Umberto_AllegrettiLa crisi dello stato sociale, i grandi mutamenti politici ed economici uniti alle spinte della politica verso la liberalizzazione hanno contribuito negli ultimi decenni a modificare profondamente la struttura sociale dei paesi ricchi e di quelli del terzo mondo. Flessibilità, mobilità, rischio, supercompetizione, deterritorializzazione delle aziende, queste le nuove parole d’ordine della modernità. Stiamo assistendo al cambiamento dello scenario del lavoro con la transizione da una società del lavoro a una società dei lavori.
I risultati possono ad alcuni sembrare positivi (meno burocrazia, economia più dinamica), ma ai più negativi per le conseguenze distruttive sulla vita per-sonale: la nuova economia sembra per certi aspetti minare alle radici il senso di continuità dell’esistenza, erode l’integrità dell’io, indebolisce i legami di fiducia e i riferimenti che in passato erano essenziali alla formazione della personalità.
La domanda fondamentale da porsi è: perché si assiste sempre più a reazioni passive davanti al diminuire della solidarietà sociale e alla competizione economica come processo inevitabile?
La figura centrale che per anni in Occidente ha rappresentato l’interlocutore, l’alter ego, l’oppositore sociale a queste politiche sembra entrata in crisi: l’operaio e con esso la sua classe di appartenenza.
Ci si può dunque porre il problema del senso da dare a un dossier sul «Lavoro», considerate le tensioni a cui è stato sottoposto il suo nucleo storica-mente più forte costituito dal lavoro operaio.
Posto che il lavoro operaio esiste ancora (poiché la produzione di oggetti e di tutto quanto di solido ci circonda è pur sempre fatta con il lavoro umano) e che gli operai sono ancora molti (come ci dicono le cifre fornite dagli economisti), viene in evidenza la questione della rappresentazione e dell’autorappresentazione degli operai. Cosa definisce un operaio? Chi si sente operaio? Una volta gli esponenti della classe operaia rivendicavano la loro appartenenza ad essa con orgoglio, ma oggi che ne è di questo sentimento?
A questo tema si intreccia quello della frammentazione del panorama del mondo del lavoro, con l’emergere dei lavori flessibili, precari e disagiati. È ancora elemento costitutivo del lavoro operaio la manualità, oppure anche un lavoro non manuale può avere quei connotati di alienazione e sfruttamento che una volta erano considerati propri del lavoro operaio?
La classe operaia è destinata a diventare un contenitore vuoto perché non c’è più l’operaio inteso in senso tradizionale o è un modello suscettibile di essere ridefinito mantenendo fermi determinatori quali l’alienazione, lo sfrut-tamento, la serialità… pur essendo riferibili a nuovi soggetti? Potrebbe essere utile in quest’ottica parlare della «classe degli sfruttati» invece che della «classe operaia»? I disoccupati e i non lavoratori cronici rientrano nella cate-goria degli sfruttati?
Si può dire che una volta l’attenzione era incentrata sugli operai perché erano i lavoratori che in numero maggiore venivano «sfruttati» (non era solo una questione di povertà, perché i contadini nella storia sono sempre stati i più poveri, con un lavoro manuale fra i più pesanti, ininterrotto e senza ga-ranzie, ma era una questione di sfruttamento, perché gli operai producevano qualcosa per creare profitto e aumentare il capitale di qualcun altro. È lo sfruttamento da parte di uomini su altri uomini che consideriamo inaccettabile) e «alienati» (non c’era solo il problema dello sfruttamento, ma anche del non riconoscersi nel prodotto del proprio lavoro, nel fare mansioni ripetitive e insensate, nel senso di rappresentare solo una parte infinitesimale del prodotto finito. E anche in questo, categorie come contadini, artigiani, eccetera ovviamente non rientrano), mentre oggi, tenendo ferme queste categorie, l’attenzione va incentrata sui nuovi sfruttati e sui nuovi alienati?
Ma questi nuovi sfruttati e alienati costituiscono una «classe»? Hanno interessi comuni, vite simili, tali da permettere loro di riconoscersi e organizzarsi creando una struttura che li rappresenti nel sistema politico-sociale? Se il conflitto dei lavoratori è fondamentale per portare avanti obiettivi di redistribuzione delle risorse, allora perché si sta indebolendo l’elemento organizzativo/conflittuale?
E che dire dei nuovi operai del terzo mondo che ancora non dispongono di strumenti organizzativi in grado di plasmarne un barlume di coscienza di gruppo portatore di specifici interessi? La crescita della popolazione urbana a livello mondiale tende già oggi a essere scissa dal lavoro convenzionale come l’abbiamo conosciuto, specie industriale. I vecchi e nuovi abitanti delle città (oggi 1,5 miliardi, 2,5 entro il 2030) dovranno contendersi i lavori dell’economia informale, dall’accattonaggio al crimine alla vendita di lattine di Coca Cola. Questo «proletariato senza casta» (Davis) è «la classe sociale più nuova e in più rapida crescita del pianeta»: non un esercito industriale di riserva ma «una massa di gente strutturalmente e biologicamente in sopran-numero rispetto all’accumulazione del capitale globale»; i nuovi poveri sono un’umanità eccedente inincorporabile nei ranghi della nostra società democratica: non è e non sarà mai una «collettività sociale del lavoro», ma potreb-be essere in grado di sovvertire l’ordine urbano. Si può allora dire che la «lot-ta di classe» esiste ancora ma ha cambiato le proprie caratteristiche struttura-li?
E che dire della guerra «tra poveri» che spesso coinvolge nelle nostre società i migranti?
I temi rilevanti non finiscono qui. Ne appuntiamo due che potrebbero essere oggetto di ulteriori analisi: 1) le appartenenze di classe non sono forse oggi oscurate da appartenenze ben più «suadenti», come quelle nazionali, regionali o religiose? 2) Come votano gli operai? Perché il voto operaio per i partiti popolari e di sinistra negli ultimi decenni è andato perdendosi?
Per il momento la Rivista si limita a una trattazione dal punto di vista del diritto del lavoro, colto nei suoi orientamenti più recenti, che mettono in gio-co le categorie concettuali e le garanzie provenienti dalla tradizione. Essi po-trebbero al tempo stesso aprire a sviluppi tesi ad inserire le figure di attività lavorativa anomale entro paradigmi che offrano al lavoratore una tutela ade-guata alle nuove condizioni.
A fianco del tema monografico, questo fascicolo presenta come sempre, nelle altre rubriche, contributi sui temi già trattati nei numeri recenti e legati agli sviluppi attuali delle tematiche istituzionali.
Sull’Europa – il cui trattato fondativo di un nuovo ordinamento, che avevamo già commentato in fase di progetto (n. 2, 2003), è stato firmato a Roma alla fine di ottobre – ci soffermiamo con un articolo vertente su uno dei pro-blemi più delicati del dibattito attuale: quello del Patto di stabilità. Ci riserviamo di dedicare al nuovo trattato, probabilmente anche in forma di intervi-ste a diverse personalità, una parte dell’ultimo numero del 2004.
Sui temi più strettamente nazionali, torniamo sulle riforme della costituzione progettate in questi anni e presentiamo un contributo di analisi dell’uso del potere di rinvio presidenziale delle leggi, che è in questa fase un elemento vivace del quadro costituzionale, oltre che una documentazione dell’itinerario della legge recente che più di tutto ha innovato sul diritto del lavoro.
Torniamo poi, con un «percorso di lettura», sull’importante panorama della letteratura, americana ma non solo, della «guerra contro il terrorismo».

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