Questo articolo avanza una proposta per la ripresa del dialogo sulla questione del Trattato costituzionale dell’Unione europea, condivisa nei suoi intenti dal collettivo della rivista e dai responsabili del Centro di studi e iniziative per la riforma dello stato come contributo per aiutare l’Europa a uscire dalla pericolosa stasi in cui è caduta.

Il quadro delle prospettive

Che proposte si possono fare per il futuro dell’Europa, dopo le gravissime difficoltà incontrate nella ratifica del Trattato costituzionale e alla fine di un’estate drammaticamente dominata dagli attentati terroristici, che ha visto ulteriormente complicarsi le condizioni generali del contesto mondiale? Si vorrebbe sperare che da molte parti si sia avviata una riflessione feconda, ma poi-ché, se essa vi è, i risultati tardano a uscire allo scoperto, si ritiene utile avanzare una proposta, frutto di assidua meditazione e di impegno partecipe e legata a quanto si è potuto osservare non solo con lo studio delle informazioni ap-parse sui mezzi di comunicazione e della documentazione disponibile sui siti uf-ficiali di Internet, ma anche durante un non breve soggiorno a Bruxelles che ha consentito rapporti a diversi livelli delle istituzioni e in diversi ambienti e che ha offerto la possibilità di dar conto qui del quadro generale delle posizioni e delle prospettive che sembrano affacciarsi.

È evidente che al momento tutto il cammino dell’Europa si rivela estremamente fragile e che per una rimessa in movimento si rendono necessarie idee forti. La crisi dichiaratasi con l’esito negativo dei referendum francese e olandese non sta determinando unicamente incertezze e silenzi sulla ripresa del processo di approvazione del trattato costituzionale e sul corso futuro dell’integrazione, ma anche uno sbandamento dei paesi membri e un disagio delle istituzioni comuni estesi alle decisioni concrete e alla vita quotidiana dell’Unione. Le questioni apertesi sul bilancio comunitario, con le liti che hanno provocato, e quelle sui provvedimenti nei confronti del terrorismo, affrontato dai diversi stati con reazioni differenziate e in parte scomposte, non sono che i più sensazionali e i più noti fra i segnali di questa situazione.

Qui concentreremo lo sguardo sui problemi della ripresa del discorso costituzionale, nella convinzione che esso rappresenti, secondo che si riavvii una forma positiva o che ristagni, un elemento essenziale anche per quel funzionamento normale dell’Europa – e tanto più di un’Europa ormai estremamente allargata – che è assolutamente necessario per una «vita buona» dei popoli europei e anche per un valido contributo all’equilibrio del mondo intero.

Lo sbandamento degli stati membri è il frutto, si avverte, di un ripiegamento effettivo se non direttamente teorico sul «principio sovranista» rispetto alla concezione comunitaria e sovranazionale. È vero che entrambi questi principi sono presenti, in concorrenza tra loro, nella costruzione europea, ma ogni spostamento a favore della sovranità degli stati e a detrimento dell’integrazione comunitaria, soprattutto se si verifica su terreni nei quali già l’integrazione era progredita, rappresenta una sconfitta e un pregiudizio per il futuro. Tutto ciò si avverte nelle espressioni di ogni paese e della rispettiva dirigenza: nulla di più evidente, per prenderne atto, che evocare le acute difficoltà della vita politica francese e l’esito, che appare al momento attuale paralizzante, delle elezioni tedesche, per non parlare della disarticolazione e degli aspetti ormai drammaticamente pagliacceschi della situazione della sfera di governo italiana, fenomeni interni ma che si collegano direttamente, e quanto acutamente, al problema europeo.

A sua volta il disagio che si vive nelle istituzioni le riguarda tutte quante. Secondo alcuni il Consiglio – cioè l’organo che rappresenta più degli altri il principio nazionale ma costituisce in pari tempo la sede più elevata e decisiva per dare impulso all’Unione – è caduto dopo i referendum in «qualcosa come un panico», in uno «stato di choc» ed è tuttora «completamente senza speranza», «è paralizzato» . E la presidenza inglese certamente non aiuta nella direzione di imprimere slancio al lavoro comune né men che meno in quella di approfondire l’unificazione sul piano istituzionale e costituzionale, perché la concezione britannica dell’unità europea – pur nei momenti in cui ha avuto accenti sinceri e forti e anche nella versione blairiana – è da sempre quella di un semplice coor-dinamento per via consensuale delle politiche nazionali e non del trasferimento di parti della sovranità per il loro esercizio in comune. Infatti questa presidenza – e non pare giustificazione sufficiente il dramma degli attentati di Londra, che anzi avrebbero potuto dar luogo a un comportamento contrario – ha mancato finora, malgrado il tono baldanzoso dell’iniziale discorso di Blair davanti al par-lamento europeo, all’opera di tonificazione e di impulso che sarebbe stata necessaria. Non suscita speranze, in questa direzione, la convocazione per fine ottobre di un Consiglio informale che dovrebbe essenzialmente, secondo gli an-nunci, vertere sul modello sociale, ma per il quale mancava ancora a fine settembre un’agenda precisa e un documento preparatorio, peraltro usuale nella prassi europea .

