Recensione di Enzo Di Nuoscio del libro di Luigi Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti, Laterza, 2013
Nelle settimane in cui si sta mettendo mani alla Costituzione e alla legge elettorale, quella dell’ultimo libro di L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti (Laterza, 2013) dovrebbe essere una lettura obbligata. Con il rigore teorico di un maestro della Filosofia del diritto e la passione civile di un intellettuale engagé, Ferrajoli lancia l’allarme su quello che è forse il più grave problema politico dei nostri tempi: il progressivo indebolimento delle democrazie per opera dei grandi processi economici internazionali. Con la massiccia finanziarizzazione e la accelerata internazionalizzazione dell’economia si è rotto quel compromesso tra democrazia e capitalismo che nel secondo dopoguerra aveva garantito all’Occidente un benessere crescente, una sostanziale riduzione delle disuguaglianze sociali e un miglioramento delle chance di vita per i meno abbienti. Da alleata dello Stato di diritto l’economia di mercato si sta trasformando nella più pericolosa minaccia per la democrazia, a causa di una evidente asimmetria che è sotto gli occhi di tutti: il carattere nazionale degli Stati, e quindi delle decisioni politiche, e la natura internazionale dei processi economici. Il risultato è, da un lato, un’economia sempre meno regolata e regolabile, che in questi anni ha operato un sostanziale riorientamento delle risorse dalla produzione dei beni alla produzione dei titoli, e, dall’altro, una politica nazionale sempre più debole, spesso succube di grandi interessi. E’ la politica tout court a perdere la primazia, e di conseguenza si indebolisce lo Stato di diritto nazionale. Questo svilimento della politica non può che tradursi, per Ferrajoli, in uno svilimento dei diritti, formali (politici e civili) e sostanziali (di libertà e sociali), su cui si basa la “democrazia costituzionale”. Per la prima volta nella storia del secondo dopoguerra vanno in crisi i princìpi costitutivi delle democrazie, che sono sottratti persino al volere delle maggioranze; princìpi che configurano diritti ex parte populi, a cui corrispondono obblighi o divieti ex parte principis.
Per combattere questo declino della politica e della democrazia Ferrajoli propone di fare del costituzionalismo un “progetto politico”, che estenda i diritti individuali, che garantisca obblighi istituzionali, che regoli ambiti fino ad ora sottratti al diritto, elaborando strumenti all’altezza dei nuovi poteri economici globali. Questa risposta passa innanzitutto attraverso la costruzione di uno Stato di diritto europeo, che non può che nascere da una Assemblea costituente europea. Solo un vero e proprio Stato sovranazionale può essere realmente in grado di regolare i processi politici internazionali. E poi occorre un rafforzamento “intensionale” della dimensione formale della democrazia costituzionale, attraverso norme che separino poteri politici, istituzionali, economici e anche sociali. Norme che creino incompatibilità, che separino le istituzioni di governo dalle istituzioni di garanzia, che mettano al riparo le decisioni politiche da pressioni e conflitti di interesse, che distinguano e proteggano “beni comuni”, “beni sociali”, “beni fondamentali”, che rendano effettive le garanzie dei diritti sociali, a cominciare dal diritto al lavoro e ad un “reddito di base”. L’antidoto alla crisi della democrazia è dunque, per Ferrajoli, l’estensione di un costituzionalismo che vada nella direzione di un “welfare dei diritti sociali”, il quale preveda un preciso obbligo dello Stato a soddisfare tali diritti, anche attraverso impegnativi vincoli costituzionali che impongano al potere politico di destinare obbligatoriamente una certa quota del bilancio pubblico a specifiche finalità sociali.
Come gli altri libri di Luigi Ferrajoli, anche La democrazia attraverso i diritti è un libro che fa riflettere e discutere, per la sua capacità di mettere a fuoco temi non ancora sufficientemente tematizzati dalle varie scienze umane e sociali. E la riflessione che suscita l’approfondita analisi di Ferrajoli mi porta a formulare due osservazioni, una a livello di diagnosi e una a livello di terapia dei mali della democrazia. Riguardo alle cause, c’è da dire che la democrazia è minacciata non solo dall’asimmetria geografica tra mercato e Stato di diritto, su cui insiste Ferrajoli, ma anche da una asimmetria temporale tra le decisioni politiche, molto lente in uno Stato democratico, e quelle economiche, che spesso avvengono (come è il caso della finanza) in tempo reale. La conseguenza è un ulteriore subordinazione della politica all’economia. Inoltre, questa diversa velocità tra i processi politici e quelli economici produce un non meno preoccupante cortocircuito delle aspettative: per via di fenomeni economici e di innovazioni tecnologiche sempre più accelerate si generano nei singoli aspettative talmente elevate e urgenti, che le istituzioni non sono in grado di soddisfare, se non parzialmente. La politica ha sempre meno tempo per offrire risposte che i cittadini pretendono in tempi sempre più brevi, a volte insufficienti per implementare anche la più rapida delle decisioni. Una misura politica rischia di essere giudicata prima ancora che abbia la possibilità di dispiegare le proprie conseguenze. I tempi individuali e quelli delle istituzioni tendono a configgere, e la democrazia tende a perdere legittimità agli occhi dei cittadini.
