, la sua impotenza, non la nostra. Lo scenario politico-culturale mondiale oggi sembra trasmetterci esattamente questo messaggio. E non basta dire che in fondo il terrorismo è la tecnica, perché il problema di fondo è rappresentato dalla delegittimazione della cultura occidentale moderna come cultura vincente. Dopo la sconfitta del nazismo, oggi il problema dell’attentato alla legittimità dell’occidente si ripropone in maniera drammatica, proprio perché si ripropone per una secon-da volta. Il sogno luhmanniano della tecnica come apparato sistemico e auto-legittimato della sicurezza non si infrange di fronte all’arrivo di un grande dittatore che se ne impossessa ridando vita al Leviatano, sovrano barocco e mo-struoso, ma si infrange di fronte al fatto che essa non ci protegge più e dunque non può risolvere il problema politico fondamentale per cui è nata: l’ordine del mondo. Si tratta di una sconfitta tanto militare quanto politica. E da questa prospettiva, tutti hanno subito l’illusione della tecnica, sia i suoi alfieri, sia i suoi critici più radicali. Tutti, in fondo, erano d’accordo che la tecnica è ultra-potente, non importa se nel progresso o nel dominio imperialistico, ma ultra-potente. Nessuno, forse solo lo Schmitt della Teoria del partigiano , ha pro-vato a pensare che la tecnica potesse essere letteralmente sconfitta da ciò che non è tecnico, o addirittura da ciò che è anti-tecnico. A partire da questo pun-to, dunque, la modernità diviene ben altro dalla residuale possibilità di non farsi governare troppo, ma diviene il luogo di una nuova ontologia del presente. Ovvero di una nuova cartografia del mondo, di una nuova partizione fondamentale della Terra, di un nuovo patto originario dell’uomo con il tempo e con lo spazio, perché il sogno tecnico della presentificazione è fallito.

Ora, alla luce di queste considerazioni, anche il suicidio dell’Europa si chiarisce sicuramente come l’esito negativo, la deriva necessaria dell’Europa. Ma, mi chiedo, ed è la questione fondamentale dell’intero percorso di Barcellona, il titolo di questo libro può essere inteso non come un fatto, bensì come un monito estremo?

A sostegno di questa interpretazione, a mio parere, militano i paragrafi conclusivi del testo, dedicati al rapporto fra profezia, utopia e politica. Dopo essersi chiesto se il destino del moderno sia ineluttabile, Barcellona constata che «la crisi della nostra epoca è anche la crisi della profezia, il tempo dell’assenza di profeti» . La politica, come l’utopia, sono fondate sulla parola che annuncia l’evento e, come tali, contengono un elemento profetico irridu-cibile. Ma l’evento che la parola annuncia è il ritorno. Come il bambino lace-rato dall’allontanamento della madre, secondo Barcellona , viene ricostituito dall’annuncio di quest’ultima che, assicura, tornerà, così la parola politica an-nuncia la possibilità di un riscatto del presente dal suo interno. Come nell’ana-lisi freudiana del gioco del rocchetto , con cui il bambino ripeteva simbolicamente la perdita della madre (mondo) impossessandosene, la parola inter-rompe la coazione a ripetere della coscienza schiacciata nel presente, cioè nella cristallizzazione della paura fondamentale dell’uomo, e apre la possibilità della società come progettazione di un a-venire. La parola, per Barcellona, stabilisce un ponte fra l’assenza e la presenza del mondo, istituendo lo spazio sociale come promessa del ritorno. «Nella parola c’è sempre qualche cosa di messianico. Nel libro Il Dio a venire, Manfred Frank ha ragionato su questo bisogno del tempo, nel quale si proietta la possibilità di un evento salvifico. La parola diviene allora promessa della salvezza, possibilità che l’assenza, di cui la parola colma il vuoto, sia riempita da una presenza piena. Noi aspettiamo una presenza piena. L’umanità ha percepito da sempre l’assenza della possibilità di far corrispondere interamente l’io al mondo e la parola alla cosa» .
La parola profetica cioè si esprime proprio nella sua inattualità, nel suo dislocarsi nel tempo verso qualcosa che sarà. In questo senso, per Barcellona, la malattia mortale è la letteralizzazione della parola, con la sua coattiva distru-zione dello scarto in cui si apre lo spazio del rimando a ciò che non c’è (ancora). L’oracolo, diceva Eraclito, non dice e non nasconde, ma indica.