Nelle rappresentanze degli stati non sembra stia maturando nulla che sopperisca all’inerzia della presidenza. La Commissione, a sua volta, non appare decisa a prendersi il compito di offrire un preciso contributo per tentare di sbloc-care l’impasse costituzionale: anche se qualche previsione di tappe procedurali compare nel testo scritto della conferenza stampa del presidente Barroso citata nella nota 2 – che ha inteso portare all’esterno i risultati di un così denominato brain storm a porte chiuse tenuto il giorno precedente dall’organo collegiale –, nell’intervento orale (che per formale indicazione è quello che fa fede), a detta di chi vi ha assistito, Barroso si è così significativamente espresso: «Noi non avremo una costituzione in un avvenire vicino, nei due o tre anni prossimi»; nel frattempo la Commissione intende «lavorare» senza perdersi in infinite «discussioni trascendentali sull’avvenire dell’Europa»; e bisogna «evitare ad ogni prezzo l’idea di un vuoto, di una impasse o di una paralisi» poiché «si può lavorare più attivamente sulla base dei trattati esistenti» . Non si tratta evidentemente, sulla bocca del responsabile dell’esecutivo comunitario, di mere constatazioni di fatto, in quanto tali parzialmente attendibili e parzialmente giustificate ma anche questionabili; esse indicano la scelta di una decisa separazione tra la vita comune delle istituzioni e della gestione europea e la preparazione del futuro d’Europa, che corrisponde a un programma gestionale minimo, quale del re-sto è sempre stato quello della attuale Commissione.

Infine, il parlamento. Qui i segnali sembrano più positivi. In seno alla Commissione affari costituzionali, sono già previsti per le settimane autunnali una riflessione e un dibattito sulla ripresa del processo costituzionale, destinati – forse in gennaio – a sboccare in una discussione nel plenario che potrebbe essere una fonte di proposte e di reinnesco di fiducia. Il quadro non è sicuramente tale da infondere ottimismo né coraggio. Se ci si fa a guardare sotto la superficie, è però vero che qualche segno meno visibile inviterebbe a maggiore fiducia. Sembra che qua e là studi e riflessioni siano avviate, per esempio ad opera dell’antico commissario portoghese Vitorino, persona di buon livello anche se ormai fuori dell’istituzione. Altri vorrebbero sperare nel presidente del governo spagnolo Zapatero, che su altri piani – per esempio su quello della politica globale – ha mostrato fantasia e propositi innovativi. Alcune proposte, poco note fuori dalla Francia, sono state formulate nella preparazione o alla conclusione del referendum in quel paese. Più d’uno si attende un’iniziativa dalla presidenza austriaca, che succederà a quella britannica e che sembra stia già preparando il suo programma.

La necessità di Europa

In presenza di questa situazione ufficiale, è importante che da molte parti, comprese le sedi culturali e associative, il discorso sul futuro dell’Europa ritrovi slancio. Può spingervi anche la storia dell’integrazione. Nel cammino europeo ci so-no sempre state alternanze di fasi, spinte in direzioni opposte, alti e bassi. Ma la constatazione essenziale è che l’attaccamento all’idea di unità è rimasto vivo anche nelle stagioni più difficoltose (basti pensare ai lunghi anni dominati dal nazionalismo gollista). E proprio quando l’integrazione è stata messa in maggior crisi dal fallimento di un’ipotesi di avanzamento – qui il ricordo più pungen-te è quello del rigetto da parte del parlamento francese della Comunità europea di difesa e con essa del progetto di dar vita a una costituzione propriamente politica – le ragioni della ripresa della marcia hanno prevalso sullo scoraggiamento e sull’inerzia e, colte da uomini lungimiranti e da forze collettive consapevoli, si sono aperte la strada verso obiettivi realizzabili.

Da che cosa uomini e forze di questo tipo potrebbero oggi partire per una ripresa? Non bastano considerazioni puramente pragmatiche anche se le circostanze spingono; occorre una riflessione di fondo, la rimessa a punto rigorosa di una filosofia dell’Europa. Perché fare unita l’Europa? Questo bisogna tornare a chiedersi. È solo la chiarezza di un interrogativo sulle ragioni dell’unità e sulla necessità del suo approfondimento che può portare a un’azione conforme. Lo ha visto bene Habermas, come pure altri lo hanno segnalato.

