Interventi

Articolo pubblicato su ‘Il Fatto Quotidiano‘ del 28.08.2020

Immaginiamo di essere a Parigi, alla vigilia della convocazione degli Stati Generali. C’era chi sosteneva ancora che le Leggi fondamentali della Monarchia erano le migliori del mondo, seppure intorbidate dall’assolutismo torvo di Luigi XV, e che andavano per questo corrette. E chi diceva invece che la Costituzione era da rifondare su basi del tutto nuove. L’argomento più popolare invocato dai sostenitori di questa seconda posizione era: l’aristocrazia di Versailles non è più l’aristocrazia di spada, che poteva pretendere una funzione rappresentativa in virtù delle vittorie militari con le quali, assieme al re, aveva costituito il regno; quell’aristocrazia è solo più un insieme di egoisti cicisbei che vivono in un esilio dorato alle spalle dello Stato.

Non c’è dubbio che l’attuale campagna referendaria riecheggi questo tema: la classe politica fondata sui partiti è solo più una massa parassitaria. Ci troviamo allora di fronte a un’alternativa secca: difendere la legge fondamentale, seppur deturpata, sperando che i rappresentanti riprendano l’orgoglio di essere i costruttori di quel “corpo politico” che è il popolo sovrano nella concretezza delle sue divisioni; o constatare, amari e disillusi, il disfacimento (a causa dei suoi eletti) di questo stesso corpo. E dunque: oportet ut scandala eveniant.

Ci troviamo davvero nella condizione dell’asino di Buridano, ma la questione non è il numero dei parlamentari. È se aggrapparci al principio della rappresentanza organizzata che amiamo, o se invece lasciare che quel che appare un sentimento popolare largamente diffuso faccia il suo corso. Perché il Pd e Art.1 non prendono posizione? Perché sanno che nel loro popolo la difesa in punto di principio non verrebbe compresa.

I costituzionalisti hanno fatto finta di non capire la questione in gioco, e hanno cercato di spostarla sul piano tecnico. C’è chi non sceglie – per motivi tecnici – nessuno dei due secchi (Zagrebelsky); chi sceglie tecnicamente quello del No (i 183 costituzionalisti del relativo appello) puntigliosamente distinguendosi da chi adduce anche vaghi principi politici; e c’è chi ritiene che queste difficoltà tecniche siano inesistenti (Onida). Non è dato ritrovare, quindi, una chiara distinzione intorno a che cosa si intenda per quella “rappresentanza” che gli uni vogliono umiliare, gli altri rigenerare. Tutti sembrano accontentarsi della rappresentanza come mera elettività.

Ma l’elettività non crea nessuna rappresentanza. Rousseau vedeva chiaro l’essenza di quest’ultima: “(Mosè) ideò ed eseguì la stupefacente impresa di costituire in nazione uno sciame di profughi disgraziati, privi di arte, di armi, di capacità, di virtù, di coraggio, e che, non possedendo un solo pollice di campo, costituivano un branco straniero su tutta la faccia della terra. Mosè osò fare di questo branco errante e servile un corpo politico, un popolo libero, e, mentre esso errava nei deserti senza neanche avere un sasso su cui posare il capo, gli dava quella istituzione duratura che ha sfidato il tempo, la sorte e i conquistatori”.

Ma che cosa rende possibile a qualcuno dirsi “rappresentante” e fare e mantenere un corpo politico? Se rappresentare vuol dire parlare a nome di un assente (il popolo, la classe…), dire la sua volontà, indicare la strada che egli vuole si percorra, allora è indispensabile che il rappresentante parli sempre e solo in nome di questo “altro”. Se il rappresentante parla dei propri interessi particolari, e non di quelli (di parti del popolo) che egli stesso generalizza (“l’altro”), allora tutto l’edificio crolla. Ma, prima ancora, da quale posizione si può tentare di parlare in nome di questo altro?

Terracini lo chiarì in modo esemplare nel discorso con cui apri, il 4 marzo 1947, in Assemblea Costituente, la discussione generale: “… La imminente discussione… deve dare conforto… a tutti coloro che, soffrendo in sé … di ogni offesa ed ingiuria che venga portata contro il principio rappresentativo e gli istituti nei quali esso storicamente oggi s’incarna, voglion però… che questi non vengano meno al proprio dovere: che non è solo quello di elaborare testi legislativi e costituzionali, ma anche di essere in tutti i propri membri esempio al Paese di intransigenza morale, di modestia di costumi, di onestà intellettuale, di civica severità… di sdegnosa rinuncia ad ogni ricerca di facili popolarità pagate a prezzo del decoro e della dignità dell’Assemblea. … noi (riusciremo) a dare prova ai nostri ed ai cittadini di tutti i Paesi del mondo che l’Assemblea costituente italiana è pari alla sua missione, e degnamente rappresenta il popolo che l’ha eletta, un popolo probo, eroico, incorrotto”.

Dire che il popolo italiano, nel 1946, era un popolo probo, eroico, incorrotto non era né vero, né facile: era il rappresentante che lo plasmava così. Se qualcuno volesse riprendere questo discorso, allora varrebbe la pena difendere questo Parlamento.

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