Editoriale scritto per la rivista “Confronti”
Da qualche tempo, soprattutto dopo la Leopolda, si discute di un nuovo partito della Nazione. Nuovo perché, almeno in sede storiografica, già era stata elaborata da Agostino Giovagnoli la categoria di “partito italiano” quale cifra interpretativa della Democrazia cristiana, il partito “pigliatutto” allorquando il sistema politico era strutturato in termini di bipartitismo imperfetto o, meglio, di pluripartitismo centripeto. Un’analogia casuale, il sintomo di una nostalgia, la prospettiva di una palingenetica riclassificazione del quadro politico? Oltre il bipolarismo muscolare che abbiamo conosciuto e aldilà del bipartitismo che la più recente versione dell’Italicum, con un sostanzioso premio di maggioranza assegnato al partito in grado di superare la soglia del 40%, intenderebbe prefigurare.
L’interrogativo non pare infondato, nè tutto consegnato ad una visione politicistica, ma rimanda al profilo del Pd, alla sua vocazione maggioritaria, alle concrete policy da attuare in un tempo di recessione e di possibile deflazione, alla rappresentanza di ceti sociali ed interessi, alla stessa identità etico politica del partito. Un Pd sempre più partito di Renzi, progressivamente modellato sulla figura del segretario-premier che, per inverare le promesse della sua narrazione – “il tempo è adesso”, “bisogna cambiare verso” – ha fatto della velocità e del movimento, della eliminazione di vecchie rendite, della frattura generazionale, le bussole di orientamento della propria iniziativa politica ed azione di governo. Bussole entrambe ispirate ad un decisionismo “direttista” teso a saltare mediazione istituzionale e forme consolidate di rappresentanza. Con un esito duplice: da una parte le assemblee parlamentari tendenzialmente ridotte a organi di acclamazione o di testimonianza, dall’altra le forze sociali sostanzialmente marginalizzate sulla base di una disintermediazione che si affida all’audience, agli strumenti propri di quella che Bernard Manin definisce la “democrazia del pubblico”.
Una soluzione di continuità rispetto all’Ulivo, un’evidente dissolvenza: non più un soggetto politico perno di forze alternative al centro-destra, centrale quanto a ruolo, dunque gravitazionale e coalittivo, ma un partito osmotico, propenso ad assorbire, ora in forma molecolare ora attraverso corposi passaggi di confine, esponenti di apparato politico e settori elettorali tradizionalmente accampati in territorio avverso. Un fenomeno di trasformismo consociativo, premiale in termini di consenso, ma da sottomettere al vaglio di ben precise discriminanti di programma e di linea politica quanto ai temi fondamentali all’agenda di governo: vale a dire crescita e sviluppo, equità sociale, diritti, legalità, lotta all’evasione, sostegno alla ricerca e all’innovazione, riforma dell’apparato statuale e della pubblica amministrazione.
In secondo luogo quanto al partito della Nazione la denominazione evoca un’ambiguità sinora del tutto irrisolta, anche se già si appalesano i segni delle possibili evoluzioni. Da un lato un partito democratico, popolare, a larga base sociale, capace di agire l’interclassismo non come leva ideologica, ma come strumento atto a coniugare il proprio “essere parte” con l’interesse generale del Paese, trascendendo così i tradizionali ambiti di insediamento sociale e territoriale della Sinistra italiana, tanto post-comunista quanto post-democristiana.
Dall’altro, in assenza di un valido competitore nell’area della Destra, un competitore abilitato, per cultura politica, consistenza elettorale, per programma e strategia ad alimentare quella “democrazia agonistica” che regola e contiene il conflitto, un PdR destinato a diventare “partito unico”, il partito del “grande centro”, ed un sistema politico senza possibili alternative. Insomma un nuovo schema caratterizzato a destra da una formazione lepenista, antieuropea, illiberale ed estremista, obesa rispetto alla Lega attuale, nonché dalla presenza di un movimento pentastellato vociante e demagogico e, sul versante opposto, da una Sinistra minoritaria, tendenzialmente radicale, quanto ancorata ad una tradizione non più sintonizzata sul tempo della globalizzazione competitiva. A ben guardare l’ennesimo avvitamento di una biografia della Nazione che, seppure in forme nuove, riproduce un sistema ancora bloccato. Non il presagio del futuro, ma il ripristino dell’anomalia italiana. Una sorta di preterintenzionale “ritorno di fiamma”, per parafrasare l’ultimo Mario Isnenghi, l’autorevole studioso delle “storie italiane”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *