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Riscoprire lo spirito repubblicano

Versione integrale del discorso pronunciato da Mario Tronti l’11 dicembre 2013 al Senato durante il dibattito sulla fiducia al governo Letta
Pubblicato il 11 Dicembre 2013
Materiali, Officine Tronti, Scritti

Farò un intervento mirato. Mirato al senso, al significato di questo governo. Penso Presidente Letta, che Lei dovrebbe rivedere, aggiornare, superare, le definizioni che fin da principio sono state date della sua esperienza di governo. Governo di necessità, di emergenza, di servizio. No, non più.

Questo è un governo politico, con una maggioranza politica, incardinato su tre forze politiche parlamentari, di centrosinistra, di centro, di nuovo centrodestra. Va marcata la discontinuità con la recente passata maggioranza: da parte del governo, con una più ferma e forte capacità di decisione, da parte del parlamento con una più sobria rappresentanza degli interessi, e con la rinuncia a richieste ultimative. I gruppi parlamentari di sostegno vanno considerati alla pari, tutti indispensabili, tutti responsabili. Non contano i numeri, contano l’impegno e la lealtà rispetto al programma.

Si tratta di un governo a scadenza. Ed è un tratto di severità, e di nobiltà, l’indicazione di un termine ad quem per la propria operatività. Superare il semestre europeo, ma nello stesso periodo di tempo portare a realizzazione i due punti fondamentali di programma. Uno: agganciare la ripresa, affrontando la crisi con le politiche, aggredendo soprattutto la drammatica emergenza lavoro. E su questo altri diranno con più competenza. Due: mandare a compimento l’iter delle riforme istituzionali.

Su questo tema, e dintorni, concentro il mio contributo.

Definirei questo come un governo mini-costituente. Non costituente a tutto campo: perché non si tratta di rivedere l’impianto complessivo della Carta e perché non è stata richiesta e non è stata concessa una legittimazione popolare per un compito di questo tipo. Voglio dire che non è in discussione la forma di Stato. E la stessa forma di governo può avere, nelle condizioni date, un aggiustamento, e non un rivolgimento.

Sarebbe bene ridare agibilità piena al 138. La eventuale deroga ha visto la contrarietà di una parte importante della cultura istituzionale e la diffidenza di una fetta rilevante di opinione pubblica. Occorre tenerne conto.

Su due punti di programma minimo, c’è un accordo che va oltre l’attuale maggioranza: la diminuzione consistente del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo. Da qui, partire. Sottolinerei: superamento del bicameralismo perfetto, o paritario. Non abolizione, o eliminazione del Senato. Piuttosto differenziazione sostanziale delle funzioni delle due Camere. E’ una questione delicata. Non ho il tempo per entrare nel merito. Avrei delle idee in proposito. Non mancheranno le occasioni per parlarne.

Vorrei, appunto, che rimanesse nei dintorni e non occupasse il centro del discorso sulle riforme costituzionali il tema della legge elettorale. Forse andrebbe approntata una diversa clausola di salvaguardia, diversa da quella che la Consulta ci ha risolto. Un impedimento ad andare al voto con un proporzionale puro. Poi, separerei i due percorsi. Per una ragione precisa. Guardate, colleghi, non è vero che in questi anni, e decenni, non si sono fatte le riforme istituzionali. Purtroppo, sono state fatte. A spezzatino, come si è detto: togliendo di qua, inserendo di là. Ma soprattutto sono state fatte a rimorchio della manomissione delle leggi elettorali. Per lo più, per via referendaria, che considero l’assurdo politico per eccellenza. Votammo, votarono, per l’abolizione delle preferenze. Oggi, si voterebbe, massicciamente come allora, per il ripristino delle preferenze.

Comunque, non è questo il problema, perché per fortuna non ci sono iniziative falsamente dal basso come questa. Il problema è che l’attuale assetto bipolare, con l’indicazione diretta del nome sulla scheda del capo del governo, costituzione materiale in deroga della costituzione formale, è stato introdotto non per via di riforma istituzionale, ma per via di riforma elettorale. E’ il maggioritario di coalizione personalizzato che ci ha dato questo bipolarismo malato, malaticcio, depresso, ogni giorno febbricitante, un giorno con la febbretta un altro giorno col febbrone. E perché? Ma perché le varie leggi-truffa imponevano delle coalizioni capaci di vincere le elezioni, e non sempre, ma sempre, comunque, incapaci di governare il paese.

