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Smart
L’aggettivo smart è stato associato a qualunque sostantivo, dal frigorifero alle reti elettriche, per indicare un miglioramento, un superamento di qualche limite. Ma se il sostantivo che diventa smart non è più un oggetto fisico, il significato ammiccante dell’aggettivo qualificativo – paradigmatico dell’innovazione digitale – diviene rarefatto. Un telefono smart si può supporre che abbia più funzioni di uno normale, così come un termometro o un palo della luce, ma che cosa è il lavoro smart, e soprattutto, che cosa è una città smart? Nessuno si permetterebbe di dire che la Roma antica, la Firenze rinascimentale o la Parigi della Belle Époque fossero città stupide, dunque erano città intelligenti: così una smart city dovrebbe per definizione essere qualcosa di più. Ma cosa?
Se cercate una definizione di smart city ne troverete moltissime, nessuna precisa e dunque troppe. Si parla di smart city da molto tempo. Possiamo datare l’introduzione del termine alla fine degli anni Novanta ed attribuirla a IBM. Nei primissimi anni 2000 il termine smart city si afferma a partire dagli USA e si diffonde sia nel nord che nel sud del mondo, dove lo sviluppo di mega metropoli, in Cina come India, dà un forte impulso alla creazione, talvolta ex novo – di nuove città smart. In Europa si impone a cavallo dei primi due decenni del nuovo millennio. Nel report Mapping smart cities in the EU (2014) la smart city è definita «una città che cerca di affrontare le sue emergenze più significative attraverso l’utilizzo intenso e innovativo delle tecnologie digitali». La città smart, a seconda dell’ambito di utilizzo che si intende promuovere, diventa Knowledge city, sustainable city, talented City, wired city, digital city, eco-city. Le smart cities europee sono inizialmente identificate come città con almeno una iniziativa rivolta a una fra le seguenti sei caratteristiche: smart governance, smart people, smart living, smart mobility, smart economy e smart environment. Il VII programma “Quadro Ricerca e Sviluppo”, con altri programmi europei del ciclo di programmazione 2007-2013, entra nel cuore della smart city: «un ambiente aperto di innovazione user-driven dove la città è vista come una piattaforma che aumenta il coinvolgimento del cittadino e il suo desiderio di co-creare». La definizione di smart city dei programmi R&D della Commissione Europea si è modificata fino a trasformarsi e concludersi, con Horizon2020, in città faro (Lighthouse project).
Le smart city sono dunque concepite per affrontare i grandi problemi urbani del XXI secolo, dal traffico all’inquinamento, alla necessità di ridurre le emissioni con efficientamento energetico e risorse rinnovabili, attraverso sistemi di monitoraggio e pianificazione intelligenti basati su IA e IoT distribuiti sul territorio (dispositivi intelligenti dotati di connettività e sensori per
raccogliere grandi moli di dati). E questo al fine di rendere le città più vivibili, meno rumorose, meno inquinanti, fornendo ai cittadini servizi personalizzati e dunque più performanti per rendere loro stessi, le loro case e le loro abitudini più intelligenti.
Ma allora, in tutta questa meraviglia su cui nessuno può certo dissentire, perché la narrazione sulla smart city ha attirato un numero crescente di critiche?

Un po’ di storia
L’interesse a promuovere il termine smart city ha innanzitutto una grossa motivazione economica che riguarda tutti i diversi settori dell’industria digitale. Secondo le principali società di consulenza, il mercato delle smart cities supererà nei prossimi anni ogni altro settore imprenditoriale tradizionale, in particolare i prodotti e le applicazioni della nuova IoT urbana (Internet
of Things, o ‘internet degli oggetti’).
Il linguaggio della smart city è sempre l’inglese commerciale internazionale, in qualunque parte del mondo ci si trovi. Nella quasi totalità dei casi quindi il racconto delle smart cities è una narrazione aziendale che celebra invariabilmente la marcia irrefrenabile del progresso e dell’innovazione.
Dal livello europeo a quello nazionale fino a quello locale i programmi di finanziamento di progetti smart city hanno tenuto banco per vari anni, moltiplicando convegni, studi, workshop, fiere ed esposizioni che esaltano ma soprattutto profondono fiumi di parole su cosa sia una smart city. La risposta più semplice che viene da fornire a tale quesito è: una città che serve ai
Città suoi cittadini. Purtroppo, simultaneamente, spesso troppe altre condizioni devono essere soddisfatte: dalla visibilità degli amministratori locali, agli appetiti delle aziende, alla necessità di posizionamento di una moltitudine di soggetti locali, non sempre i più rappresentativi. Tutti devono trovare spazio nella loro smart city. Ma, soprattutto, i tagli ai bilanci delle città impongono a volte agli amministratori locali ed ai politici delle soluzioni fantasiose, cercando nelle aziende un sostegno che non può essere totalmente disinteressato. Ma sulle motivazioni dell’interesse dei big players ICT alle smart cities torneremo più avanti.
