Interventi

Articolo uscito su “Strisciarossa” il 27.03.2020.  Foto di Eugen Visan da Pixabay

È inutile guardare ora ai sondaggi e prestare attenzione alle curve del gradimento dei leader. Le rilevazioni diffuse dai media registrano solo tendenze superficiali. L’emergenza produrrà degli effetti (nella vita e nell’economia) così profondi che le traduzioni politiche della crisi paiono ancora imprevedibili.

Il fallimento dell’ideologia liberista

Quello che l’eccezione mette sicuramente a nudo è il fallimento storico del modello di seconda repubblica a ideologia liberista. Il ruolo centrale, salvifico per certi versi, riconosciuto alla sanità pubblica smonta alla radice il paradigma privatistico che entrambe le coalizioni avevano condiviso dagli anni ’90. Con gradazioni differenti, la cultura della seconda repubblica era ostile al pubblico, al ruolo dell’amministrazione, alla ricerca, al lavoro. Per una rinascita di un punto di vista critico, bisogna scavare in profondità e cogliere le radici culturali della conversione della sinistra a quel modello liberale in economia, e federalista nel disegno istituzionale, che ne ha determinato lentamente l’eclisse.
Quando apprese della sconfitta del Fronte popolare nel 18 aprile del ‘48, Umberto Saba reagì con una invettiva contro il popolo che non aveva scelto il simbolo di Garibaldi. Leonardo Paggi (La repubblica italiana nata dalla guerra, Il Mulino) riporta i versi di Vittorio Sereni dedicati al disperato poeta triestino che, il giorno seguente la bruttissima notizia delle urne vuote, si agitava come un essere «ramingo in un’Italia di macerie e di polvere». «Porca – vociferando – porca. Lo guardava / stupefatta la gente. / Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna / che ignara o no a morte ci ha ferito».
Spesso l’inclinazione a prendersela con il popolo, che ha graffiato le belle coalizioni o inceppato le gioiose macchine da guerra proprio sul più bello, ha accompagnato la sinistra negli anni della seconda repubblica. Quando ha cercato di ragionare sulle cause del voto che inopinatamente non è arrivato dai cittadini, essa si è fermata a rimarcare un deficit di comunicazione, e, solo per non rinunciare a un bel regolamento dei conti, si è spinta sino a denunciare la carenza di leadership del capo di turno. Rimosso il leader, che solo nella caduta è trafitto da tutti perché molle e per la sua carenza non ha sfondato, con le stesse idee la sinistra prosegue in attesa di mandare a casa il successivo responsabile della sconfitta.

Michele Salvati

Quando fu messo in soffitta Marx

Per capire perché ad un certo punto, nel 2013 e poi nel 2018, il popolo se ne è andato ben lontano, affascinato da un comico, bisogna risalire agli errori originari che hanno accompagnato il ceto politico di sinistra nel pantano. Mandato in soffitta Marx, la sinistra post-Pci si è affidata all’elaborazione di due economisti che hanno ispirato le diverse anime del partito. Michele Salvati, deputato ed economista molto ascoltato nell’area che andava da Occhetto a Veltroni, in un saggio (Moneta unica, rivoluzione copernicana, Il Mulino, n. 1 del 1997) indicava come compito strategico della sinistra, nella nascente seconda repubblica, quello di immettere nell’economia in ristagno forti stimoli competitivi. Erano necessari, nel solco della sua analisi, sforzi eccezionali per “spostare le nostre imprese sul fronte avanzato della concorrenza internazionale” e oltrepassare il vecchio modello economico che legava svalutazione e sviluppo.
In questo quadro toccava alla sinistra abbandonare i vecchi paradigmi dell’economia mista e assumere l’onere di “riforme necessarie, ma impopolari”. Governare l’innovazione contro il popolo conservatore era l’ingrediente della “rivoluzione copernicana” richiesta per mandare alle ortiche la vecchia Italia delle fazioni, delle organizzazioni, dei tanti lacciuoli burocratici. Nell’ottica di Salvati la seconda repubblica doveva imboccare con decisione la strada della discontinuità senza badare ai costi sociali e politici delle riforme. In vista di “un mutamento di regime” urgente si rendeva per lui lo sforzo di imporre a tutti i soggetti la convinzione che “bisogna disintossicarsi”, con il superamento delle inefficienze sistemiche, con la fuga dalla vecchia “rilassatezza fiscale”.
Il vincolo esterno era lo strumento del destino per indurre il popolo all’accettazione passiva delle “riforme” liberali. Salvati invocava perciò la forza rigenerativa delle “scadenze imperative” di Maastricht che aiutavano la tanto attesa rivoluzione antistatalista. La bella “virtù coatta” andava affermata nella sua necessità contro le fazioni, gli interessi organizzati. Il mondo del lavoro si lamenta per i licenziamenti e i salari bassi? Pazienza, presto si abituerà a convivere con “una dinamica contenuta dei salari monetari e una elevata flessibilità nelle condizioni di lavoro”. Lo scenario di una “contenuta dinamica salariale e di una elevata flessibilità”, con il taglio delle retribuzioni, la precarizzazione, postula le prevedibili reazioni dei ceti colpiti. Ma la politica dell’innovazione liberale non deve in alcun modo demordere dinanzi agli interessi esistenti.
I piccoli commercianti, gli artigiani sono sconvolti per le conseguenze della marcia trionfale della grande distribuzione. Che importa? Dinanzi a “salari troppo alti” rispetto al livello compatibile, gli operai e gli impiegati devono piegare le loro anacronistiche pretese. E, di fronte alle “sofferenze del piccolo commercio”, non è pensabile cedere perché un freno alla grande distribuzione danneggerebbe il “sistema paese” che invece deve entrare nella concorrenza e cioè competere senza più ombre di protezioni. Il giacobino modello di innovazione liberista per Salvati non permetteva esitazione. I lavoratori, i piccoli commercianti “devono convincersi che gli schermi sono destinati a cadere; e le autorità di politica economica devono stimolare in ogni modo questi processi competitivi, quali che ne siano le conseguenze reddituali e occupazionali immediate”.