«Le parole di un mondo radicalmente immanentizzato nelle sue ottuse azioni di appagamento di bisogni inesauribili non hanno più la capacità di operare alcun rimando al “futuro”, a ciò che non è “presente”, e condannano cia-scuno di noi all’azione immediata» .

La presentificazione, la letteralizzazione, sono, dunque, il suicidio dell’Europa. Ora, mi chiedo, se la parola profetica è «l’enigma che interroga, che trattiene nello spazio ermeneutico, che coinvolge nella indeterminazione semantica, che mantiene il dubbio» , allora il suicidio dell’Europa è solo diagnosi del presente, oppure è anche un monito (o meglio una profezia) che, rievocan-do le origini della civiltà occidentale, allude a una nuova nascita? A noi piace di interpretarlo così…

Che cosa significa «sovranità condivisa»?

Anche il testo di Pasquale Serra, a parere di chi scrive, rivela già nel titolo tutta la radicalità della sua interrogazione fondamentale. Il binomio Europa-mondo, infatti, non indica solo il contenitore più ampio e più generale per comprendere una tematica come quella europea, che mette in circolazione tradizioni diverse, metodologie diverse in una sperimentazione appassionata fra diritto, storia, politica e filosofia. Europa-mondo indica il terreno fondamenta-le nel quale si è formata l’identità politico-culturale dell’Europa stessa: il rapporto fra l’Europa e il mondo. È in questo nesso che si declina la dialettica fra storia e salvezza, fra parte e tutto, fra frammento e totalità, fra unità e plurali-tà, fra singolare e universale.

Il binomio Europa-mondo, però, è suscettibile di diverse interpretazioni, molto diverse fra loro. Proviamo ad indicarne almeno tre, a nostro parere de-cisive. La prima è di tipo ermeneutico. Se si interpreta così il rapporto costitutivo fra Europa e mondo, si stabilisce un nesso di tipo circolare nel quale, da una parte, l’identità europea scaturisce dal suo relazionarsi ad una totalità più ampia che è il mondo e, dall’altra, il mondo non rappresenta un referente con una consistenza ontologica propria, ma è l’oggetto correlativo necessario al soggetto Europa per autoidentificarsi. È chiaro, in questo caso, che il problema della costituzione europea rimarrebbe un processo in sé pacifico e debole di formazione di un’identità politico-culturale come molte altre nella storia universale.

Il secondo modello di rapporto Europa-mondo è, invece, quello dialettico. Un rapporto questa volta forte, costitutivo, che è stato magistralmente interpretato dalla Weltgeschichte di Hegel. Ma che comporta tutte le difficoltà proprie dell’universalismo non solo hegeliano, ma dell’intera tradizione occidentale, con tutto il suo fardello di dominio imperialistico. In questo schema, infatti, è chiaro che l’Europa si costituisce nel mondo, in maniera storicamen-te determinata, ma attraverso un processo di selezione essenzialistico e gerar-chico, per cui in conclusione l’Europa è il mondo in spiritu et in re.

Ma c’è un’altra possibilità? Come si può intendere la parabola della sovra-nità europea a partire non solo dalla sua tendenza all’assoluto, ma anche dalla sua pluralità originaria? È la stessa tradizione della sovranità assoluta, secondo Serra, a contenere tale possibilità. Nella lezione bodiniana, infatti, l’assoluto paradossalmente comprende anche la nozione di limite, la possibilità logica e storica dell’auto-limitazione della sovranità. E Serra richiama opportunamente la posizione di Heller come terza opzione nella speculare contrapposizione fra la condanna kel-seniana e la rivendicazione schmittiana dell’autonomia del sovrano.

Nel concetto di sovranità condivisa proprio del dualismo imperfetto della dottrina internazionalistica di Heller, si ritrova, per Serra, un modello alternativo all’anarchia hobbesiana. E questa alternativa poggia sulla diversa nozione di sovranità di Heller rispetto a quella kelseniana e schmittiana.
In Heller, com’è noto, la sovranità è sovranità democratica perché la sovranità comprende tutta una dimensione pre-categoriale, un Um-welt, direbbe Husserl, informale, indeterminato, che sostanzia di identità storico-spirituale il principio di sovranità integrandolo in una dimensione collettiva e spontanea.

La coesistenza fra stati (sovranità condivisa), pertanto, potrebbe poggiare su tale patrimonio collettivo e plurale in cui soggettività e identità non si declinano nelle forme del nazionalismo aggressivo, ma si presentano nella forma di una tradizione ereditata da un’epoca precedente e che, come tali, non possono entrare nella codificazione costituzionale, ma possono rappresentare il sostrato informale, il Lebenswelt europeo.