A raccontare la smart city sono anche con entusiasmo talvolta inversamente proporzionale alla competenza politici e sindaci, che coprono con la retorica della modernità digitale la povertà sostanziale dei loro programmi elettorali, e, una volta eletti, la mancanza di una effettiva capacità di trasformazione socialmente utile. Talvolta i patti sottoscritti a livello locale con le grandi imprese del digitale diventano un risultato politico di cui vantarsi, spesso, come vedremo senza alcuna consapevolezza, dell’enorme squilibrio tra cosa si è davvero concesso e cosa si è ottenuto.
Esistono numerose eccellenze: è indispensabile conoscerle ed analizzarle a fondo. Ma poiché, rispetto alla messe di finanziamenti ed idee, restano davvero pochi gli esempi rimarchevoli – e su di essi moltissimo è stato scritto – scegliamo qui di concentrarci invece sul perché la gran parte dei risultati sia deludente.
Le città oggi
Una critica importante consiste nel constatare che i programmi di finanziamento e le soluzioni proposte di smart cities sono riconducibili a forme di governance tecnocratica e guidata dal mercato. Nei primi tempi di Internet il fatto che tutti avessero la banda larga e i telefoni cellulari sembrava che bastasse a garantire che la gestione della città sarebbe stata inclusiva, aperta, partecipata: questa visione che è si è rivelata purtroppo inesatta resiste nell’attuale retorica delle smart city.
Malgrado le risorse investite e le energie professionali e tecnologiche profuse, i risultati in termini di reale miglioramento delle condizioni di vita delle città sono molto scarsi. Si è confusa la quantità di tecnologia digitale immessa nella città con i contenuti organizzativi e sociali della trasformazione. Una smart city per non essere solo un’accozzaglia di servizi ICT deve avere alle sue spalle un’idea definita di città e, soprattutto, delle cause responsabili delle complesse questioni urbane che oggi si delineano: la popolazione sta invecchiando velocemente, le infrastrutture si sgretolano e i cambiamenti climatici stanno prendendo il posto degli incendi, delle guerre e delle epidemie del passato.
Solo così l’innovazione digitale può consentire di abitare città migliori, più vivibili, meno inquinanti, meno trafficate, più efficienti energeticamente e più vicine ai cittadini. Questo processo può conseguire il risultato atteso solo quando la politica riesce a esprimere il suo modello di città, con una prospettiva di lungo periodo. Più definito è tale modello, più realistico il processo di realizzazione. Un processo che parte da una idea politica di città, la declina sul territorio, la propone ai suoi cittadini, ne analizza la fattibilità, ne definisce le caratteristiche e ne specifica le funzionalità, che possono poi utilizzare efficacemente tutta la potenza della tecnologia digitale. La qualità finale dipende direttamente dalla capacità di coinvolgere, mediante efficaci
processi di partecipazione, il sapere sociale diffuso.
Anche definire con accuratezza un modello di città a cui tendere potrebbe però non bastare più: la recente attualità mostra quanto sia importante non affidarsi a modelli rigidi ed essere capaci di prevedere i cambiamenti. Che cosa accadrebbe infatti se la dinamica della città che è diventata smart mutasse all’improvviso? Non parliamo di eventi transitori, né di eventi
pianificati a tavolino. Processi che accadono, semplicemente, e non sono reversibili.
La fatiscenza delle infrastrutture, come la deindustrializzazione, producono in molti centri urbani dei cambiamenti epocali a cui una città deve trovare modo di adeguarsi. Anche i cambiamenti ambientali, solo apparentemente imprevisti, sono in rapido aumento.
Il crollo di un ponte autostradale strategico ha cambiato una città storica del triangolo industriale italiano: Genova è diventata, di fatto, tre città. Ad Hanoi l’aumento del livello delle acque ha obbligato a costruire in zone più in alto le abitazioni sull’acqua che non sono o non saranno più abitabili. Ad Alessandria d’Egitto l’innalzamento di pochi centimetri delle acque del mare, così come di quelle del delta del Nilo, potrebbe cambiando per sempre una realtà.
Non si tratta di usare l’abusato, ambiguo e spesso usato scorrettamente termine di resilienza – che, detto di una città, non significa nulla e rischia di essere solo retorica e fumo. Si dovrebbe usare invece in senso proprio il termine “intelligenza”, come capacità di apprendere dall’esperienza, senza ripetere sempre gli stessi errori. Se cambiano le condizioni economiche, sociali, ambientali di una città, l’essere intelligente significa sapersi adeguare, proponendo ai propri cittadini le condizioni più adatte alla nuova realtà. Le smart city che sono state pensate fino adesso possono farcela? E soprattutto come possiamo fare a pensarle meglio?
