Interventi

Per mia nonna – che ha avuto la fortuna di applaudire Eduardo in teatro – Natale in casa Cupiello era una macchina comica, un portentoso veicolo di divertimento.

Ne citava a ripetizione non la trama, non la vicenda, non il profillo dei personaggi, ma gli appuntamenti infallibili con la risata: “‘A zuppa ‘e latte”;S’ha vennuto ‘e scarpe”;Te piace ‘o presebbio?; “…Ma con qualche malattia”.

Quasi un florilegio di solchi memorabili, tutti contraddistinti dal Comico.

Ed è un fatto che, al di là di un giudizio nel merito, il Comico – il suo sentimento, perlomeno – sia stato come estirpato (o se si preferisce, trasformato) nell’ultima trasposizione televisiva del testo per la regia di Edoardo de Angelis, protagonista Sergio Castellitto.

Non si vuole scendere qui nella ridda inutile dei confronti, ma la scomparsa del Comico in un’opera che con il Comico si identificava – nel ricordo del pubblico e nella sua stessa origine – appare, oltre che notevole, quasi epocale.

Il Comico informa capillarmente Natale in casa Cupiello, sia come tecnica di scrittura che come dispositivo d’elezione, scelto per rivelare – alla maniera di un liquido di contrasto – il cuore della sua costruzione drammaturgica.

Natale in casa Cupiello è tragico perché è comico.

Mentre, a vederlo nella sua nuova versione, potrebbe apparire l’opposto.

Nel fosco livore esasperato che segna la cifra stilistica della regia di De Angelis e dell’interpretazione di Castellitto il Comico sembra, infatti, una conseguenza del tragico.

I piatti spaccati e le urla sgranate possono arrivare a far ridere perché schegge incontrollabili di una tragedia già in corso.

Non di un suo progressivo disvelamento.

Ora, si può legittimamente affermare che in quei personaggi tutto sia già accaduto e che il disagio, la disgregazione, lo sfascio, abiti in essi ben prima di quanto si troveranno a vivere in scena: Luca Cupiello è già un patriarca detronizzato, Concetta già una mater dolorosa, Nennillo già un fantoccio nevrastenico.

Eppure, è proprio nella rivelazione del destino e dell’essenza dei personaggi che risiede l’implacabile congegno scenico del Natale di Eduardo.

Una potenza che, per deflagrare appieno nel Tragico, non può non affidarsi al Comico, rifiutando – o, semplicemente, non contemplando – il processo inverso.

Non si tratta di una sottigliezza speculativa ma di una questione sostanziale che chiama in causa – fatta salva la diversità (legittima e auspicabile) dell’approccio rispetto all’originale – la fisionomia ultima del testo: del suo farsi ed essere Teatro.

Atto unico nella sua prima forma (la misura della farsa), poi in due atti, poi in tre: l’evoluzione modulare della commedia di Eduardo è nota, e racconta bene la sua appartenenza alla verifica viva della scena.

Ma, nelle diverse stesure, la spinta propulsiva dell’abbrivio comico è rimasta intatta: le sue tracce, oltre che celebri, sono consistenti e crediamo spieghino in modo eloquente la presenza di numerose situazioni e battute che, senza la necessità del Comico, senza la deliberata ricerca del suo manifestarsi, si faticherebbe a giustificare e a comprendere.

Riflesso stilistico di un preciso universo teatrale di riferimento (Eduardo è figlio, in ogni senso, di Scarpetta), il Comico è, in Natale in casa Cupiello, una scansione dinamica e, insieme, esatta, centrata su un ritmo costante: un metronomo assoluto che sembra pretendere da chi recita, e da chi assiste, quelle accelerazioni, quegli effetti, quelle sortite.

Con tutte le variazioni del caso.

Pensiamo ai duetti, alle schermaglie di Luca Cupiello con il fratello Pasquale.

Isoliamo il momento in cui quest’ultimo realizza che l’incorreggibile nipote Tommasino /Nennillo si è venduto – dopo le scarpe – anche il suo cappotto.

Una rivelazione per gradi, volta a scoprire ciò che è già noto.

Su questo avvitamento – lanciato con passo di cadenza verso l’approdo comico – si fonda lo scambio tra i personaggi:

“Neh, Lucarie’, tu ‘o siente? Chillo s’ha vennuto pure ‘o cappotto… ‘O cappotto nucella”, dice Pasquale.

Luca gli fa eco: “ ‘O cappotto nucella”.

“Chillo co ‘o collo ‘e pelliccia”, puntualizza Pasquale.

Di nuovo l’eco di Luca: “Chillo co’ ‘a pelliccia…”.

E ancora, Pasquale, per accumulo: “Chillo co’ ‘a fodera scozzese”.

Primo moto di insofferenza da parte di Luca: “O’ cappotto tujo”.

E l’altro, incurante: “Chillo, ca ‘a martingana….”.

A questo punto lo sbotto è inevitabile e fa quadrare la scena:

“Pasqua’, tu uno ne tieni!”.

Risata.

Lo stampo è definito, il concertato perfetto e l’eco è doppio: avvertiamo, senza quasi accorgercene, la presenza in atto di una Tradizione precedente.