Penso che la politica, tutta, farebbe un’operazione di pulizia, mentale, se trovasse il coraggio di dire questa verità: che i rimedi della seconda Repubblica sono stati peggiori dei mali della prima. E questo, non con l’intenzione di tornare a quei mali, ma con il proposito di approntare rimedi diversi.

E il primo rimedio diverso è questo: una legge elettorale vera, seria, duratura, soprattutto duratura, va fatta dopo, e non prima, che si sia definito il riassetto istituzionale. La legge elettorale è un calco che va ad aderire su una forma politica predeterminata, una forma di rappresentanza e di governo, per renderla funzionante, in modo efficace, in modo stabile.

Non ho nostalgie proporzionaliste. Ma quando sento definire il proporzionale un superporcellum, tradotto in italiano una superporcata, e cioè quando le parole senza pensiero vanno per conto loro, mi viene da raffrontare i risultati economici e le conquiste politiche, sociali, civili, di dignità, di costume dei “trent’anni gloriosi” del dopoguerra proporzionale con le miserie del ventennio maggioritario.

Così, non sono pregiudizialmente contrario a un assetto bipolare. Sarei semmai contrario a un assetto bipartitico. Ricordiamo sempre che siamo Europa, e non America. Ma vorrei un bipolarismo costruito, progettato, pensato, politicamente pensato. Finché restiamo nel solco di una repubblica parlamentare, lo stesso bipolarismo deve essere un bipolarismo parlamentarizzato, direi, organizzato, non personalizzato.

Tra la riforma della legge elettorale e la riforma delle istituzioni, in mezzo c’è un tema di pressante attualità e ineludibilità. Si chiama autoriforma della politica. Che non riguarda solo i costi, i numeri, le sedi. Riguarda il modo di fare politica, impegna il costume politico. Riguarda la selezione e la formazione del ceto politico.

Non voglio caricare sul governo quest’altra missione impossibile. E’ compito piuttosto nostro, del parlamento. Presidente Grasso, mi chiedevo, preparando questo intervento, se non fosse possibile trovare qui dentro un luogo formale dove cominciare a istruire questa materia, per consegnarla poi a una più ampia riflessione, culturale e civile.. Perché in questo problema io vedo l’origine della corruzione, del degrado, del decadimento della professionalità, dell’impoverimento culturale. In crisi i grandi partiti, sorpassata la democrazia rappresentativa, anche qui per costituzione materiale, con tutte queste forme di democrazia immediata, il problema è dove vada collocato il filtro virtuoso che seleziona il passaggio dal sociale al politico, dalla presenza sociale all’agire politico. E’ un enorme problema, che non vedo iscritto all’ordine del giorno.

Le conseguenze sono gravi. Una per tutte. Abbiamo questa produzione, che sembra spontanea, e a mio parere non lo è, di leadership friabili, effimere: emergono, irrompono, ogni volta sembra quella che ci voleva, e presto passano. Non depositano. E anche in quelle che durano, la loro caratteristica è la leggerezza del provvisorio. E questo perché si tratta di fenomeni mediatici, più virtuali che reali, non descrivono processi materiali, cavalcano flussi di opinione. E però poi impattano sulla politica nella forma di una vera e propria devianza.

Si invoca il leader forte. E anche qui ogni volta, sembra di averlo trovato, Ma il leader forte non è quello che sa solo conquistare consenso. Non è nemmeno quello che sa solo rappresentare. O peggio, quello che fa sognare. E’ quello che sa orientare, dirigere, governare, per competenza, per intelligenza, per cultura.

Posso metterla così, con una formula? Come garantire la libertà di movimento del leader, e anche la ricerca della figura del leader, dentro la dittatura della comunicazione?