Habermas sintetizza in tre motivazioni fondamentali la costruzione di un’identità europea: dopo l’allargamento a est occorre all’Europa una base unitaria democratica per l’accettazione di politiche che comportano una distribuzione disuguale di vantaggi e svantaggi tra i vari paesi; cresce il bisogno di ar-monizzazione delle legislazioni nazionali per affrontare le difficoltà economiche e sociali; incombe la necessità di una ridefinizione del ruolo globale dell’Europa, specialmente nel suo rapporto con gli Stati Uniti. È bene sottolineare che le due prime ragioni da sole non sono sufficienti; anche perché, poten-do esse assumere un senso puramente egoistico, mancherebbe all’unità europea una giustificazione generale dal punto di vista della storia del mondo.

L’argomentazione dello stesso Habermas lo mette in risalto . L’Europa è necessaria al mondo come – per usare un’efficace espressione di quell’autore – «contrappeso politico all’unilateralismo egemonico degli Stati Uniti»: cioè come antidoto alla possibilità che gli Usa vadano avanti in un atteggiamento imperiale, in una sfida al terrorismo, agli stati «fuorilegge» e ad altri, mondialmente dilatata e affidata essenzialmente all’uso della forza (che si vorrebbe giustificare in nome della democratizzazione universale) e così istituiscano un confronto unilaterale con tutto il mondo che fa a meno delle istituzioni internazionali e che inasprisce il conflitto tra aree diverse del pianeta (manifestazione recente è stato il ravvicinamento in campo militare tra Russia e Cina).

Si ripresenta così in condizioni mutate quello che è chiaramente indicato dal massimo ideatore dell’integrazione, Jean Monnet, nei suoi coinvolgenti Mémoires. In quella lucida visione, l’unificazione europea fu avviata, col Piano Schuman del 1950, non solamente per assicurare la pace intraeuropea rimovendo l’ostilità tra Francia e Germania, ma per superare lo «squilibrio» – è la parola usata da Monnet – generato nelle relazioni mondiali dallo scatenarsi del conflitto tra Stati Uniti e Urss, nel cui contesto l’Europa, colmando il vuoto tra le due superpotenze, avrebbe potuto portare moderazione e bilanciamento .

In realtà le distinte motivazioni, gli scopi interni ed esterni dell’unità, si saldano tra loro, nella linea di un’identità storica europea tanto diversa, malgrado la parentela, da quella degli Stati Uniti. L’Europa contribuirebbe all’e-quilibrio mondiale perseguendo al suo interno una democrazia non limitata agli istituti di rappresentanza e alle elezioni e un modello sociale basato su un rapporto bilan-ciato tra politica e mercato; fondandosi su una cultura tendente alla comple-mentarità tra impianto individualistico e solidarietà sociale e consapevole delle ambiguità della modernizzazione e della tecnica; conservando memoria dei guasti provocati dall’uso della forza e della sua propria «esperienza del decli-no» .

Gli elementi essenziali della costituzione europea

Queste riflessioni potrebbero suggerire quali siano gli elementi essenziali della costituzione europea. Essi andrebbero visti in un’enunciazione dei diritti degli europei e dei non-europei attenta ai diritti sociali non meno che a quelli individuali e ai nuovi traguardi e ai vincoli relativi nel campo della vita, dell’ambiente e delle tecnologie; in un incremento della democrazia in tutte le sue forme; in un’assegnazione di compiti all’Unione per le decisioni sui livelli essenziali dei diritti, incluse le politiche sociali e della vita, tali da armonizzare le legislazioni degli stati e prima ancora da guidare dall’interno le politiche economiche, mo-netarie e finanziarie dell’Unione; in un’indicazione di responsabilità precise sul piano della pace e delle relazioni economiche, sociali e culturali mondiali, da assolvere nel quadro di istituzioni multilaterali e affidate a organi – ministro europeo degli affari esteri, sedi deliberative collegiali, servizi di rappresentanza europei – funzionanti nelle forme dell’integrazione.

Vorremmo precisare – non perché gli altri siano meno importanti – uno di questi punti, quello dei diritti e delle politiche sociali, che non è stato affrontato a sufficienza nel dibattito che si è svolto alla Convenzione né attorno e dopo di essa. È possibile pensare a una diversa sistematica delle competenze dell’Unione in campo sociale, così da tentare di risolvere il problema che è stato sicuramente alla base delle preoccupazioni che hanno mosso contro il Trattato una porzione consistente degli elettori francesi e olandesi di sinistra, delle spinte che spiegano i risultati delle elezioni tedesche e delle motivazioni stesse della contrarietà alla costituzione europea di considerevoli forze della sinistra e del movimento italiani, e che rispondono in realtà a un’ansia dei cittadini europei diffusa in tutti i paesi, almeno quelli dell’Europa occidentale?

