I risultati delle ultime elezioni certificano lo stato di crisi, evidente e difficilmente negabile, della sinistra italiana. Una crisi di cui c’erano tutte le avvisaglie. Prima del 24 e 25 febbraio nessun osservatore ragionevole pensava, intimamente, che la sinistra fosse largamente maggioritaria nel paese, inattaccabile per la coerenza e l’incisività delle sue proposte.

Semplicemente credevamo che la coalizione “Italia Bene Comune” tenesse, ce la facesse per inerzia e in virtù di un sistema elettorale che in una situazione di frammentazione dell’offerta finisce per premiare la minor debolezza, più che la maggior forza. E che l’evidente frammentazione del quadro politico, prima ancora che dell’offerta elettorale, avrebbe potuto premiare con la maggioranza parlamentare una proposta, che, sebbene non scevra da incertezze e ambiguità, restava comunque la più strutturata e credibile.
Non è andata così, e oggi Pd e Sel, invece di dedicarsi all’elaborazione di una piattaforma più solida che permetta al governo di svolgere il suo ruolo per l’uscita a sinistra dalla crisi, secondo il percorso che Mario Tronti indicava un anno fa, si ritrovano a fare l’ennesima autocritica.
Chi scrive non è del tutto convinto che la sinistra, o il centro-sinistra, non conosca questo paese, come potrebbe venir spontaneo pensare in questi giorni. Di certo un paese non si conosce mai abbastanza, e quella di riannodare i legami con il proprio popolo è una missione che nessuna sinistra minimamente credibile dovrebbe mai abbandonare. Lo sforzo di ricerca e di conoscenza della realtà sociale, nei suoi anfratti irraggiungibili dai media mainstream, fa sempre molto bene alle forze progressiste e popolari. Non è questo il punto però, ora.
La contingenza immediata con cui confrontarsi è, infatti, quella della situazione parlamentare caotica che il risultato elettorale consegna all’Italia. Rifugiarsi nel settarismo è nel disfattismo può essere ulteriormente nocivo per la sinistra, che se pensa di dare un valore alla propria identità deve difendere i principi su cui si fonda la sua missione politica, e deve farlo rivendicando un patrimonio di cui nessuno può pensare di appropriarsi solo sbandierando un generico monopolio della rivolta.
Il ragionamento può sembrare astratto, ozioso, oppure all’opposto può apparire eccessivamente pragmatico. La questione può essere posta in questi termini. Negli ultimi anni abbiamo sentito ripetere un mantra: destra e sinistra sono categorie del passato, coordinate meramente geometriche prive di contenuto politico sostanziale. Lo grida il tribuno Grillo con veemenza, ma lo sostiene da tempo ormai immemorabile un teorico di spessore come Massimo Cacciari, che lo ripete ogni piè sospinto. Mario Monti ha tatticamente fatto suo l’argomento in campagna elettorale. Vendola, e pochi altri nella coalizione IBC, hanno cercato di reagire a questa asserzione apodittica.
Il punto è, però, che la differenza tra destra e sinistra, dato di realtà o categoria dello spirito a seconda dei diversi rapporti che ognuno di noi intrattiene con il trascendente, suona sempre di più come una petizione di principio, un’affermazione specularmente apodittica. Si intuisce che questa differenza esista. Lo si afferma, spesso argomentandolo e supportandolo con esempi tangibili: le politiche, gli interessi, i valori. Sussiste una differenza che non è una superiorità etica, ma una diversità politica dimostrabile. Come e dove?
Il Parlamento uscito dalle urne ha una configurazione da Quarta repubblica francese, più che da prima repubblica italiana, dove alcuni punti ubi consistam c’erano. Un assetto tripolare in cui il centro ha una posizione indubbiamente residuale. Il Senato, in particolare, presenta uno scenario potenzialmente ingovernabile, da guerriglia assembleare, in cui la “terza forza” non è costituita dal blocco moderato ma dal contingente del Movimento 5 Stelle. Questa tripolarità non cancella il fatto che il parlamento sia il luogo delle scelte binarie, sin da quando, nell’89 rivoluzionario, i concetti di destra e sinistra emergono nell’Assemblea nazionale costituente. Lo è soprattutto il nostro Senato repubblicano, dove l’astensione conta come voto negativo.
Sorvoliamo sui modelli Crocetta, sulla questione della “ non sfiducia” di andreottiana memoria, o su quella di eventuali uscite dall’aula. Ciò che più conta è l’opportunità che questa crisi offre. Non solo di dimostrare che ci sia una differenza tra sinistra e destra. Ma anche di verificare se davvero il M5S costituisca un blocco monolitico di attivisti, elettori e parlamentari pronti a credere, obbedire e combattere in nome del proprio capo. Ciò è perfettamente legittimo. Finché vige l’articolo 67 della Costituzione, scouting e cooptazione sono termini che attengono più al chiacchiericcio che all’analisi politica. Se destra e sinistra sopravvivono come opzioni distinte, allora ci saranno anche all’interno del Movimento di Grillo e Casaleggio una sinistra, una destra, magari un centro come posizione intermedia e relativa. Magari non ancora “per sé”, ma senza dubbio “in sé”. Se la sinistra ha una ragion d’essere in termini di contenuti politici e idea di società, non resta a Pd e Sel che accompagnare la richiesta della fiducia, che resta dirimente, con una piattaforma di proposte di sinistra che esprima la volontà di cambiamento, e non i rigurgiti regressivi che pulsano nel paese.
Vanno in questa direzione gli ormai ben noti otto punti di Bersani: politiche anti-austerità, misure urgenti sul fronte sociale e del lavoro, riforma della politica e della vita pubblica, giustizia sociale e sull’equità, legge su conflitti di interessi e incandidibilità, economia verde, diritti civili, istruzione e ricerca. Sul fatto che si tratti di politiche di sinistra sussistono pochi dubbi. Procedere in questa direzione non è importante solo per dare un governo al Paese. Lo è anche per fare chiarezza, nel campo della sinistra e in quello dell’attuale primo partito d’Italia.
Molti sostengono, non a torto, che il fenomeno Grillo non sia sovrapponibile al modello del populismo di destra, perché nel suo elettorato ci sono sensibilità della sinistra delusa, oltre a quelle della destra antipolitica dalla faccia feroce. I dati dei flussi elettorali sembrano confermare la molteplicità della constituency Cinquestelle. Se così è, e se la sinistra esiste, sul piano ideale e sostanziale, nel M5S non potranno che emergere sensibilità differenziate ed è più che probabile che non pochi dei suoi senatori si faranno portatori di istanze “di sinistra”.
Si tratta di uno scenario verosimile, a una condizione: che la “frazione parlamentare” del M5S non sia sotto scacco di una “legge ferrea dell’oligarchia”, tanto per scomodare Michels. E che dunque non ci sia un rifiuto pregiudiziale di certe proposte. Il “popolo delle piazze” che ha eletto i senatori di Grillo sarebbe spettatore, alla luce del sole, di questo arroccamento anticasta. La chiusura aprioristica del M5S nei confronti di qualsiasi proposta di questo genere sarebbe, infatti, una dimostrazione coram populo della non democraticità del movimento, e del fatto che nessuno può considerarlo come una “costola della sinistra”. Il tentativo può essere, rischioso, perché velleitario e quindi controproducente. Ma non esistono alternative immediate, a parte l’inazione, il logoramento, l’inabissamento.

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