Interventi

Scavando nei fondi dell’Archivio Pietro Ingrao, il curatore, Alberto Olivetti, ha trovato una chicca che l’Ediesse, la casa editrice della Cgil, ha appena pubblicato con un titolo curioso, «Tentativo di dialogo sul comunismo». Tentativo: Ingrao, letto e riletto il testo in cui Ferdinando Camon aveva condensato i tre lunghi colloqui che avevano avuto tra il dicembre del 1993 e il maggio del 1944, decise di non farne nulla. Non era soddisfatto. E Camon, che pure insistette assai per darlo alle stampe, comprese bene il perché. «Dialogando con lui… avevo l’impressione che quel che diceva fosse meno di quel che pensava e viveva. Sentivo una passione a monte del suo discorso, che il discorso smorzava e riduceva a semplici parole… Chi ha vissuto tutta una vita per fare il comunismo contrae un’esperienza che in un tempo non comunista non è dicibile e non è comunicabile», scrive nella premessa al libro appena uscito. E ha per molti aspetti ragione. È vero, molti comunisti italiani, compreso Ingrao, in «Volevo la luna» (Einaudi nel 2006), hanno poi scritto, in tutti questi anni, del comunismo italiano e di loro stessi. Ma il patriarca che rifiuta caparbiamente di archiviare quella parola grande e terribile, comunismo, ne ragiona nel salotto di casa con il narratore veneto quando la bandiera rossa è stata ammainata dal Cremlino da due anni appena. Da un trentennio almeno critico severo dell’Unione Sovietica, Ingrao non apprezza molto, giurerei, Evgenij Evtusenko, il bardo di un dissenso a dir poco cauteloso. Ma si riconoscerebbe, forse, nei suoi versi: «Arrivederci bandiera rossa…/Ora, nel gran bazar d’Ismajlovo/ti smerciano per pochi dollari, alla meglio./Io non ho preso il Palazzo d’Inverno./Non ho assaltato il Reichstag./Non sono un kommuniak./Ma guardo la mia bandiera e piango». Solo in parte, però. Ingrao non piange e non rimpiange. Tenta piuttosto, stando, come diceva lui, «nel gorgo», di ritrovare ragioni perché non quel comunismo, ma un comunismo inteso come «tensione verso la felicità» ritorni in campo, perché la sua caduta, sostiene, «ha prodotto un arretramento anche delle altre dottrine, che adesso promettono meno di prima, come se nella coscienza di tutta l’umanità, anche non comunista, l’idea di felicità si fosse allontanata». Rifiuta l’idea, ormai accettata nemmeno troppo implicitamente dai suoi compagni, che la storia sia finita con una sconfitta senza appello. Ma sa bene che il mondo di ieri, il mondo di cui pure in una postazione di frontiera ereticale ha fatto parte per una vita, è crollato. Più che strade nuove, prova, anche un po’ alla rinfusa, a immaginare rifondazioni radicali: «Il comunismo di ieri era tutto “fare”, tutto “lavoro”…, il comunismo di domani… dev’essere un comunismo “romantico”, “psicologico”, “sentimentale”, che recupererà anche proposte dell’età preindustriale, senza ripetere le condizioni sotto umane della vita contadina» descritta da Camon nei suoi romanzi.

Probabilmente Ingrao stesso sa bene, e anche per questo, penso, si convince a non pubblicare nulla, che questi sguardi inquieti lanciati, tra le rovine, su un futuro quanto mai ipotetico, gli tirerebbero per l’ennesima volta addosso, ma elevata a potenza, l’accusa, carica di scherno, di essere «solo» un poeta, che in politica vuol dire un acchiappanuvole. E quelli che hanno conosciuto gli Ingrao si commuoveranno anche un poco, leggendo i brevissimi interventi della moglie, Laura, che compare a tratti nella conversazione come per tirargli affettuosamente la manica, e aiutarlo (in verità, senza grande successo) a sfuggire questa trappola introducendo qualche notazione più «realistica». Hanno fatto bene Olivetti, Camon e l’Ediesse a mandare in libreria un testo che, un quarto di secolo fa, l’interessato ha preferito restasse nel cassetto. Quell’arrovellarsi su come una speranza di liberazione (perché così Ingrao continua a leggere la rivoluzione d’Ottobre) si sia trasformata in un incubo appartiene tutto al Novecento, e il Novecento le sue sentenze le ha emesse.

Ci sono però dei giovani, forse più numerosi di quanto si creda, ai quali non certo il comunismo, ma quel rifiuto testardo di accettare l’idea che questo sia il migliore, e comunque l’unico dei mondi possibili, può dire ancora qualcosa. Molti (la grande maggioranza) non hanno una casa partitica, altri (non tanti) ce l’hanno ma, così com’è ridotta, gli va molto stretta e vorrebbero ristrutturarla radicalmente. A questi ultimi ha dato voce «La sinistra e la scintilla», il libro (da leggere) di Giuseppe Provenzano, trentasettenne vicedirettore della Svimez che milita tuttora nel Pd, pubblicato di recente da Donzelli: una critica impietosa alla sinistra «che ha perso perché è diventata centro», un appello, e qualcosa di più, «a due o tre generazioni cui la sinistra non ha dato nulla» perché questa sinistra se la prendano, e in nome di un’idea moderna di socialismo. Non c’è niente a legare, storicamente e politicamente, un giovane neosocialista come Provenzano a Ingrao, che se ne è andato a cent’anni da comunista. Tranne la convinzione, in qualche modo comune, che «il destino non è segnato», e che le ragioni della sinistra, non solo l’uguaglianza, ma prima tra tutte l’uguaglianza, quando tutto sembra parlare in senso contrario, sono tuttora attuali, e forse più attuali che mai, purché ci sia una forza che abbia la capacità, e prima ancora la voglia, di evocarle e di farle contare.

Qui la scheda del libro “Tentativo di dialogo sul comunismo”

Articolo di Paolo Franchi uscito il 29/04/2019 sul Corriere della sera

2 commenti a “La sinistra tra i sogni persi e una felicità più lontana”

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