Quanto ai rimedi, da giurista Ferrajoli guarda soprattutto all’aspetto giuridico e istituzionale del rapporto tra mercato e democrazia. E tuttavia se vogliamo evitare che alla consapevolezza della difficile coabitazione tra economia di mercato e democrazia si risponda con una proclamazione di diritti che rischiano di rimanere sulla carta, o con il ritorno ad un vetero-anticapitalismo (che non traspare dalle pagine di Ferrajoli), è bene tenere insieme l’aspetto giuridico con quello economico. E a questo proposito sarebbe bene che anche la sinistra riscoprisse quell’ignorato giacimento di preziose idee rappresentato dalla tradizione dell’”Economia sociale di mercato”. Un filone di pensiero che, a partire dagli anni Trenta con la Scuola di Friburgo del ”liberalismo delle regole” (W. Eucken, F. Böhm, H. Grossmann-Dört, C. Dietz, A. Lampe), si è sviluppato fino agli anni Settanta, con pensatori come W. Röpke, A. Rüstow, A. Müller-Armack, L. Erhard, K. Adenauer, a cui possono essere indirettamente associati intellettuali come L. Einaudi, L. Sturzo e F. von Hayek. Si tratta di una folta schiera di economisti, giuristi, filosofi, molti dei quali – al pari di Einaudi in Italia – hanno avuto un ruolo politico e tecnico di primo piano in Germania: Adenauer è stato il primo cancelliere della Repubblica Federale Tedesca (1949-63), Erhard è stato prima ministro dell’economia (1949-63), poi cancelliere (1963-66); Müller-Armack è stato Segretario di Stato presso il Ministero dell’economia diretto da Erhard; Röpke è stato un influente consulente del governo tedesco nel dopoguerra.
Il nucleo del “programma di ricerca” su cui hanno lavorato questi intellettuali e uomini politici può essere così sintetizzato: la concorrenza può diventare il più potente fattore di produzione di conoscenza, di incentivo all’innovazione, di garanzia dei diritti, di benessere sociale e anche la più efficace garanzia di solidarietà a favore dei più poveri, a condizione che si sviluppi nell’ambito di un solido Stato di diritto in grado di imporre regole all’economia di mercato, e che intervenga “fuori dal mercato” per aiutare i più bisognosi. Consapevoli che il mercato è il più potente dispositivo per l’esplorazione dell’ignoto e per la produzione di innovazioni, e quindi conferisce ad un gruppo sociale una superiore capacità di problem solving, questi autori ritengono che uno dei principali compiti dello Stato debba essere quello di difendere l’“economia di mercato” dalle degenerazioni (monopoli, oligopoli, ipertrofia finanziaria, plutocrazia) che di volta in volta produce il “capitalismo storico”. Occorre dunque uno Stato “autorevole e imparziale”, “forte” ma “non affaccendato” (Röpke), “custode dell’ordinamento concorrenziale” (Eucken), in grado di imporre un “ordine costituzionale” fatto di regole e autorità indipendenti, che delimitino lo spazio entro cui il mercato possa dispiegare la propria capacità di autoregolazione e di solidarietà. Mercato e Stato di diritto sono due facce della stessa medaglia: senza l’ordine di mercato i diritti rimangono lettera morta, mentre senza un Stato che abbia la forza di porre e far rispettare regole, il mercato produce i peggiori difetti del “capitalismo storico”. Come non esita ad affermare W. Röpke, “lo Stato deve essere in grado di difendere il capitalismo contro gli stessi capitalisti che volessero scaricare le loro perdite sulla comunità”. Combattendo i monopoli, gli oligopoli, le rendite protette e le altre forme di degenerazione dell’economia di mercato, lo Stato promuove un primo livello di solidarietà, poiché, come scrive Einaudi, i monopoli sono innanzitutto “un ladrocinio commesso ai danni della povera gente”.
Ma il rapporto tra mercato e solidarietà non si esaurisce nella lotta contro monopoli, oligopoli e speculatori. L’economia di concorrenza, essendo il mezzo più efficace per produrre e per far circolare conoscenze e rappresentando il meccanismo più efficiente per allocare e distribuire le risorse, è anche il miglior sistema per offrire mezzi a coloro che non sono in grado di competere, al fine di metterli nelle migliori condizioni per realizzare i propri obiettivi. Non deve dunque meravigliare che i teorici dell’”Economia sociale di mercato”, e in particolare Röpke, Einaudi e Hayek, in nome del “primato dell’etica” sull’economia, siano arrivati a proporre un reddito minimo garantito, insistendo sulla necessità di una “legislazione sociale” ispirata – scrive Einaudi – al “principio generale che in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita”, attraverso un intervento dello Stato che migliori le chances dei meno abbienti e che “avvicini, entro i limiti del possibile, i punti di partenza” degli individui. Una proposta, questa, che non solo non è in contrasto con la logica della concorrenza, ma che serve proprio a potenziarne le capacità di innovare e di generare progresso ed equità, per due precise ragioni: a) garantendo un sostegno economico a coloro che sono svantaggiati, si amplia la platea dei soggetti in grado di competere e quindi di arricchire con le proprie risorse conoscitive e materiali l’ordine concorrenziale, il quale – in questo modo – potenzierà la propria capacità di problem solving; b) assicurando un reddito minimo a tutti, si rinsalda quell’ambiente etico e sociale, che, come si è visto, è un presupposto fondamentale del buon funzionamento del mercato.
Credo che rispetto all’appassionata denuncia di Ferrajoli dei pericoli che oggi corre la democrazia, la tradizione dell’”Economia sociale di mercato” e il suo ”umanesimo economico”, come lo definisce Röpke, possa essere oggi considerata un imprescindibile punto di riferimento. Una tradizione liberale e socialista, purtroppo fino ad oggi fuori dall’orizzonte culturale della sinistra, e che invece può essere considerata un punto di riferimento fondamentale per una sinistra liberale e post-ideologica, che intenda coniugare libertà e uguaglianza, diritti sociali ed economia di mercato, capitalismo e Stato di diritto, produzione e distribuzione. Per una sinistra che, da un lato, non ceda all’antico richiamo statalista e, dall’altro, non si lasci sedurre da più recenti sirene del liberismo.

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