Come si sa, l’Unione – la Comunità – dispone di competenze decisive, sostanzialmente esclusive, in tema di moneta; impone agli stati impegnativi vincoli finanziari e di bilancio, per quanto di recente interpretati in maniera un po’ più flessibile con le modifiche apportate al patto di stabilità; possiede alcune competenze, peraltro tutt’altro che adeguate al peso della politica tributaria, sul terreno fiscale; ha finalità e compiti in materia di politica economica, pur se qui si tratta di un vago coordinamento delle politiche statali più che di un’autonoma capacità decisionale; in tema di lavoro assolve a compiti circoscritti, gran parte delle funzioni relative rimanendo agli stati, nell’ambito, anche qui come nella politica economica, del metodo di coordinamento aperto; svolge quasi solo interventi complementari a quelli degli stati nelle altre politiche sociali, dalla salute all’istruzione, alla previdenza – per non parlare dell’assistenza, dell’abitazione e di altri diritti –: tutti campi nei quali le norme dei trattati stanno ben attente a ripetere in maniera incalzante il divieto di armonizzazione da parte della legge europea delle legislazioni nazionali.

La Carta di Nizza conferma che i diritti sociali, che essa pur proclama e nei cui confronti predica il rispetto da parte dell’Unione, sono lasciati per la loro realizzazione agli ordinamenti degli stati; e neppure il trattato costituzionale intende sostanzialmente variare quest’ordine delle competenze, avendo di massima scartato con la sua parte terza la linea dell’innovazione rispetto all’ordinamento precedente.

Ora, è pensabile che la stretta simbiosi che nella realtà esiste tra l’economia e il sociale, tra le politiche economiche e finanziarie e le politiche sui diritti, lasci la possibilità di soddisfare adeguatamente le esigenze di socialità in una situazione in cui le decisioni economiche spettano in prevalenza al livello dell’Unione mentre essa è priva di competenze sufficienti sulle politiche sociali e queste restano compito degli stati? O l’Unione, focalizzata tutta sui temi finanziari e monetari e d’altronde non abbastanza dotata di poteri in materia economica e tributaria, non sarà condotta inevitabilmente a non considerare con la dovuta responsabilità gli effetti delle sue politiche sulle condizioni sociali dei cittadini? E dal canto loro gli stati, che beninteso traggono già dalle dinamiche dell’economia globalizzata tante difficoltà – non certo imputabili senz’altro alle politiche europee – nell’assicurare ai soggetti livelli di diritti adeguati al bisogno di solidarietà e di uguaglianza, non troveranno nella distribuzione delle compe-tenze tra essi e l’Unione condizionamenti tali da impedire loro ulteriormente di soddisfare quei diritti? È la padronanza del terreno economico, infatti, affidato a un livello superiore e coercitivo, quella che condiziona in radice le esigenze sociali, e il contrario non può avvenire.

Queste considerazioni fanno vedere che occorre ritrovare, nell’essenziale, una riunificazione delle sedi delle decisioni economiche e di quelle in campo sociale, non certo assorbendo tutti questi compiti a livello di Unione ma ponen-do a quel livello la determinazione dei parametri sociali essenziali, il cui effettivo soddisfacimento sarà poi lasciato, in base al principio di sussidiarietà, agli stati. Dal punto di vista delle tecniche giuridiche e istituzionali questo risultato è conseguibile affidandosi a formule del tipo di quelle che nella costituzione ita-liana (nel testo modificato con la riforma del titolo V) regolano l’analogo pro-blema del riparto di competenze tra stato e regioni in tema di diritti, devolvendo allo stato la fissazione dei livelli essenziali di questi e lasciando al sistema locale – anche qui in nome del principio di sussidiarietà – l’organizzazione concreta dei relativi servizi.

Perché una tecnica di questo tipo non sarebbe utilizzabile per ripartire le competenze tra Unione europea e stati membri? La formula che si suggerisce supera quella del «mutuo riconoscimento», che sostanzialmente prevale oggi sul terreno sociale, ma non coincide con quella della «armonizzazione», perché si tratterebbe non di armonizzare le intere legislazioni nazionali, ma solo di fissare i parametri generali di soddisfacimento dei diritti a cui dovrebbero obbedire, fermo restando che poi ciascuna di esse continui a disciplinare e organizza-re come crede i propri interventi, mantenendo così le peculiarità dei rispettivi modelli sociali. E non è forse diversa da quella che comincia ad ispirare il campo della giustizia e degli affari interni – altro delicato terreno di intervento dell’Unione – con la proposta di decisione quadro avanzata dalla Commissione al Consiglio (proposta 2004/0113 del 28 aprile 2004, ancora non approvata) in tema di diritti processuali nei procedimenti penali, che – sia pure per ora limitatamente a un numero piuttosto ristretto di diritti di difesa identificati come quelli il cui rispetto nel processo è il più imprescindibile per rendere accettabile il re-ciproco riconoscimento delle decisioni penali – prevede per essi dei minimi di trattamento da osservarsi da tutte le legislazioni degli stati .

Certamente vi sono in questa possibile tecnica dei rischi. Come quello che la fissazione dei parametri dei diritti li collochi a livelli assolutamente minimi, il che potrebbe avvenire sotto la spinta delle condizioni e dell’orientamento politico dei nuovi membri dell’est, che non si sentono di muoversi verso traguardi sociali elevati ma si contentano di una politica che assicuri l’occupazione e in re-altà in questa fase hanno interesse a praticare un vero dumping sociale. Ma bisogna tener presente che, qualora avvenisse che la legge europea si attestasse all’inizio su valori davvero minimi, inaccettabili per le società più avanzate, gli stati potrebbero sempre superarli fissando valori più alti – questo infatti è garantito dalla proposta di decisione quadro per i procedimenti penali . E che, quanto agli stati più arretrati, essi sarebbero pur sempre spinti a realizzare un progresso graduale rispetto alla situazione attuale, che porterebbe poi ad accet-tare livelli più alti di protezione in nuove leggi europee .

La discussione sugli strumenti

Ciò precisato, quali saranno le conseguenze dell’ordine di idee qui proposto sulla sorte dell’attuale Trattato? Il problema aleggia in Europa, nonostante la fase di profonda inerzia che si è sopra documentata.Si presentano a questo proposito molte e diverse opzioni, tra le quali occorre scegliere per un corso di cose coerente con le esigenze e praticabile .

La strada che si è presentata per prima, nelle reazioni immediate ai falliti referendum, e che non è ancora uscita di scena (forse è quella che raccogliereb-be ancora la maggioranza delle speranze), consiste nell’insistere per un’approvazione del Trattato di Roma. Esso verrebbe approvato almeno dai quattro quinti degli stati (al momento si è a circa tre quarti di questo cammino) e si addiverrebbe poi, secondo quanto previsto da un’apposita dichiarazione ad esso allegata, ad una riunione del Consiglio europeo che dovrebbe indicare quale possa essere l’ulteriore itinerario. Perché questo si concluda senza l’estromissione degli stati dissenzienti – che ovviamente richiederebbe un nuova ratifica da parte di tutti e non sarebbe certo una strada facile – si potrebbe, sull’esempio dei precedenti casi dei Trattati di Maastricht e di Nizza accettati per tal via dalla Danimarca e dall’Irlanda, adottare una dichiarazione che dia qualche soddisfazione alle istanze dei membri dissenzienti, dando loro occasione di tornare a votare in nuovi referendum che potrebbero avere questa volta esito positivo. Tuttavia, dalle opinioni diffuse, e particolarmente ferme quando si tratta di voci francesi, si suol desumere l’impraticabilità, nell’ipotesi attuale, di questo percorso, reso difficile dalla radicalità delle obiezioni di alcuni elettorati e dalla forza politica che hanno gli stati dissenzienti .

È ancora accolta, da parte di persone o ambienti lontani dalla pratica politica, l’utopia di uno strumento del tutto nuovo che legherebbe in una nuova istituzione europea democratica e socialmente avanzata un cosiddetto nucleo duro di paesi, che così aprirebbero in futuro la strada ad un’unione federale più stretta estesa alla parte d’Europa che ci vuol stare . Ma si tratta di un’ipotesi tanto più astratta in quanto i popoli che hanno finora detto no sono proprio al-cuni appartenenti agli iniziatori d’Europa, che dovrebbero essere parte (e che parte!) del nucleo duro.

Un’ipotesi di tutt’altra natura sarebbe quella di dichiarare che si può fare a meno di una costituzione europea. Estremizzando la posizione adombrata nella conferenza stampa di Barroso e presumendo che questa possa essere la posizione del governo inglese (ma al momento è forse illegittimo forzarle in questo senso), si penserebbe in questo caso di abbandonare il Trattato e andare avanti, come in passato, con modifiche successive ai trattati esistenti, per adeguarli via via a nuovi contenuti ritenuti necessari e di cui oggi si può senza dubbio ri-conoscere l’esigenza (anche se poi non è facile l’accordo su quali esattamente essi siano). La critica a questa posizione è quella che è stata alla base di tutto il processo costituzionale da Laeken in poi: un’Europa a venticinque stati, ormai sulla soglia di divenire ventisette con l’ingresso, previsto per il 2007 o al mas-simo rinviabile al 2008, della Romania e della Bulgaria, e per di più disposta ad aprire la strada ancora ad altri membri, non può vivere con i trattati esistenti o con ritocchi a questi ultimi della stessa natura dei precedenti; né lo può comunque se si vuole assicurare un funzionamento più adeguato dell’attuale e far fronte alle nuove sfide mondiali . È per questo che quella negativa è un’ipotesi che trova nell’ambiente di Bruxelles e in chi è legato alla vita dell’Unione un diffuso e forse condiviso rifiuto.