Il potere dei dati
Per comprendere la dimensione tecnologica urbana è necessario fare una premessa generale. I servizi ICT sono sempre più pervasivi (vogliono aiutarci a fare tutto subito e meglio), a portata di mano (lo smartphone li rende mobili insieme a noi e di facile accesso mediante le app disponibili) e sempre più interconnessi (prenoti un aereo e ti trovi anche l’auto, l’albergo e il ristorante prenotati, quelli in cui si mangia il tuo piatto preferito e non ci sono gli ingredienti a cui sei allergico). Queste capacità di personalizzazione si basano sulla conoscenza dei tuoi gusti, delle tue abitudini, delle tue amicizie, dei tuoi hobbies, del tuo lavoro e delle tue letture, della composizione del tuo nucleo familiare, delle relazioni tue e di quelle dei tuoi amici. Per prevedere i tuoi futuri comportamenti è necessario accaparrarsi il più possibile ogni frammento della tua storia, e continuare a farlo per conoscerti sempre meglio. Anche meglio di te stesso. I dati che ti riguardano permettono infatti di rivelare schemi di comportamento e potenziali correlazioni di cui non sempre ci rendiamo conto. L’enorme e crescente mole di dati e tecniche di analisi sempre più potenti consentono di scoprire patterns nascosti e inedite connessioni tra i dati.
Oggi la separazione tradizionale fra dati e programmi è più sfumata perché i programmi vengono addestrati attraverso i data, imparano, crescono, diventano più intelligenti nutrendosi di essi. E a tale scopo la qualità dei dati georeferenziati è molto significativa perché il loro contenuto informativo è immensamente superiore. Sapere dove e quando un dato è stato generato consente non solo di elaborare consumi, opinioni o relazioni fra persone, ma anche di conoscere con esattezza tempo e luogo in cui sono state effettuate delle azioni: gli spostamenti, le soste, le abitudini. Se immersi poi nella mole di dati localizzati delle altre persone con cui si è in relazione diranno ancora di più di noi. E i sistemi di intelligenza artificiale, avendo a disposizione il carburante più prezioso, e cioè i dati, impareranno a prevedere comportamenti, azioni, umori, sentimenti, opinioni, stati d’animo.
Qui emerge la questione della crescente, enorme, inimmaginabile quantità di dati digitali che vengono generati nelle città. A produrli sono sicuramente i suoi abitanti e quelli che la frequentano, perennemente curvi sui loro devices digitali sempre connessi. Non solo la stragrande maggioranza che utilizza i social più diffusi. Secondo Privacy International, una associazione senza fini di lucro con sede a Londra, almeno il 61% delle app disponibili trasferiscono automaticamente i dati su Facebook nel momento in cui un utente apre l’app. E indipendentemente dal fatto che le persone accedano a Facebook. Anche se i dati rivenduti o scambiati sono aggregati – e dunque rispettano le norme sulla privacy – quella dell’anonimato è un’illusione ampiamente infranta, come ben descrive il «New York Times» nel recente articolo Your Apps Know Where You Were Last Night, and They’re Not Keeping It Secret.
Non sono solo le persone a produrre dati. La città del futuro è piena di sensori connessi ad Internet che raccolgono, inviano e ricevono dati, spesso registrando le preferenze degli utenti. Ed è il numero di dispositivi connessi a far crescere il ranking della città nelle classifiche delle città “intelligenti”, e a far crescere la loro reputazione nelle misurazioni delle agenzie di rating
internazionali, che determinano spesso anche le condizioni di accesso alle risorse finanziarie.
Anche le istituzioni pubbliche danno il loro contributo, più o meno consapevole, a far crescere l’enorme patrimonio di dati digitali della città. Lo fanno digitalizzando i servizi pubblici (spesso confondendo la loro digitalizzazione con il miglioramento della qualità del servizio, come accade in molti servizi erogati quasi esclusivamente on-line). Sono ad esempio informazioni
preziose sulle condizioni sociali e sui bisogni dei singoli cittadini. Ma lo fanno anche rendendo disponibili quantità crescenti di dati pubblici: i cosiddetti open data che, purtroppo, nei fatti finiscono per alimentare in misura minima la trasparenza dell’amministrazione o la realizzazione di servizi urbani di qualità – anche perché non si presta sufficiente attenzione al valore potenziale di essi, e dunque a renderli facilmente utilizzabili a chi, sul territorio, voglia farne un uso socialmente utile e collettivo. Contribuiscono invece grandemente ad arricchire il patrimonio disponibile per l’industria dei servizi digitali. Talvolta l’inconsapevolezza (o la collusione) degli amministratori arriva a sottoscrivere e rivendicare come un grande successo la consegna ai grandi monopolisti digitali di dati pubblici preziosi, come è avvenuto in alcuni casi con i dati che riguardano la sanità o la cultura.
L’economia dei dati che si è affermata è in grado di originare una cornucopia di prodotti e di servizi, ma è in mano di fatto a un numero limitatissimo di grandi operatori. Anche grazie a tale concentrazione si sono sviluppate delle forme di controllo sociale e delle pratiche invasive della vita di individui e collettività e purtroppo è sempre grazie a tale concentrazione che i servizi offerti sono così efficaci. I big data infatti si diversificano dai dati tradizionali, oltre che quantitativamente, perché diverso è il modo di elaborarli: i big data analytics sono software evolutissimi che nulla hanno a che fare con le tradizionali interrogazioni di database ma effettuano raffinate ed impensabili analisi inferenziali statistiche. Permettono di ricostruire i gusti, le idee, gli orientamenti, le abitudini, i comportamenti. La natura dell’analisi permette di rivelare schemi di comportamento e potenziali correlazioni di cui non sempre ci rendiamo conto.
Il modello di business basato sul data mining – ovvero estraendo da essi quanto più possibile – prevede di raccogliere la maggiore quantità di dati possibile incentivando le attività che li generano. I dati non hanno nulla a che fare con la pubblicità: servono ad accelerare lo sviluppo delle tecnologie avanzate di IA dell’azienda stessa. In altre parole aiutano ad automatizzare processi che al momento richiedono l’intervento umano come la guida di veicoli, il riconoscimento di immagini e l’individuazione di trend. L’evoluzione nella guida autonoma di veicoli dipende dalla mole di dati disponibile. Servono i dati per sviluppare l’intelligenza artificiale migliore. Questa è la motivazione che spinge le aziende delle grandi piattaforme a interessarsi così tanto ed a investire nelle smart city: il ritorno indiretto è enorme.
Le aziende ICT si basano su un modello economico che trasforma i dati in risorsa, cioè in un bene di consumo da vendere e scambiare sui mercati finanziari. Dopo essere stati raccolti, i dati digitali possono essere venduti più volte, in modo più o meno trasparente e legale, aggregati o meno. Passano di mano in mano, mutano forma, alimentano nuovi settori dell’industria digitale. Colpisce come in un lasso di tempo brevissimo (pochi anni) si siano creati intorno all’industria dei big data così tanti modelli di business, così diversificati e così ben interoperanti. Al di là dell’aspetto distopico verrebbe da usare l’espressione “digital business ecosystem”.
Compratori finali dei nuovi servizi non sono soltanto le agenzie di marketing. Sono anche, ad esempio, le imprese di assicurazione, che possono personalizzare (e anche rifiutare) le polizze assicurative. Le imprese finanziarie, che possono condizionare le condizioni dei finanziamenti. E sono anche le agenzie di sorveglianza pubbliche e private, che hanno bisogno di prevedere e predire i comportamenti sociali. È recente l’attenzione agli esperimenti di governo sociale avviati in Cina, mediante la costruzione di indicatori di “reputazione civica” dei cittadini.
Purtroppo solo poche aziende – indicate di solito dal nome della loro piattaforma e che non sono europee ma statunitensi o cinesi – hanno la capacità di estrarre, aggregare, analizzare e manipolare i big data, alimentando le loro soluzioni di intelligenza artificiale mediante machine learning e modelli predittivi, al fine di fornire servizi personalizzati ed estrarre il valore
aggiunto.
Ma chi dovrebbe estrarre valore dai dati generati nella città intelligente? È giusto che siano, in pratica, esclusivamente la risorsa più significativa dei grandi monopolisti digitali?
Le amministrazioni pubbliche locali o centrali potrebbero contribuire ad attivare un meccanismo di riappropriazione di tali risorse per la collettività?
Sarebbero in grado di farlo e come potrebbero aiutare le collettività del proprio territorio a farlo?
È sensato promuovere la riappropriazione da parte di ognuno dei dati che ha generato o che lo riguardano? O è invece necessario iniziare a considerare la ricchezza rappresentata dai dati digitali della città come una nuova tipologia di bene comune che richiede, come per l’acqua, la progettazione e la sperimentazione di specifiche modalità di gestione e governo che ne
consentano l’uso ed il consumo per tutti i cittadini?
È questo, ci sembra, l’interrogativo e l’ambito di iniziativa politica oggi più significativo quando ci si occupa di smart cities.

Articolo di Giovanna Sissa e Giulio De Petra pubblicato (pp. 59 – 66) sul primo numero di “Luoghi Comuni” (Castelvecchi Editore). Qui disponibile l’intero numero

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