Si tratta di un punto estremamente delicato e sfuggente, in cui ne va anche della presente proposta di
lettura del testo di Serra. Ci vuol poco, infatti, a far scivolare il senso della sovranità condivisa nella vulgata sul pluralismo delle tradizioni nazionali. La sovranità condivisa non può essere questo, sarebbe un girare intorno al problema dell’identità europea, ritrovandosi alla fine al punto di partenza.

Ma come si può evitare questo scacco? A nostro parere ad una condizione, chiarita la quale, potremo presentare la terza opzione interpretativa del bino-mio Europa-mondo. La sovranità condivisa può, allora, essere interpretata proficuamente a condizione di considerare queste tradizioni come in se stesse attive e disattivate allo stesso tempo. A condizione, cioè, di non assumerle né a partire da una sottostante affinità, né dalla tradizionale rivendicazione di irriducibilità. In quest’ultimo caso si tornerebbe stoltamente indietro. Nel primo, invece, si cederebbe all’ipocrisia del discorso sui diritti e sulla pace come specificità comune a tutte le culture europee nazionali, che risolve il problema della condivisione europea semplicemente non ponendolo.

Il punto di partenza, invece, è a nostro parere, un altro ed è possibile ritrovarlo nel discorso di Pasquale Serra: le tradizioni europee sono e rimangono diverse, ma non sono più attive in quanto tali, quindi possono essere rimesse in comune senza il rischio di derive egemoniche.

Ma cosa significa che le tradizioni esistono ma sono in se stesse dis-attivate? Che sono come dei frammenti, dei segni del passato con i quali il presente può convivere senza l’obbligo di identificarvisi. In che senso usiamo, dunque, il concetto di frammento? A nostro parere la risposta può essere tro-vata nella teoria del frammento di Benjamin che si collega strettamente alla teoria dell’allegoria nel Dramma barocco tedesco. L’analisi benjaminiana del Barocco (da cui dipende la teoria dell’allegori-co) è fondata sul simbolico e sull’immaginale, come testimonia la celebre Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco e, quindi, su una strut-tura temporale.

Ma esiste un passo del Dramma barocco in cui si fa un chiaro riferimento alla spazialità. Leggiamolo: «L’evoluzione formale del dramma barocco può essere vista senz’altro come lo sviluppo di necessità contemplative presenti nella situazione teologica dell’epoca. Una di queste, che deriva dal venir me-no di ogni escatologia, è il tentativo di trovar consolazione non già in un irraggiungibile stato di grazia, ma nel ritorno a un mero stato creaturale. Qui, […] è decisiva la trasposizione dei dati temporali in una simultaneità spaziale impropria. […] Mentre il Medioevo esibisce la precarietà degli eventi mondani e la transitorietà della creatura come stazioni lungo la via della salvezza, il dramma barocco tedesco si seppellisce per intero nella disperata desolazione della realtà terrena. […] Il rifiuto dell’escatologia nel dramma religioso caratterizza la nuova produzione teatrale in tutta Europa» . La sostituzione dello schema temporale del trascendentismo medievale con la simultaneità spaziale del barocco si fonda dunque sul rifiuto dell’escatologia e su una teoria tutta terrena della creatura.

È esattamente in questo senso che Benjamin richiama l’essenza del «politi-co» barocco come stato d’eccezione. Infatti, al di là del delicato rovesciamento del significato dell’eccezione in Schmitt , il punto centrale del richiamo alla categoria schmittiana risiede proprio nell’anti-escatologismo del Barocco. Dice Benjamin: «La mentalità giuridico-teologica che contraddistingue l’intero secolo esprime quella tendenza irrisolta verso la trascendenza che sta alla base del Barocco e dei suoi accenti provocatoriamente mondani. Perché all’ideale storico della Restaurazione si contrappone frontalmente l’idea della catastrofe. E proprio su questa antitesi viene coniata la teoria dello stato d’eccezione» .
In Benjamin, dunque, esisterebbe una connessione fra il creaturalismo pro-vocatoriamente mondano del Barocco, il senso anti-escatologico della cata-strofe, lo stato d’eccezione come forma del potere di una storia ormai priva di senso e di destinazione trascendenti da una parte e, dall’altra, il dissolvimento della temporalità nello spaziale.

