Interventi

Foto di Peggy und Marco Lachmann-Anke da Pixabay

1.Riaperture settembrine

In questi giorni d’agosto sono tanti gli appelli, i manifesti e lettere per la riapertura che circolano fra mail e gruppi online, nonostante il caldo afoso. Insomma, si sa che ferragosto è uno spartiacque, e che nelle ultime settimane di questo mese si riaffacciano le partite importanti: settembre è poi il mese in cui, parafrasando Guccini, torna in gioco la tua identità, e incombono decisioni e possibilità.

L’apertura in sicurezza, allora, sembra essere la sfida che accomuna prospettive e indirizzi anche assai differenti. Al centro, ovviamente, c’è la scuola: se a settembre riapre questa riapre tutto, visto che è stata la prima cosa a chiudere. Da ciò il valore simbolico della sua riapertura, oltre l’effettività di poter riprendere le lezioni in presenza.

Eppure c’è in tutto ciò una “positivizzazione” acritica dell’apertura che sembra avere il sapore di un inganno. L’apertura come fatto positivo “in sé”, senza neanche star troppo lì a discutere, sottende un’equazione ancora non del tutto problematizzata. L’apertura delle strutture (scuole, aziende, biblioteche, musei etc.) come sinonimo dell’apertura dell’accesso: alla formazione, al salario, alle condizioni per una vita dignitosa etc. Si tratta, a ben guardare, di un salto teorico del tutto indebito, per decostruire il quale siamo costretti a fare un passo indietro.

L’accessibilità è da sempre una questione assai spinosa, terreno di contesa e di conflitto. Se la logica del mercato tende ad assegnare valore patrimoniale ai beni e ai servizi, restringendo l’accesso al loro utilizzo solo a coloro che ne detengono la proprietà o che possono permettersi di pagarli, c’è chi si è battuto per sottrarre a tale meccanismo i beni e i servizi da cui dipende la possibilità di vivere dignitosamente. Un conflitto fondamentale ha opposto all’esclusività della proprietà l’apertura e l’inclusione, sancita da diritti fondamentali, non negoziabili. La storia del capitalismo è segnata da questa tensione, giocata dentro le lotte e il sangue vivo delle persone.

L’istruzione, la sanità pubblica e universale, il diritto a condizioni lavorative e salariali dignitose, sono fondamentali conquiste che hanno le loro radici in questo formidabile conflitto collettivo, che ha animato, in particolar modo, il ‘900 italiano ed europeo. Una sorta di linea immaginaria ha separato ciò che è ascrivibile ai diritti inviolabili della persona da ciò che è contendibile all’interno del mercato, una linea niente affatto conchiusa, sempre soggetta ad essere ridefinita a seconda dei rapporti di forza.

Si tratta, infatti, di un conflitto tutt’altro che risolto. Gli ultimi decenni hanno testimoniato un vigoroso movimento di restrizione degli spazi della cittadinanza. La grammatica dei diritti ha subito i colpi di un mercato che non accetta margini di indisponibilità alla propria logica. Ciò non ha significato semplicemente la restrizione dell’accesso a quei diritti e servizi fondamentali per la persona attraverso una loro sottomissione ai parametri patrimoniali, ma anche un adeguamento della qualità e della conformazione di tali servizi alle esigenze del mercato. La mercatizzazione della scuola e della formazione, l’aziendalizzazione della didattica e della ricerca, il controllo capillare del lavoro “autonomo” su piattaforma, la riduzione dei salari e la precarizzazione dei rapporti d’impiego sono solo alcuni dei processi che ci mettono di fronte, più ampiamente, ad un rafforzamento del mercato come principio di fabbricazione della realtà. L’accesso è precluso non solo a quelle categorie di soggetti che abitano gli ultimi gradini della gerarchia sociale, ma anche ad interi ambiti del possibile, incompatibili con la logica mercantile.

2.Vecchie e nuove vulnerabilità alla prova della pandemia

La pandemia ha mostrato tali livelli di vulnerabilità, nella loro connessione con la struttura dei diritti e delle protezioni sociali nelle nostre società, nella maniera più violenta ed eclatante. Precari e migranti, lavoratrici di cura e disoccupati, lavoratori dello spettacolo e nuove figure produttive, sono fra quelli che hanno pagato i costi più alti della crisi. Ad essere disvelati, al contempo, sono stati quei fattori che determinano condizioni di esclusione e fragilità, non solo in condizioni d’emergenza. La pandemia, insomma, ha avuto il grande merito di mostrarci in maniera chiara il campo di battaglia con cui è necessario confrontarsi per estendere gli spazi dell’autodeterminazione e della democrazia. Ci sono balzati agli occhi, durante le settimane del lockdown, i tanti confini che attraversano le nostre città, che più che costituire dei limiti “esterni” ai nostri spazi contribuiscono attivamente alla loro strutturazione, producendo linee di sfruttamento e gerarchizzazione.

Ad aver fatto sentire in maniera violenta la propria forza, allora, più che la grande “chiusura” del lockdown, sono le tante piccole chiusure che, ogni giorno, nelle nostre città, differenziano l’accessibilità in base a una serie di fattori – razza, genere, patrimonio etc. – declinati in funzione degli imperativi del mercato.

