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La crisi del politico ai tempi del Covid-19

La gestione della crisi sanitaria ha evidenziato i segnali della dominanza dell’economia sulla politica e divaricato le fratture di un sistema democratico sempre più centrato su una governamentalità leaderistica. Dobbiamo riappropriarci della gestione politica dei processi sociali e riorganizzare la lotta dalla parte del lavoro
Pubblicato il 16 Luglio 2020
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Foto di Jeyaratnam Caniceus da Pixabay

Nella gestione della pandemia non sono solo emersi gli assiomi e le strategie della politica moderna, ma anche le sue difficoltà. L’emergenza Covid-19 da una parte ci ha mostrato ancora una volta l’eccezione come paradigma di governo, come condizione costitutiva della realtà sempre esposta alla mancanza dell’ordine e alla necessità di una decisione sovrana che crea quest’ordine di volta in volta, dall’altra ha svelato un processo ancora più importante: l’incapacità, durante tutta l’emergenza, di prendere decisioni politiche, di mettere la politica al primo posto. Ciò che è emerso in questa crisi è l’esito di un più generale e profondo processo di spoliticizzazione, di indecisione e di fuga dalle proprie responsabilità – nascoste spesso dietro il parere della scienza – di abdicazione della politica alla propria legittimità.

Non c’è stata, insomma, direzione politica dei processi ma disorientamento politico di massa, mera amministrazione tecnica. Il risultato è stato un’adesione conformistica alle pratiche e alle parole d’ordine dell’esecutivo, ridimensionando il ruolo di rappresentanza del Parlamento, di momento dialettico e democratico. Le istituzioni si sono così ridotte alla sola figura del Presidente del Consiglio, al suo dialogo diretto con gli italiani, senza mediazioni partitiche e parlamentari, a “una celebrazione mediatica del capo, dell’uomo solo al comando, della verticalità” (Francesco Marchianò, L’onta del Covid).

In realtà dietro alle decisioni del leader carismatico vi sono come sempre l’economia e il sistema capitalistico, che hanno unificato il genere umano portando a far coincidere l’homo democraticus con l’homo oeconomicus e a neutralizzare così il politico. È in realtà l’economia a governare, a decidere per le sorti del Paese, indicando quali produzioni bloccare e quali no, a sacrificare la salute di milioni di lavoratori per consentire “a una parte della popolazione di tutelare salute e soddisfare bisogni al sicuro delle proprie case” (Michela Cerimele, Lavoro e pandemia: per un punto di vista di parte), e a dimostrare, ancora una volta, che quando si parla di profitto non tutte le vite sono uguali e alcune sono più sacrificabili di altre.

L’intera gestione della pandemia può essere quindi letta come il punto di approdo di un lento cammino, iniziato molto tempo prima, verso un’epoca di neutralizzazione e di spoliticizzazione, un’epoca di mancanza di punti di vista alternativi, di dissoluzione dell’elemento conflittuale, che del politico è elemento centrale, e di sottrazione di ogni spazio alla politica e alla sua autonomia.

Quello che è mancato durante i mesi dell’emergenza, e che sembra mancare tutt’ora. è dunque un soggetto politico forte, con capacità di decisione sulle sfide che il presente gli pone davanti, sfide che sono “genuinamente politiche” (Marco Montelisciani, Aspirare al ritorno. Per uno sguardo critico sul mondo nuovo). E per soggetto politico non si può intendere il solo capo del Governo che a forza di DPCM ha emarginato gli altri organi costituzionali nella gestione della situazione emergenziale. Questo tipo di decreti esistono sì per occasioni come questa ed è giusto che chi governa si faccia carico di prendere le misure necessarie, ma il punto è non permettere che tutto questo avvenga nel vuoto assoluto di discussione politica, nell’erosione dello spazio pubblico in generale.

È necessario, invece, trovare un modo più democratico e comunitario di affrontare emergenze come il Covid-19 e sottrarre ai processi di spoliticizzazione e di neutralizzazione il terreno del politico come apparato statale in senso ampio, comprendente i partiti, i sindacati, le culture politiche, per rilegittimare la politica al di là dell’economia e della scienza, entrambe, come si è visto, divenute le vere protagoniste della gestione della pandemia.

Contro leaderismo e populismo bisogna quindi assicurare una forma di decisione politica che non si risolva in una forma istituzionale verticalizzata e in una forma di rappresentanza personalizzata. Occorre liberarci da parole vuote come “governamentalità” per recuperare il tema del governo politico dei processi, l’idea che governare e prendere decisioni non significa solo gestire ma imprimere una direzione, cioè organizzare il governo, il conflitto sociale, la lotta politica, la battaglia culturale, realizzare una democrazia non solo formale ma organizzata in soggetti attivi che articolino, in quello spazio che Gramsci definirebbe della società civile, il conflitto egemonico e intellettuale.

È necessario, inoltre, riprendere questa agibilità politica nel reale attrezzandosi con strumenti pratici e teorici di parte, cioè dalla parte del lavoro che aiutino a stare dentro e contro la contingenza.

Avere un pensiero politico forte vuol dire infatti avere un punto di vista di parte che è l’opposto di ogni neutralizzazione e spoliticizzazione.

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