Ma come si giunge dall’allegorico alla teoria del frammento? Attraverso il concetto di origine come manifestazione dell’origine all’interno del divenire stesso e non al di qua di esso. Nella Premessa gnoseologica al Dramma barocco Benjamin ricerca non solo i termini della sofisticata metodologia della storia filosofica dell’arte, ma soprattutto lo statuto epistemico del concetto di origine, associandolo alla teo-ria delle idee come rammemorazione in Platone. Secondo Benjamin, infatti, il nocciolo della teoria delle idee in Platone non risiede semplicemente nell’annientamento dei fenomeni attraverso il rapporto astratto fra i concetti (gli universali) e le idee in quanto sostanze trascendenti.

I concetti, invece, hanno una suprema funzione mediatrice che permette ai fenomeni di entrare nel mondo delle idee non «nella loro grezza configurazione empirica – a cui si mescola anche l’apparenza –, bensì soltanto, salvati, nei loro elementi. […] L’analisi concettuale si affranca da ogni sospetto di cavil-losità distruttiva soltanto ove miri a quel recupero dei fenomeni di partecipare all’essere delle idee che è il platonico tà fainómena sózein – conclude Benjamin –, mentre la salvazione dei fenomeni si compie per mezzo delle idee, la rappresentazione delle idee si compie nel medium dell’empiria. Poiché le idee si rappresentano non in se stesse, ma solo e unicamente attraverso una coordi-nazione di elementi cosali nel concetto: ossia in quanto configurazioni di elementi» .

È dunque a partire dal motto anti-monistico (salvare i fenomeni) comune a Platone e ai pluralisti anti-parmenidei che Benjamin ricava la sua teoria dell’origine in contrapposizione alla teoria della genesi. Dice Benjamin: «L’origine, pur essendo una categoria pienamente storica, non ha nulla in comune con la genesi [Entstehung]. Per origine non si intende il divenire di ciò che scaturisce, bensì al contrario ciò che scaturisce dal divenire e dal trapassare. L’origine sta nel flusso del divenire come un vortice, e trascina dentro il suo ritmo il materiale della propria nascita» .

Dunque, nella teoria della verità come rammemorazione, le idee salvano i fenomeni esattamente nella misura in cui l’origine (meta della rammemorazione) scaturisce dal divenire e comprende anche il materiale della propria nascita. Come in un’escatologia rovesciata, allora, l’allegorico ha il compito di rappresentare l’origine non già andando al di là dell’empirico e del tempo-rale, ma proprio attraverso quel materiale che compone il divenire stesso.

Rappresentare l’origine, significa salvare il materiale del divenire, inteso, a questo punto, come frammento dell’origine. È questo probabilmente il senso nel quale va inteso il rapporto fra l’allegorico e il frammento: il frammento è l’elementare che si manifesta nell’allegorico, salvandosi. Ma se l’allegorico è salvazione del frammento, esso non è più, o meglio, non è solo il luogo del superamento della lacerazione fra essere e divenire, fra tempo storico e tempo escatologico, ma materiale, pezzo della storia che riemerge dalla crisi stessa della trascendenza e dell’escatologia. Esso non è più tempo della sospensione del tempo, ma spazio che si rivela sotto il velo di Maya della storia universale.

A questo punto, è inevitabile porre la questione più generale dell’escatologia messianica nel Benjamin delle Tesi sulla filosofia della storia. È possibile, cioè, vedere nello Jetztzeit benjaminiano il frammento come spazio elementare, come parte della terra, e non come tempo? È possibile intendere il tempo dell’adesso come partizione dello spazio che avviene nella sospensione del tempo?

Usiamo gli interrogativi proprio perché riteniamo che ciò non sia possibile. Il frammento non è nomos. Lo Jetztzeit può anche alludere allo spazio. Il frammento può perfino alludere alla terra, alle terre, ma esso non è nomos, non è ordine della partizione, connessione del plurale, ma solo salvazione del singolare in quanto tale.

La struttura del frammento, pertanto, rimane temporale. Del resto, il messianismo come tempo della fine del tempo è questo: salvezza del singolo nella conciliazione con la totalità. Recepiamo, tuttavia, il significato, a nostro parere epocale, della questione. Integrare la teoria del frammento di Benjamin in una teoria del nomos, magari non coincidente con la lezione schmittiana; ricercare la connessione fra i frammenti-spazi, questo ci sembra il significato della sovranità condivisa nel libro di Pasquale Serra e il lavoro, dall’esito non scontato, della condivisione europea.

Un commento a “Il suicidio e la salvezza. Sulla costruzione dell’Europa: leggendo due libri recenti”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *