Interventi

Foto di Steve Buissinne da Pixabay 

Le reazioni isteriche che, dalla classe politica al sistema dei media al mondo economico, si sono levate contro la recente proposta di introdurre una forma d’imposizione patrimoniale la dicono lunga sull’enorme lavoro, anzitutto culturale, che è necessario svolgere per tornare a ragionare con serietà sull’argomento.

In materia, l’egemonia esercitata dai detentori della ricchezza è emblematicamente riassumibile nella diffusa convinzione che le tasse siano troppo alte e che occorra ridurle. Una convinzione subdola, nel contempo vera e falsa: perché se è vero che le tasse sono troppo alte, è falso che lo siano per tutti. In verità per i più benestanti la pressione fiscale si è, negli ultimi decenni, alleggerita oltre ogni ragionevolezza e, se ciò è potuto accadere, è proprio perché il peso del sistema è stato spostato in misura oppressiva sulle classi sociali inferiori. Denunciare, indistintamente, la pressione fiscale come eccessiva ha esattamente questo scopo: mescolare i ricchi, la classe media e i poveri in un’unica categoria – quella del contribuente vessato –, attribuendo valore generale a un problema particolare, in modo tale che anche chi non ne è colpito possa comunque approfittare della sua eventuale soluzione.

Secondo Oxfam Italia, che riporta dati del 2019, il 69,8 per cento della ricchezza nazionale italiana è concentra nelle mani del 20 per cento più ricco della popolazione, mentre il 20 per cento più povero deve accontentarsi dell’1,3 per cento del totale. Una polarizzazione spaventosa, che si inasprisce ulteriormente muovendo verso il vertice della piramide. E così, se il 5 per cento dei più benestanti possiede il 41 per cento della ricchezza complessiva, per l’1 per cento la fetta corrisponde al 22 per cento; se poi ci si spinge sino a considerare soltanto i primi tre italiani che compaiono nella lista dei miliardari stilata dalla rivista Forbes (Giovanni Ferrero, Leonardo Del Vecchio e Stefano Pessina), si scopre che, con 37,8 miliardi complessivi, essi possono fare affidamento su una ricchezza superiore a quella del 10 per cento più povero dei nostri connazionali (circa sei milioni di persone). Assogestioni – l’associazione che riunisce gli operatori del private banking – afferma che, a partire dalla crisi dei mutui subprime, l’ammontare delle risorse affidate dagli italiani a fondi d’investimento e gestioni di portafogli è sempre aumentato, sino a toccare la cifra record di 2.239 miliardi di euro nel 2020, a fronte degli 841,4 miliardi del 2008. La banca Credit Suisse aggiunge che i milionari in Italia sono più che triplicati negli ultimi dieci anni, passando da 424.000 nel 2010 a 1.496.000 nel 2019. Un’altra banca svizzera, la Ubs, si concentra sui miliardari, censendone quaranta nel 2020. Ancora pochi anni fa, eravamo collocati a metà strada tra gli Stati europei più e meno segnati dalla diseguaglianza; oggi, con il settimo posto in Europa secondo Eurostat, siamo saldamente inseriti nel gruppo dei più diseguali (al di sopra della Spagna, della Germania, della Francia e persino del Regno Unito, che pure ha subito per decenni le politiche ultraliberiste di Margaret Thatcher e Tony Blair).

Giunta a tale livello, la polarizzazione della ricchezza produce effetti negativi sullo stesso sistema economico, al punto da aver indotto a prendere posizione l’Ocse e il Fondo monetario internazionale: entrambi per suggerire l’introduzione di un’adeguata imposizione patrimoniale e l’incremento delle aliquote sulle successioni e sulle donazioni. Non si tratta solamente della necessità di reperire risorse di cui abbiamo un disperato bisogno: per il welfare e per l’enorme debito che dovremo ripagare. Il punto è che la società e il sistema economico sono bloccati, sclerotizzati da rendite di posizione inamovibili, strutturalmente chiusi all’apporto di forze fresche. Pochi fortunati possiedono ed ereditano, tutti gli altri sopravvivono. Sempre più la ricchezza viene accumulata per via ereditaria, sempre meno tramite il risparmio. Rimettere in circolazione le risorse dovrebbe essere ineludibile non soltanto per chi è politicamente sensibile ai temi sociali, ma anche per chi è economicamente interessato alla dinamicità del sistema produttivo.

La lotta di classe scatenata, e vinta, dai dominanti contro i dominati in nome dell’egoismo più ottuso e feroce ha cancellato la consapevolezza, un tempo propria anche del pensiero liberale, che «le imposte progressive […] sono vantaggiose alla collettività [in quanto] le minoranze, che soprattutto sono chiamate a pagarle, sanno che non l’odio e l’invidia le hanno determinate, ma il vantaggio pubblico del raggiungimento di fini universalmente reputati buoni» (L. Einaudi, Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino 1964 (prima ed. 1949), pp. 76-77). È, questo, il punto decisivo: far gravare l’impegno fiscale in misura maggiore sui benestanti – anche attraverso l’imposizione patrimoniale, ma, più in generale, tramite il rilancio della progressività – non è una scelta rivolta contro di loro, ma a favore dell’intera società, di cui gli stessi benestanti sono parte. Ragionare diversamente non può che condurre alla rottura dell’unità sociale e alla formazione di una classe di possidenti separata dal resto della collettività: una prospettiva di matrice cetuale, che non può più trovare ascolto in età contemporanea.

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