Gli errori della sinistra liberal

La sinistra “liberal” o dei valori, “quali che ne siano le conseguenze”, deve innovare il sistema e combattere non contro il capitale e le sue richieste di precarizzazione assoluta ma contro il suo vecchio mondo, denunciando appagamento, ozio, privilegio, immobilismo di chi iper-protetto non sopporta i costi della modernizzazione. Agli occhi di Salvati, per edificare la seconda Repubblica, si imponeva come urgente una grande battaglia contro i residui del Welfare che contribuivano “in modo decisivo alla stabilizzazione della popolazione sul territorio”. Agli oziosi lavoratori, che si ostinavano a rimanere nelle loro città, bisognava rispondere con misure economico-giuridiche esemplari capaci di incentivare “la reale disponibilità a muoversi”. Oltre a intimare a tutti di circolare, la sinistra avrebbe dovuto remare contro corrente per creare economie finalmente dinamiche attraverso “lo si voglia o no, la flessibilità salariale (e tutte le altre flessibilità del rapporto di lavoro e delle relazioni industriali) che agisce come parziale sostituto a) della mancata mobilità del lavoro; b) della mancata diffusione spontanea dello sviluppo”.
D’aiuto al percorso del riformismo dall’alto poteva risultare l’integrazione europea, non importava, riconosceva lo stesso Salvati, che essa annunciasse delle evidenti insidie connesse alla richiesta tedesca di un “atteggiamento iper-rigoristico” con drastici vincoli di bilancio. Ogni paese sarebbe rimasto solo con i propri strumenti dinanzi agli shock asimmetrici di un’età dell’incertezza. Ma il pericolo dinanzi all’ignoto effetto del Berlino Consensus era, secondo Salvati, un rischio benedetto se serviva per avviare la riforma delle istituzioni, scrivere le norme per il federalismo nel titolo quinto della carta. Lo Stato era per lui chiamato “a un colpo di reni di maggiore efficienza” e in questa ottica doveva seguire una “fantasia riformatrice” per favorire, con nuovi assetti istituzionali, la concorrenza sistemica.
Avvertiva Salvati che contro sprechi, privilegi, condizioni assistenzialistiche “lo Stato è chiamato a un poderoso sforzo di autocontrollo”. L’assetto federale si prospettava come arma per il contenimento dei salari pubblici e per definire una nuova costituzione economica incardinata su un diverso mercato del lavoro. Il sindacato, in vista del tempo nuovo, doveva cedere ancora più di quanto avesse fatto con il “grande accordo del 23 luglio 1993”. Si trattava di rinunciare alla arcaica contrattazione nazionale-categoriale. Il federalismo delle istituzioni doveva essere collegato al federalismo della contrattazione che da nazionale diventava territoriale regionale. Il compito principale delle politiche pubbliche era di “rendere attraente la regione per gli investimenti”. La conseguenza sociale di questo nesso tra istituzioni e mercato non sfuggiva a Salvati che lo rendeva senza infingimenti.
“Naturalmente si aprirebbero più forti ventagli salariali, tra regioni, tra imprese, tra settori, tra qualifiche”, ma proprio questo post-moderno ripristino delle gabbie salariali e delle differenziazioni territoriali serviva per incentivare la concorrenza, la mobilità. La flessibilità numerica doveva entrare in maniera organica nel rapporto di lavoro perché “le imprese devono potersi ristrutturare senza eccessivi ostacoli”. Rotto il rapporto con la coalizione sociale della sinistra, Salvati si inchinava con esplicita venerazione ad uno dei poteri costituenti della seconda repubblica, quello che dalla Banca d’Italia avrebbe conquistato il cuore dello Stato. Elogiava per questo il “vecchio disegno di una parte (ahimè troppo piccola) delle nostre élite tecniche e politiche: quello di legare le mani a un sistema politico nazionale che troppo spesso è risultato incapace di legarsele da solo”.
La conclusione della rivoluzione copernicana disegnata da Salvati (liberalizzazione, concorrenza e un po’ di tricolore) è stata naturalmente la controrivoluzione tolemaica dei populismi e sovranismi che hanno travolto le “nostre élite tecniche e politiche” e hanno davvero “legato le mani” alla tentazione dei ceti popolari di votare ancora per la sinistra.

Nicola Rossi

L’attacco al sindacato dei lavoratori

L’altra anima dei Ds faceva riferimento negli anni ’90 alla riflessione di Nicola Rossi, consigliere economico di Palazzo Chigi nei tempi del governo dell’Ulivo. Le sue indicazioni politico-economiche erano del tutto simili a quelle di Salvati. In nome della società degli individui, Rossi si scagliava contro il sindacato e suggeriva le vie della disintermediazione (“più sindacato in fabbrica e meno nei palazzi”). La strada dell’innovazione era per lui tracciata dalla definitiva dismissione della proprietà pubblica e dalla prospettiva dello Stato minimo regolatore (“le amministrazioni centrali hanno esaurito gran parte dei loro compiti”).
Secondo Rossi (Riformisti per forza, Il Mulino) la sinistra doveva “abbattere se necessario anche i propri simboli”, con un taglio drastico alle politiche assistenziali (per salvare la “breve stagione di liberazione del mezzogiorno”), con una accelerazione nelle privatizzazioni e nella commercializzazione dei diritti di cittadinanza (serve “una vera competizione tra pubblico e privato” nella scuola, nella sanità), con un federalismo istituzionale funzionale alle dinamiche del mercato e contro “una diffusa nostalgia del centralismo statale”. La ricetta era esplicita: la sinistra era chiamata a respingere ogni “ritorno alla costruzione e gestione del consenso” e, adottando una mentalità tecnica, essa avrebbe dovute imporre le riforme per il mercato e l’innovazione, non rinunciando a “scontrarsi con chi è – o è stato – tradizionalmente vicino alla sinistra”. La conversione dei Ds in forza liberale-moderata senza più agganci con il mondo del lavoro precede, e per certi versi l’ha resa possibile, la genesi del Pd. Populismi e sovranismi non sconfiggono la sinistra, occupano semplicemente un vuoto.
Prima di riprendere, con Saba, a inveire contro “la porca, porca” gente che non l’ha più votata, la sinistra dovrebbe fare i conti con queste sue idee di innovazione, nel segno del mercato, rivelatesi distruttive, al punto che l’hanno marginalizzata, condannandola al declino insieme alla seconda repubblica. Il virus che mostra oggi un re nudo, con i simboli dello Stato minimo impotenti dinanzi all’emergenza, potrebbe almeno avere un effetto positivo se costringesse a ripensare dalle radici la funzione della sinistra in una terza repubblica necessaria dopo il fallimento della risposta antipolitica alla crisi e dopo la bancarotta di una europeizzazione passiva. Le nubi che si addensano, e che spingono a ricercare nuove grandi coalizioni magari a guida tecnica per governare la catastrofe, potrebbero trovare di nuovo ascolto in una influente area “liberal” che non è stata mai criticata a viso aperto e giudicata sul piano degli effetti storici delle sue ricette di “modernizzazione”.

Un commento a “Il virus mostra tutti gli errori della sinistra”

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