L’impraticabilità di queste vie o la loro mancata rispondenza alle esigenze di fondo che si pongono inducono più d’uno a proporre la rinegoziazione di un trattato costituzionale. Essa appare l’opzione intellettualmente e politicamente più stimolante. Consiste in una rielaborazione del trattato, anche partendo reali-sticamente dal trattato firmato a Roma – che del resto contiene riconoscibili progressi –, nella duplice linea di rivederne i contenuti, puntando per quanto ci riguarda su quelli sopra ipotizzati, e di innovarne la formalità. Questo secondo aspetto sarebbe raggiunto limitando il trattato costituzionale alla prima, alla seconda e alla quarta parte dell’attuale – che sono le vere parti «costituzionali» – e separandole dalla terza, che tale non è perché si esaurisce nella determinazione di politiche attuative ordinarie, oltreché puramente riproduttive dei trattati precedenti; parte che verrebbe versata in un protocollo allegato al trattato. Secondo un’altra versione, questa parte potrebbe essere tenuta in vita mantenen-do in vigore i trattati che finora la contengono, per i quali si porrebbe poi il problema del rapporto con la costituzione, che dovrebbe essere risolto in via interpretativa e tendenzialmente riconoscendo la preminenza di quest’ultima su ogni altra fonte, salvo a successivamente modificarli per armonizzarli con essa.

L’opzione tra le due varianti dovrebbe essere oggetto di ulteriore discussione. Comunque, osserva più d’uno, un rilevante vantaggio di quest’innovazione formale, al di là della miglior comunicabilità della costituzione di fronte all’opinione pubblica e quindi agli elettorati, consisterebbe nel rendere possibile diversificare la forza giuridica dei due diversi strumenti – la costituzione e il protocollo o i trattati – nei confronti delle future revisioni. Queste sarebbero infatti sicuramente necessarie per le politiche, ma anche con tutta probabilità per la costituzione (dato che nei suoi contenuti saranno sicuramente presenti in prima battuta, per esigenze di compromesso tra i vari stati e i loro governi, delle parti inadeguate). La costituzione manterrebbe, quanto meno in una prima fase, la rigidità attuale delle procedure di modifica, mentre si potrebbe conferi-re al protocollo o trattato una maggiore flessibilità, nel senso che per modificarlo basterebbero maggioranze qualificate sia in sede di stipulazione che in sede di ratifica. Se non si fosse subito d’accordo per questo declassamento della forza giuridica del protocollo o del trattato sulle politiche, la separazione dalla costituzione, si osserva, ne faciliterebbe l’adozione in futuro.

L’opzione di distinzione del valore formale delle varie norme, che si era già presentata nei lavori della Convenzione, è tecnicamente giustificabile e comporta solo la complicazione di render necessario che si rielabori la terza parte attuale scorporandone quelle disposizioni – qualcuno le ha già calcolate in circa quindici pagine di testo – che, avendo natura costituzionale perché precisano il funzionamento delle istituzioni e le procedure, sono destinate a confluire nel trattato costituzionale.

Il reinnesco della ripresa

Quella qui accolta è un’opzione praticabile o va incontro ad obiezioni preclusive? Certamente nel clima attuale essa non appare facile da portare avanti. Ma il passato d’Europa sembra insegnare che a un grave scacco è possibile reagire con successo con proposte innovative, che tengano conto, interpretan-dole creativamente, delle volontà coagulatesi nel rigetto dei progetti precedenti. In questo senso l’interpretare il voto francese e olandese, come pure le per-plessità di altri paesi – per variegate che ne siano le motivazioni –, come fondamentalmente ispirate alle preoccupazioni dei danni al modello sociale euro-peo che conseguirebbero, in presenza dell’attuale quadro di poteri e di politiche, alla crisi dell’economia e all’allargamento dell’Unione, fornisce una chiave per procedere in quella direzione, unitamente al farsi carico della drammaticità della situazione mondiale.

Chi e come potrebbe prendere l’iniziativa e chi portarla avanti? Occorre, come si è visto nella storia, un uomo, un gruppo di uomini, acuti, lungimiranti e appassionati che, agendo con decisione, sappiano coagulare attorno ad essa forze politiche, culturali e sociali (per esempio i sindacati) adeguate all’opera.

Vi sono nelle istituzioni e nelle loro retrovie, come ai tempi di Monnet, di Schuman, di Adeanuer, di De Gasperi, di Spinelli, dello stesso Delors, questi uomini? Vi sono dei partiti e dei centri associativi capaci di tanto? Vi sono stati in cui possono maturare condizioni più vivaci? In Italia, mentre è scontata la sfiducia nella destra, fondamentalmente antieuropea e troppo «americana», si può giustificatamente chiedere all’attuale opposizione, anche prima che diventi governo e in vista del governo, e in particolare al suo capo e agli uomini migliori, di farsi carico di una riflessione e di una proposta. Le idee sopra abbozzate potranno forse essere un terreno di lavoro.