Oggi il candidato leader, o premier, per prima cosa va a scuola dal guru della comunicazione. Impara a quale telecamera deve guardare, poi non sa a quale pezzo di mondo, e di società, deve aderire. Bisognerà pur cominciare a dire alle giovani generazioni, che scalpitano per entrare in politica subito da protagonisti, che per entrare in politica devi sapere prima di tutto chi sei, da che parte stai, per che cosa combatti, con quali strumenti, tuoi, già formati, sai dimostrare di essere entrato in campo.

Preme con forza su di noi questa domanda di massa di un generico cambiamento, una domanda confusa, generosa, e nello stesso tempo disorientata, in ricerca e per questo oscillante. Mai i flussi elettorali sono stati così mobili. E’ nostro compito allora disporre un’offerta politica che sia di prestigio e capace non di potere ma di autorità. La riforma dei meccanismi, elettorali e istituzionali, deve mirare a questo. Non sono questioni tecniche, sono questioni politico-culturali. Bisogna dire che una forza politica senza una cultura politica non è una forza politica. E’ una debolezza impolitica. Esposta ai quattro venti e manovrabile da ben più consistenti potenze oggettive, di ricchezza, di mercato, di produzione, di finanza, di comunicazione.

Un punto è per me discriminante. E decisivo per la lotta tra politica e antipolitica, tra governo e populismo, tra democrazia e demagogia.

Bisogna chiamare le persone a scegliere qualcosa, non qualcuno. Qualcosa e non qualcuno. E in questa frase c’è quasi tutto quello che ho da dire. Scegliere non un capo, ma una classe dirigente. Altrimenti si compie un inganno, si vende un’illusione, e non si orienta, si disorienta. Classi dirigenti, di opposta tendenza, ma tutte eticamente inattaccabili, culturalmente attrezzate, politicamente autorevoli.

Colleghi, vorrei dirvi questo: noi non siamo delegittimati perché eletti con questa legge elettorale. Fosse solo così, sarebbe semplice. Ci legittimerebbe, vi legittimerebbe, un altro modo di essere eletti. La realtà ci dice che non c’è riconoscimento di popolo alla nostra funzione. Non basta una fiducia del parlamento al governo se non si ristabilisce una fiducia del popolo nel parlamento. E’ questa la ferita, la ferita democratica, da sanare. Siamo delegittimati da questo distacco, estraneità, ostilità, a volte addirittura senso di rabbiosa inimicizia dei cittadini comuni verso la politica e verso i politici e che è sempre a rischio di travolgere tutto, la cosa pubblica, il parlamento. il governo, lo Stato. Se dobbiamo dividerci. dividiamoci allora e opponiamoci tra noi negli schieramenti di chi cavalca quest’onda e di chi vuole trattenerla e rovesciarla. Governo e opposizione oggi sono questo, purtroppo sono questo. Perché dovrebbero essere piuttosto contrapposizione tra modelli di società, tra idee di sistema politico, tra coltivazione dell’una o dell’altra forma di vita, tra antropologie diverse, che cosa vuol dire essere uomini, che cosa vuol dire essere donna.

Per un intervento sulla fiducia, credo di essere andato fuori tema.

Concludo. In termini di poco più concreti. Questo, dunque, è un governo con una nuova maggioranza. Un governo di lavoro, da dove è scomparso lo spettro per me, tra l’altro, niente affatto demoniaco delle grandi intese. E allora vorrei invitare i gruppi che erano già di opposizione alla precedente maggioranza, i compagni di Sel, i cittadini del M5S, ad essere, per usare un’espressione entrata prepotentemente nell’uso, “diversamente oppositori”. E non faccio appello al senso di responsabilità nazionale. Questo sarebbe un pistolotto etico, che non mi appartiene. Penso che dobbiamo riscoprire – è un’espressione che mi piace molto – uno spirito repubblicano. Rideclinarlo – questo spirito repubblicano – per i tempi nuovi, nel solco del grande modello che ci consegnarono i padri costituenti. Lì c’era una sobrietà di comportamento, che si è perduta e che va ritrovata. Coltiviamo gelosamente quella memoria. Riconsegniamola alle nuove generazioni. Attrezziamole con questo e per questo. E poi vadano avanti.

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