Piuttosto, durante l’emergenza sanitaria, la chiusura delle attività produttive, nonché delle strutture scolastiche, rispondeva ad una necessità reale, ovvero a quel bisogno collettivo di sicurezza sociale, che solo per mezzo del distanziamento poteva essere garantito. I primi a schierarsi contro il famigerato “controllo sociale” indotto dal lockdown, non a caso, sono stati proprio i grandi poteri privati e le associazioni di categoria ad essi connesse, preoccupati dagli effetti del blocco della produzione. Questa chiusura ha certamente approfondito le disuguaglianze e le situazioni di disagio, in quanto è venuta a imprimersi su una realtà già fondata sull’esclusione e sulla riproduzione della dipendenza e della vulnerabilità.

È necessario, allora, tenere bene a mente le coordinate in cui si gioca questa partita. Battersi per ristabilire il ruolo di primo piano della scuola e della formazione, contro l’esclusione sociale prodotta dalle tante situazioni di povertà e fragilità aggravate dall’emergenza sanitaria, per la centralità delle arti, dello spettacolo e della cultura, per la dignità dentro e fuori il lavoro, non significa chiedere semplicemente la “riapertura”, schierandosi per un ritorno ad una normalità improvvisamente assurta a oggetto di venerazione.

Significa, piuttosto, combattere perché ciascuno possa affrontare i tanti rischi che affollano la nostra quotidianità in condizioni libere e dignitose, senza dover cedere ai ricatti, senza dover far violenza alla propria carne e al proprio spirito, pur di procurarsi da vivere. Significa battersi perché tutti possano stare al mondo oltre le censure e le rimozioni operate dai tanti muri e confini che strutturano le nostre società.

3.Per un welfare universale oltre l’emergenza

In queste settimane scadono i termini per la presentazione della domanda per il Reddito di Emergenza, un dispositivo d’eccezione per soggetti in stato di bisogno. Si tratta, come tutti i dispositivi di sostegno al reddito già varati nel nostro paese, di uno strumento “tappabuchi”, teso a sostenere il soggetto in attesa del ripristino del normale funzionamento del mercato – in questo caso – o, in generale, a favorire l’inclusione del beneficiario nei suoi meccanismi. Un fronte di rivendicazione fondamentale, per i prossimi mesi, è quello per un reddito di base oltre l’emergenza, che riconosca la possibilità universale di autodeterminarsi, superando l’impianto workferistico e categoriale del reddito di cittadinanza. Quest’ultimo ha dimostrato, infatti, tutti i propri limiti, non coprendo una grande quantità di categorie di persone, a cominciare da una fetta importante di stranieri pur regolarmente residenti.

Dentro la “sospensione” che stiamo vivendo, un dispositivo di sostegno al reddito di carattere universale aprirebbe una sfida dal carattere assolutamente inedito. Si tratterebbe, infatti, di dare la palla, per una volta, ai soggetti in carne e ossa, alla loro capacità di immaginare e costruire un’altra “normalità”, che chiuda per sempre le porte ai fantasmi che bussano alle porte delle nostre insicurezze e paure. Si tratta di sfidare il vuoto grazie alla capacità collettiva di tessere nuovi legami e inventare nuovi modi di stare insieme, assumendo la solidarietà come principio per un nuovo futuro possibile.

È, questo, un modo molto diverso di intendere la “riapertura”, che pure chiama in causa il coraggio di ciascuno. Ciò non significa certo deporre le armi della critica anche rispetto a come è stata gestita la fase successiva al lockdown, alla scala di priorità che è stata adottata nella riapertura delle strutture, allo scarso impegno riposto nell’immaginare delle forme di distanziamento in presenza per i settori culturali e della formazione etc. Vuol dire, però, proiettarsi verso un’apertura più radicale, che allarghi il campo del possibile dando spazio ai desideri e alle capacità delle persone. Per questo, è necessario indirizzare subito i fondi che sono stati ottenuti dall’Europa verso quei settori abilitanti indispensabili per una ripartenza “dal basso”: welfare, formazione, sanità, ricerca.

Ciò costringe inoltre a fare i conti con le contraddizioni della realtà, mettendo le persone in condizione di affrontare anche una fase dai caratteri assolutamente inediti come quella emergenziale, mettendo in atto le strategie più convenienti per poter produrre, relazionarsi agli altri, costruire nei modi migliori le forme della vita in comune. In quest’ottica, anche il digitale ha mostrato alcune potenzialità, nel campo del lavoro, della formazione e non solo, permettendo, ad esempio, di superare tante barriere materiali, agevolando alcune forme di interazione e facilitando gli scambi e la creazione di esperienze innovative di solidarietà e mutuo aiuto. Si tratta di un terreno assolutamente ambivalente, ricco di insidie, ma che proprio per questo deve essere assunto come spazio di conflitto e di costruzione politica, piuttosto che essere lasciato all’arbitrio del mercato.

C’è insomma la possibilità di riaprire i nostri mondi prima ancora della riapertura “materiale” di spazi e strutture, pur tanto attesa. Perché la “riapertura” non sia un tunnel che ci fa ripiombare in un presente sempre identico, ma una porta verso l’imprevisto.

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