Tecnicamente, le stesse soluzioni procedurali sono abbastanza chiare e sembrano politicamente accreditabili. Su impulso del parlamento europeo, la cui sessione di lavoro va chiesta e sostenuta con vigore, si potrebbe convocare la Convenzione, nella quale le istanze ora proponibili dovrebbero trovare migliore accoglienza che in passato. Come si propone, la Convenzione non dovrebbe sciogliersi dopo redatto il suo progetto, ma restare in vita per un dialogo conti-nuo che le renderebbe possibile difendere il nuovo progetto e porsi con la Con-ferenza in una sorta di processo di codecisione. Si potrebbe poi pervenire a un voto consultivo di tutti i paesi alle elezioni europee del 2009, con i vantaggi di un’espressione contemporanea, non avente valore giuridicamente decisionale ma politicamente efficace, di tutti i popoli europei .

Il rapporto con gli allargamenti

Ma i problemi d’Europa non finiscono qui, si estendono al particolare peso della questione britannica e di quella degli ulteriori allargamenti. Si tratta di problemi sui quali, ancora una volta, sono sul tappeto diverse opzioni che possono lasciare indecisi.

Solo la scelta a priori, del tutto «americana», dell’attuale governo italiano può ispirare la linea, testimoniata a Bruxelles, di considerare – vorremmo dire, irresponsabilmente – quelle due questioni come separate dai problemi della costituzione e della stessa gestione corrente dell’Unione. E in particolare di ritenere la politica degli allargamenti, segnatamente quella verso la Turchia, come «parallela» alla questione istituzionale e quindi da portare avanti indiscriminatamente e con l’obiettivo di condurre il negoziato a un esito senz’altro positivo. Infatti le posizioni dell’Inghilterra hanno creato sempre seri problemi nel cam-mino di avanzamento dell’integrazione europea. È poi notorio che l’esigenza di affrontare in maniera pertinente l’allargamento dell’Unione oltre i quindici membri precedenti è stato tra i motivi base del processo di costituzionalizzazio-ne e si pone come un’ovvia necessità perché un’Europa così vasta come quella nata dall’entrata nel 2004 di nuovi dieci paesi e, tanto di più, destinata ad ampliarsi ancora non potrebbe operare normalmente senza un quadro ordinamentale più saldo e completo. È altrettanto sicuro che la questione allargamento – già nei termini attuali e con le prospettive ulteriori – ha influito in misura assai alta sul rigetto del Trattato di Roma da parte di due elettorati e desta in altri importanti casi preoccupazioni che bisogna fronteggiare.

Il problema dell’Inghilterra resta acuto. La sua dirigenza (non si saprebbe dire con certezza se anche davvero la sua opinione diffusa), come la presidenza Blair nonostante la sua affermazione di europeismo attesta, sta al polo opposto delle cose fin qui proposte. Il comportamento quotidiano degli inglesi in seno alle istituzioni europee, dove essi sono presenti con capacità professionali e organizzative elevate e con la determinazione che è ben nota, è costante-mente ispirato (si potrebbe dire però che non sono i soli) a un grande rigore nella difesa del loro sistema nazionale e dei caratteri del loro ordinamento. Essi non hanno mostrato alcuna particolare sensibilità nei confronti della costituzione, se non per moderarne l’impatto, e non ne hanno nostalgia; le loro posizioni formali e di metodo, del resto, si sposano bene alle loro idee in campo economico e sociale.

Per tutto questo, il Regno Unito è stato il vero, e risolutore, convitato di pietra, se mai uno ve n’è stato, nel processo di costituzionalizzazione, e del resto è ben noto che il paese da cui si attendevano le maggiori diffi-coltà nella ratifica, e in vista delle quali (a fianco di quelle danesi) era stata redatta la dichiarazione sulla riunione del Consiglio da tenersi dopo la scadenza di due anni dalla firma del Trattato di Roma (e dunque dopo il 30 ottobre 2006) per il caso di mancata ratifica di qualche membro, era appunto l’Inghilterra. Non è dunque sorprendente che il suo governo abbia immediatamente rinviato, dopo l’esito francese, il referendum sulla ratifica prima programmato da Blair e che si presenti oggi come una pietra d’inciampo nella ripresa dell’itinerario verso una ripresa del processo.

