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A proposito della critica del presente

Recensione di Marco Montelisciani dell’ultimo lavoro di Mario Tronti (Per la critica del presente, Ediesse 2013, p. 147, € 12,00)
Pubblicato il 4 Febbraio 2014
Materiali, Officine Tronti, Scritti

Ripercorrere la strada tracciata da Mario Tronti nel suo ultimo lavoro (Per la critica del presente, Ediesse 2013, p. 147, € 12,00) significa compiere un viaggio tra le parole perdute della sinistra. A partire dal titolo: “per la critica” non è solo un’antica abitudine marxiana, ma un atteggiamento, un modo di stare nel mondo. Dentro e contro, secondo un vecchio adagio operaista. Qui però l’atteggiamento critico fa un passo in avanti e trova come suo oggetto il presente, questa gabbia d’acciaio che appare impossibile da scalfire e tanto più impossibile da forzare. La dittatura del presente inteso come ciò che ci si presenta di fronte, ciò che c’è e sembra non potere non esserci. Occorre svelare la mistificazione che vuole lo stato di cose presente come un dato naturale che sfugge alla capacità trasformatrice dell’uomo. Questo è il senso profondo dell’epopea della modernità: l’uomo assume consapevolezza del suo essere soggetto produttore di realtà, si libera dei feticci e delle superstizioni medievali, prende posto al centro del mondo e si prende in carico le proprie sorti, il proprio destino. E questo è il senso profondo dell’atteggiamento critico: svelare la natura dello stato di cose presente come prodotto di rapporti sociali storicamente determinati e quella della superstizione post-moderna che quello stato di cose vuole immutabile e incontrovertibile, per trovare la forza – anzitutto intellettuale – di rifiutarlo. “Non si può accettare”, scriveva Tronti qualche anno fa (Ediesse 2009); la critica come atteggiamento fondamentale di uno stare al mondo è la consapevolizzazione intellettuale del rifiuto. Rifiuto che non si fa mai morale, ma sempre intimamente esistenziale e eminentemente politico.

Svelare la mistificazione del Presente significa partire dalle parole, dalla loro manipolazione, dall’uso distorto che ne hanno fatto i vincitori dell’ultima grande battaglia del novecento. La crisi della sinistra è iniziata così: “prima di tutto fu unificato il linguaggio. Allora, prima di tutto va diversificato il linguaggio”. Un programma politico, ma anche un terreno di ricerca collettiva volto alla riappropriazione di un pensiero critico da parte di coloro contro i quali quelle parole vengono oggi utilizzate. Stato, popolo, autonomia, lavoro. Le parole dure della politica moderna, logorate dall’epoca in cui la grande comunicazione ha soppiantato la grande politica; l’epoca in cui la politica si è fatta ancella: dei poteri economici, delle agenzie di comunicazione, del senso comune diffuso; l’epoca in cui la grande storia ha lasciato spazio alla miseria della chiacchiera quotidiana. La strada è obbligata: il rifiuto si estende alle forme del linguaggio (e quindi del pensiero) dominante. In un tempo in cui essere chiari significa essere vuoti – dice Tronti – occorre “sollevare il livello del discorso per distinguerlo dalla miseria delle frasi fatte.” La parola, il pensiero come forma di lotta. Pensiero alto, perché chi sta in basso deve impadronirsi dell’alta cultura per toglierla dalle mani di chi comanda, ma mai elitario perché ha bisogno di vivere nel punto di vista e nella vita delle persone in carne e ossa. Un pensiero che ha la forza di essere alto ma non elitario, per una sinistra che ritrovi la sua dimensione popolare senza mai diventare plebea.

Pensiero collettivo, dunque, di parte e per la parte. Non è politicamente utile un pensiero se non assume un punto di vista, se non sceglie una parte di mondo di cui farsi carico. Lì, nella parte, sta l’appartenenza come scelta di libertà o la libertà come scelta di appartenenza. Non ci basta la libertà negativa dei liberali, vogliamo di più. Di più è l’autonomia, essere soggetto che trova in se stesso il suo fondamento e non solo le proprie leggi. Soggetto, autonomia: le parole della modernità perse nel tempo liquido e informe del “post“. Specularmente: classe, conflitto. La sinistra ha rifiutato di caricarsi sulle spalle il peso della sconfitta e ha abbandonato le sue parole: da un lato la corsa iconoclasta a farsi legittimare dai vincitori, dall’altro il recinto identitario in cui le bandiere, i simboli e persino le parole diventano feticci inservibili. In mezzo il lavoro: smarrito, abbandonato, diviso; lasciato in preda alle scorribande degli alfieri trionfanti della contro- rivoluzione conservatrice. Il lavoro ha prodotto grande storia e grande politica quando si è fatto soggetto che ricercava la dimensione della sua autonomia e, incontrando il popolo, ha tentato il balzo verso lo Stato; quando, cioè, ha incontrato la politica moderna e le sue parole. Dopo la sconfitta, il lavoro, cioè il nostro punto di vista, la nostra parte, è rimasto solo e, nella solitudine, ha perso la sua forma di soggetto in lotta. Così la lotta di classe, parola nel frattempo divenuta impronunciabile, è stata agita unilateralmente dall’alto verso il basso: il capitale contro il lavoro, in un rapporto di forze mai così sproporzionato a vantaggio di chi sta sopra. Invertire il senso della lotta è il compito non facile per la stagione che si sta aprendo.

Dentro questa urgenza sta la necessità di recuperare al conflitto il suo posto centrale nella storia. Il mondo pacificato che, come ci avevano promesso, sarebbe dovuto seguire alla fine del tragico novecento non si è manifestato e oggi, nella crisi del sistema che proprio dalle macerie del novecento i vincitori hanno costruito, viene di nuovo a manifestarsi in tutta la sua plasticità quel conflitto tra la sfera dell’economico e quella del politico che altro non è se non la lotta tra classi combattuta su un diverso piano. Non è un caso che le campagne contro la presunta casta nascano proprio nelle stanze imbiancate delle caste – quelle sì – del capitalismo. Allora non c’è alternativa al tornare ad agire un conflitto a viso aperto, con la forza delle idee, del pensiero e della politica, contro il dominio del capitale globalizzatosi in finanza. Non c’è conflitto, però, che non abbia come protagonisti due soggetti portatori di una loro forza. Dunque il lavoro deve ritrovare la sua dimensione politica e organizzarsi in partito; il partito deve ritrovare la sua dimensione sociale e deve organizzare il lavoro. Ancora una volta, dall’alto e dal basso, in un doppio movimento: una classe sociale che torna essere soggetto politico e un partito che torna, con la politica, a fare società. Il grande tema, la grande sfida che torna sotto voce, come un mantra, tra le parole di Tronti, maestro di un pensiero che non risente il peso degli anni e che rimane indubbiamente tra i più potenti oggi in circolazione.

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