Il primo aggancio, quasi istintivo, è proprio Scarpetta: i duetti tra Felice e Pasquale (sempre Pasquale) in Miseria e nobiltà, ad esempio.

Anche lì il protagonista comico si incastra con la sua spalla in un modulo collaudato: parlano della spesa da fare, di un cappotto da spignorare.

L’andatura è pressappoco identica: la spalla la fa lunga, si perde in particolari, in pedanterie.

Il comico ascolta, resiste, dà corda (eco) e poi taglia corto.

E se ne care ‘o triatro”.

Le variazioni possono essere infinite, l’arrivo (la chiusa) immancabile, come la sua conseguenza: strappare (il verbo rimanda ad un imperio, ad una specie di obbligo, di esazione non rimandabile) la risata a chi assiste.

Fin qui, la meccanica, diciamo così: il Comico come appartenenza naturale ad un passato; ancoraggio necessario per evolvere e andare altrove (ciò che Eduardo fece, in maniera dialettica, dal dopoguerra in poi).

Ma il Comico in Natale in casa Cupiello ha anche un’altra valenza, intimamente legata a quanto il testo prova a rappresentare.

Bastino due momenti per riuscire a coglierla, se non ad indagarla: uno è scritto (e amplificato da una scelta interpretativa), l’altro solo recitato.

Il primo momento riguarda il malessere di Concetta, il suo svenimento: dopo uno scatto di disperata impotenza (“Nun ne pozzo ccchiù! M’hanno distrutta”) la donna si accascia a terra.

Luca Cupiello non aspetta di verificarne le condizioni e conclude: “È morta muglierema”.

Non è un vero allarme, né una constatazione realistica.

È, anche questa, una chiusa comica.

Nella ripresa televisiva del 1977, Eduardo attore accentua la piega ridicola del passaggio pronunciando la battuta in un italiano stentoreo, con sussiego goffamente melodrammatico: “È morta mia moglie!”.

Per riscuotere la risata, Eduardo – brechtianamente, verrebbe da dire – si osserva quasi da fuori mentre fa risuonare l’assurdo che lo circonda.

Non è Luca (immedesimato nel proprio dolore) che parla, ma è Eduardo autore che, distanziandosene e muovendolo dall’interno, inchioda il personaggio all’ipocrisia: un attimo prima Concetta era “la nemica della casa, la nemica della famiglia”, adesso è repentinamente divenuta “La moglie-Santa” e lui, freschissimo vedovo ipotetico, si affretta a commemorarla.

La grana comica della scena è ribadita dal suo immediato sviluppo: Luca chiama in soccorso il fratello e gli dice di accendere le candele di fronte alle immaginette dei Santi sul comò.

Appena Concetta accenna a riprendersi, l’imperativo di Luca a Pasquale cambia improvvisamente direzione: “Stuta, stuta”.

Non è morta davvero: meglio spegnere le candele e non sprecare la cera.

Le immagini dei Santi sono, poi, al centro anche di un secondo momento rivelatore: un’azione mimica che Eduardo consegna alla registrazione televisiva della sua commedia.

Luca si è faticosamente alzato dal letto, dopo strepiti e borbottii causati dal freddo, e, recita il copione: “Facendo un piccolo inchino e sollevando lo sguardo mistico verso i santi, si fa il segno della croce”.

L’aggettivo mistico, in questo contesto, pare già accarezzare il pedale del ridicolo ma Eduardo, nella sua interpretazione, si spinge oltre: dopo essersi segnato più volte, esibisce un gesto di scherno rivolto ai santi.

E alla Vergine.

Un vero e proprio sberleffo (la mano che picchietta il gomito, il braccio alzato con le dita unite rivolte in avanti) da Pulcinella disarticolato.

E cos’è – neanche troppo in filigrana – Natale in casa Cupiello, se non uno sberleffo alla famiglia tradizionale (eccessivamente facile dire: al presepe)?

Senza cercare riposti – e probabilmente non voluti – significati sociopsicologici, non si può ignorare che la commedia termini con un ribaltamento simmetrico e non casuale.

Luca, paralizzato e in punto di morte, benedice l’unione sbagliata: la coppia per amore e non quella per convenienza.

Si fa garante involontario di una nuova famiglia e la battezza nell’equivoco.

Cioè, nel Comico.

Dovrebbe allora apparire chiaro come il Comico per l’Eduardo di Natale in casa Cupiello sia uno strumento, non solo stilistico ma organico al proprio disegno, per mettere in risalto le mancanze – o meglio: le colpe – dei suoi personaggi.

Quel che sono e non potrebbero, né vorrebbero, essere è reso visibile e possibile dal Comico.

Nella rilettura di De Angelis e Castellitto, invece, è il Comico che diventa colpa.

Come una colpa (la colpa della leggerezza che renderebbe equivoco, per l’appunto, il dramma?) il Comico viene nascosto e negato.

Resta però intrappolato tra le righe, nelle intenzioni a monte delle battute, in qualche rifrazione incontrollabile.

E gli attori-personaggi (unitamente agli spettatori) privati del Comico, quella medesima colpa potranno forse espiarla, ma non riusciranno più a riconoscerla.

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