Il paradosso è che, malgrado tutto, l’Europa non può fare a meno dell’Inghilterra né essa dell’Europa. Forse, allora, la soluzione starebbe nel te-ner conto del prezioso insegnamento che viene dai Mémoires di Monnet, ottimo conoscitore, collaboratore storico e amico degli inglesi, quando egli ripetu-tamente si dice sicuro che sulla questione europea non bisogna star dietro alle ritrosie britanniche poiché, se noi altri andremo avanti, l’Inghliterra, realista com’è, finirà col seguire (e questo è stato in molte fasi un buon consiglio) .

Ci si può, oggi, attenere a quest’insegnamento? Probabilmente sì, e mai la situazione lo meriterebbe tanto quanto di fronte alle sfide costituzionali, econo-miche e sociali che si pongono all’Unione. Invece l’atteggiamento corrente – già praticato in seno alla Convenzione e alla Conferenza intergovernativa – è proprio quello contrario: appiattirsi su un realismo modesto che suggerisce di considerare insuperabili le difficoltà frapposte dall’Inghilterra e quindi abbassare il livello dell’integrazione a quello accettabile dai britannici.

Quanto all’altro problema – l’inserimento nell’Unione di altri stati – sembra diffusa la percezione che quello già intervenuto di dieci nuovi paesi, e special-mente di otto dell’Est ex sovietico a cui si somma la già stipulata adesione della Romania e della Bulgaria, è stato il risultato di un processo troppo precipitato. Chi già lo pensava, come per esempio nell’ambiente sindacale, oggi lo dice chiaramente almeno in privato, di fronte alla difficoltà di mantenere il modello sociale degli stati dell’Occidente e di estenderlo a quei paesi, creata non tanto dall’esercito industriale di riserva (per dirlo marxianamente) in essi presente, quanto soprattutto dalle scelte ideologicamente condivise dalle loro dirigenze.

Di fronte a questa situazione, due sono le linee che si prefigurano. La prima consiste nel continuare a preparare i nuovi allargamenti, magari rallentandone l’iter – anche in considerazione delle innegabili difficoltà poste dalle condizioni di alcuni paesi –, come si è previsto per la Turchia, il cui processo di adesione dovrebbe durare una decina di anni. Essa corrisponde all’at-teggiamento esplicito maggiormente diffuso in seno all’Unione ma non è l’unica presente a livello più profondo.

La seconda linea è quella che potrebbe trarre dalle difficoltà sperimentate un invito a immaginare diverse soluzioni per il futuro. Si tratterebbe di tramuta-re in orientamento politico una linea che, tecnicamente, è abbastanza definita (anche se la sua esecuzione va attentamente calibrata).

Il legame con nuovi paesi alle frontiere dell’Europa attuale può essere, anziché l’inserimento nell’Unione, quello di una stretta associazione o partenariato: un legame avente maggiore intensità rispetto a quello esistente con essi o con altri stati, ma che risulterebbe meno coinvolgente dell’inserimento diretto e sarebbe capace di raggiungere effetti analoghi in forma più controllabile e senza provocare i problemi di un allargamento eccessivo del quadro istituzionale.

È l’ipotesi prefigu-rata dalla politica di vicinato, che riguarda «l’anello degli amici» cioè dei pae-si contigui all’Unione, dall’Ucraina e domani dalla Bielorussia giù giù lungo le sponde orientale e meridionale del Mediterraneo fino al Marocco. Una politica di ascendenza Delors e condivisa da Prodi e dalla sua Commissione, che a-vrebbe potuto essere adottata per molti dei paesi dell’Europa dell’est ora entrati, e che potrebbe forse esserlo per i Balcani occidentali – che tuttavia vi è bisogno di unire all’Europa per superare definitivamente i tristi effetti della divisione jugoslava. Per la stessa Turchia la proposta è possibile ed è stata prospettata, pur nella consapevolezza dei molti motivi, tanto discussi in questi giorni, che spingerebbero alla sua inclusione piena nell’Unione (e che si contrappongono ad altri in senso opposto, dando luogo a valutazioni per ora estrema-mente problematiche), a cui si aggiunge la difficoltà politica di uscire verso di essa dallo stato di avanzata compromissione comprensibilmente ma forse prematuramente adottata.

È difficile pronunciarsi nettamente per l’una o l’altra di queste opzioni; ma sembra che il metterle più esplicitamente e motivatamente l’una dinanzi all’altra sia saggio nella situazione di incertezza attuale. In ogni caso, questa discussione non può essere scissa da quella sulla ripresa del processo di costituzionalizzazione. E non è azzardato il dire che essa potrebbe portare a includere la definizione dell’atteggiamento da tenere in ordine alla questione allargamento e la stessa definizione dei confini dell’Unione nel futuro quadro costituzionale, affrontando così di petto la questione, mai definita nella tradizione storica e letteraria, di quale sia la dimensione geografica dell’Europa e quali i suoi confini.

Un commento a “Proposta per l’Europa”

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