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Lavoro

Un saggio di Mario Tronti uscito sul numero 1-2/2010 di Democrazia e Diritto
Pubblicato il 23 Novembre 2012
Materiali, Officine Tronti, Scritti

Lavoro come parola chiave, funziona sempre. Funziona, paradossalmente, per l’uno e per l’altro degli schieramenti, sociali e politici, contrapposti. O pro, o contro. E se fosse reale questa numerazione delle Repubbliche, se ne potrebbe narrare la storia anche attraverso il rapporto tra sistema politico e lavoro. Sarebbe interessante. Quelle che si sono chiamate prima e seconda Repubblica, sono di fatto le due parti in cui si è divisa l’età repubblicana fin qui. Immaginando, in mezzo, una data di frattura, direi 1980, la sconfitta operaia alla Fiat, simbolicamente rappresentata dalla marcia dei cosiddetti quarantamila. Uso per prudenza dei congiuntivi, perché le valutazioni sono soggettive e i riscontri empirici sono sempre lì in agguato pronti a smentirti.

Ma insomma, tra anni Settanta e Ottanta, c’è un passaggio di fase politica e di ciclo economico. Ed è esattamente sul punto lavoro che si fonda il cambio di egemonia culturale da sinistra a destra. L’art. 1 Cost., la Repubblica democratica fondata sul lavoro, compromesso di alto livello delle culture socialista, comunista e cattolico-democratica, non era stato praticato esattamente allo stesso modo, negli anni dal ’48 al ’79. Ma per tutte era rimasto architrave indiscutibile del sistema politico-sociale. Questo ha pesato anche nel trentennio seguente, tanto che gli attacchi alla Costituzione formale, sempre più virulenti, si erano comunque fermati davanti a questo principio. E’ la Costituzione materiale che lo ha di fatto rovesciato. E sarebbe da discutere se il principio sostitutivo reciti: una Repubblica fondata sull’impresa o una Repubblica fondata sul mercato. Sappiamo teoricamente che tra impresa e mercato c’è questo rapporto di ambigua corrispondenza. Ma, storicamente, chi viene prima, chi è nato prima? Tra mercantilismo e industrialismo, c’è un percorso. E del resto è quando l’impresa diventa fabbrica che il lavoro sale al centro.

L’economia politica classica descrive questo passaggio. Ma si può, esso, rovesciare, dentro una struttura capitalistica, come si è tentato di fare, nel ciclo detto neoliberista? E non sta qui la causa di fondo dell’attuale crisi? Nella transizione dalla centralità della produzione alla centralità del mercato, per di più in un’economia globalizzata, si è costruito più un apparato ideologico che una trasformazione strutturale. Si può, a mio parere, ragionevolmente sostenere che la lotta contro il lavoro ha motivato il mutamento di fase politica al punto tale da obbligare a un mutamento di ciclo economico. Mi capita spesso di ricordare, contro l’ortodossia economicista: guardate che Locke è venuto prima di Smith. Così il neoliberalismo ha fondato la libera concorrenza. E allora oggi: prima si è messo in discussione lo Stato sociale, poi si è passati all’ideologia dell’autoregolazione dei mercati. C’è stata la Trilaterale prima che iniziasse il ciclo che chiamate neoliberista.

La lettura politica della crisi economica è indispensabile per capire come stanno veramente le cose. Mettersi del tutto dentro i loro conteggi e muoversi lì per aggiustare le somme, è devastante. Tra l’altro, così non se ne esce, né loro né noi. Gli economisti mainstream dell’ultimo trentennio hanno dimenticato che il capitalismo è economia politica, come ci avevano insegnato i pensatori classici, del Settecento e del Novecento. I fattori oggettivi muovono e sono mossi attraverso soggetti, soggettività sociali e persone in carne ed ossa. Vi ricordate? Sono gli uomini che fanno la storia, anche se in condizioni ben determinate. Il lavoro è, di questo, espressione centrale. Se non lo prendi, e non lo tratti, come un punto di vista, autonomo, danneggi, non solo l’interesse dei lavoratori, anche quello degli imprenditori. Il grande imprenditore ne aveva coscienza, perfino teorica, il piccolo e medio ne ha esperienza pratica quotidiana e diretta. Ma certo non puoi chiedere questo alla speculazione finanziaria, e nemmeno, ai guru del capitalismo della conoscenza, fantasmi viventi nel virtuale, che nell’Idaho non a caso hanno eletto Monti loro re travicello. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi, oltre che sulla nostra pelle: una crisi, di cui ancora nessuno sa come e quando finisce. Forse è necessario tornare al marxiano Doppelcharakter del lavoro, forza-lavoro e capitale variabile, valore d’uso e valore di scambio, oggi potremmo dire, merce e persona, cioè lavoro e lavoratore.

Direi che questa torsione antropologica, oltre che politica, o meglio questa antropologia politica applicata al fattore lavoro, è il passo teorico da compiere, tenendo fisso lo sguardo alle possibili ricadute sulle nuove frontiere del conflitto, che rimane sempre il punto decisivo sulla questione. Perché una cosa chiara bisogna dirla. La lotta di classe c’è. Non è lì che è avvenuta la fine della storia. E’ avvenuta piuttosto sulla rappresentazione che di essa ha dato, in eccezionali forme, quel grande secolo che è stato il Novecento. Alla lotta di classe è accaduto quello che è accaduto al mondo.

Ma la lotta di classe era essa stessa un mondo. Anche quella lotta è diventata unipolare. E’ ora a senso unico. Viene organizzata da una parte sola. E sappiamo, l’abbiamo imparato una volta per tutte nell’adolescenza intellettuale, che la lotta, qualunque tipo di lotta, o viene organizzata, o non c’è, o è come se non ci fosse. Esattamente quanto avviene adesso, ovunque, in Usa, in Italia, o in Cina. Chi rappresenta, o dovrebbe rappresentare, il punto di vista lavoro, non preoccupandosi più di dare forma a quella lotta, non la vede neppure più. Non è sbagliato coniugare lavoro e impresa.

E’ sbagliato pensare e praticare il rapporto in una utopia collaborativa, che non solo esclude ma demonizza il conflitto. Se la Sinistra, quella maggioritaria, quella riformista, quella di governo, non fa rientrare nella sua testa, oggi di legno, che il suo luogo di elezione, storicamente naturale, è il conflitto, prima di tutto sociale, non riacquisterà credibilità, e direi legittimità, presso il suo popolo. L’arma vincente è mostrare allo stesso interesse capitalistico che il conflitto è il motore dello sviluppo. Le fasi di maggior crescita hanno coinciso con le fasi di maggior lotta. Vedi il caso italiano degli anni Sessanta. Vedi il caso americano, anni Trenta, post-crisi, la scelta roosveltiana-keynesiana di uscita dalla crisi, grandi lotte, grandi conquiste operaie. Le ricette di oggi sono esattamente opposte, dall’una e dall’altra parte. La giaculatoria dell’appello alla coesione sociale è una ricetta non di superamento ma di prolungamento della crisi.

Non risveglia quelle energie sociali, che, in campo, potrebbero dare la scossa che serve ad un’economia reale inceppata. La richiesta, che pure si fa, di rilancio della domanda, per più consumi trainati da più redditi, e quindi più e non meno lavoro e meglio garantito, è né più né meno che la richiesta di un mutamento dei rapporti di forza dominanti. Ma dietro la posizione dell’economista ben orientato, non si intravede la volontà del politico ben determinato. La depressione politica non contribuisce certo a risolvere la depressione economica, piuttosto la riproduce in maniera allargata. Il governo tecnico è, in questo senso, la soluzione peggiore. Certifica, non mobilita. Fa i compiti a casa invece che dettare il tema vero da svolgere a scuola. Abbiamo detto che i capitalisti fanno lotta di classe a senso unico. La fanno male. Perché pensano di farla irrigidendo le sbarre nella gabbia d’acciaio delle compatibilità di sistema economico-finanziario. La fanno attraverso il Fondo monetario internazionale, la Banca centrale europea, i vertici, anche lì tecnici, dell’Unione economica europea. Gli Stati nazionali le manovre le facevano magari contro il parere dei sindacati e delle forze politiche di opposizione, ma prima si misuravano, si confrontavano, se non altro per capire i margini fino a cui spingere la manovra stessa. Questi, li spaventa non solo il conflitto, addirittura la concertazione, il fatto di solo sedersi al tavolo con le cosiddette parti sociali. E’ il segno di una condizione, che poi per me è all’origine di tutti i mali presenti: il miserabilismo delle attuali classi dirigenti e dominanti. Ci sono vari gradi, nei vari paesi, di questa miseria. Qui da noi, è per l’Occidente, quasi il fondo. La stessa postazione di sinistra ne è rimasta gravemente danneggiata. Come è possibile che salga di qualità un progetto e un ceto politico alternativo quando per vent’anni ti devi misurare con un Berlusconi, che appena mostra di cadere, e tra l’altro non lo fa mai veramente, non è che viene fuori Rathenau nelle vesti di Montezemolo, viene fuori Grillo. E vai, per lo stesso spazio d’anni, con gli Ulivi, le Unioni, lo coalizioni con tanto di papa straniero. E’ un miracolo che si veda emergere una generazione che vuole ripartire da politica e organizzazione, da autonomia culturale e rinnovato gusto per le lotte: non a caso dicendo “il lavoro prima di tutto”, o come si voglia dire, il lavoro al centro, scegliendo comunque quel punto di vista per ricementare un campo di forza d’attacco. Attenzione. Il miserabilismo delle classi dirigenti si può anche ripresentare nell’impeccabile stile accademico del grande borghese. L’intento è lo stesso.

Mi sono chiesto spesso: perché questo accanimento contro le conquiste di redditi, di diritti, di piena occupazione, di welfare, e di presenza, di protagonismo, delle classi lavoratrici durante i famosi “trenta gloriosi”, 1945-1975? Perché questo vero e proprio odio contro i soggetti di quelle conquiste, sfociato poi nell’ignobile – ignobile! – principio “meno ai padri e più ai figli”? Si ragiona oggi di debito e colpa, ebbene debito e colpa vanno messi sulle spalle dei lavoratori per il fatto che avevano vinto le loro battaglie, colpa loro e dei sindacati che li avevano organizzati, dei partiti che li avevano rappresentati dei governi che li avevano subiti. Racconto, facendo forza sulle mie abitudini, un episodio personale. Ero in Senato quando c’erano, per mia fortuna insieme, Miglio e Bobbio. Sedevamo in disparte, a conversare, e Miglio dice: sapete qual è una categoria fondamentale della politica? la vendetta. Bobbio disse subito apertamente di no, io, in cuor mio, mi dissi, ma forse sì. Di questi tempi, ne ho trovato conferma. La spiegazione del protervo atteggiamento padronale degli ultimi trenta anni ingloriosi non sarà tutta qui, ma una parte c’è. E’ dagli anni Ottanta, e l’89 e il ‘91 hanno dato una buona mano, che questo spirito di rivalsa anti-lavoro si è imposto, non ha fatto grande storia, piuttosto cronaca quotidiana, ma ha occupato il territorio-mondo e non ha ancora contro di sé chi lo contrasti al suo livello. La reazione antinovecentesca ha poi vestito i panni della grande innovazione, messa in farsa di quell’atto tragico che nel secolo scorso era stato “la grande trasformazione”. Gli sono andati dietro intellettuali liquidi e politici leggeri, ancora oggi vediamo corrergli accanto, a destra e a sinistra, tutti quelli che quando sentono la parola lavoro mettono mano alla pistola con il web in canna.

Mai ci sono stati nel mondo tanti lavoratori, e così tanti operai, e mai così soli, abbandonati e disperati. Dalla crisi, le lotte?. C’è da dubitarne. La crisi di chi comanda mette in difficoltà prima di tutto chi lavora. Divide, non unifica, mette gli uni contro gli altri, quelli che di più la crisi la soffrono. La crisi, come la guerra, è sempre un meccanismo interno di aggiustamento di sistema. Il capitalismo ne ha un bisogno periodico, e sa già in anticipo chi la dovrà pagare. A meno che non ci sia qualcuno, non un singolo, ma un soggetto, una potenza, che offra i modi per approfittarne. Come in quell’assemblea, nella profonda Russia, quasi alla fine della grande guerra, un paese distrutto, fame e miseria ovunque, dal palco si domandò: ma c’è qualcuno che se la sente di prendere in mano una situazione come questa, e dal fondo della sala un piccolo uomo si alzò, a dire: sì, c’è! Ma si chiamava Lenin. In effetti, quella situazione era un po’ più grave della nostra, magari le forme dell’azione non potrebbero essere esattamente quelle, ma c’è una cosa che si chiama volontà politica, e non è come la grazia del carisma quel di più, che se non ce l’hai, nessuno te lo può dare. Il punto di vista del lavoro quella volontà te la sa dare. Se lo leggi con la politica, se con la politica lo pensi, lo pratichi e lo organizzi. Un’operazione al momento improbabile, non impossibile.

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