Interrogarsi oggi sul sistema elettorale non significa individuare il sistema “ottimo”. Ammesso che tale sistema esista, non ci si può limitare a riflettere sulle “regole del voto”, per riprendere il titolo dell’iniziativa promossa dal CRS il 6 febbraio scorso, ovvero sulle diverse soluzioni tecniche per trasformare i voti in seggi nella maniera più efficace per la democrazia. Anche perché, come sosteneva Pietro Ingrao, “il voto, da solo, non basta”.
Ragionare di sistema elettorale significa allora, e piuttosto, interrogarsi sulla dimensione orizzontale dell’equilibrio tra i poteri e, insieme, sul rapporto verticale tra sistema politico-istituzionale e società civile. O tra rappresentanza e partecipazione politica.
La rappresentanza è, non da ora, al centro della ricerca ed iniziativa del Centro per la Riforma dello Stato. Nei primi mesi del 2017, dopo l’affermazione del No al referendum costituzionale e dopo la sentenza della Consulta sull’Italicum, la riscrittura delle norme elettorali è divenuta una necessità non più rinviabile. Viceversa l’esito del voto del 4 dicembre e la stessa sentenza della Corte hanno determinato un effetto domino nella politica, in termini del tutto strumentali. Nelle cronache quotidiane del confronto tra le forze politiche, avversarie o ipoteticamente alleate, e della scomposizione e ricomposizione, interna ai singoli partiti come alle aree della destra, del centro e della sinistra, si ripropone, nonostante il suo palese fallimento, la tendenza a piegare la legge elettorale alle convenienze, presunte, dell’una o dell’altra parte. Nell’illusoria aspettativa di risolvere con questa o quella regola la perdita di legittimazione e di autorità della politica.
Non riconoscere che lo scontro sulle norme rimanda in realtà a lacerazioni più profonde e a discordie sedimentate significa scambiare la prophasis per l’aitìa, la causa contingente con la ragione profonda, l’ultima goccia con il contenuto del secchio pieno. Fuor di metafora, si guarda alla manifestazione esteriore, superficiale e più recente, mentre restano eluse le cause più profonde e di lungo periodo che attengono al deperimento della democrazia, anche nella sua espressione elettorale. Dal nostro punto di vista, parlare di sistema elettorale vuol dire proporsi di riannodare i fili che legano in una trama riconoscibile e durevole la democrazia formale con la democrazia sostanziale.
All’inizio degli anni Novanta le modifiche al sistema elettorale hanno sancito la convinzione che la governabilità doveva prevalere sulla rappresentanza, per rimuovere l’eccesso di domanda sociale e garantire un’ordinata gestione dei processi economici. In questa prospettiva, amministrare razionalmente la cosa pubblica avrebbe richiesto una riduzione della complessità, da ottenere rimuovendo l’articolazione e le funzioni dei corpi intemedi, considerati un ostacolo al libero fluire degli scambi tra interessi e all’esercizio funzionale della governance. Con il voto i cittadini e le cittadine avrebbero dovuto sceglier un/una leader cui delegare il potere di dare risposte, al riparo da orpelli e lentezze assembleari e dai riti stantii delle nomenklature.
Questa governabilità, peraltro, non si è mai materializzata nella realtà. Nonostante gli esecutivi dell’ultimo ventennio non abbiano lesinato forzature per garantirsi il sostegno del Parlamento, ridotto a funzioni ancillari, non ne è risultata tuttavia una maggiore capacità e una migliore qualità di decisione. L’idea che ci debba essere imprescindibilmente un Parlamento che a larga maggioranza sostiene il Governo, anche a prezzo di distorsioni della rappresentanza, ha dimostrato di essere fallace.
Sopratutto, non vi sono stati risultati soddisfacenti per il benessere dei cittadini e delle cittadine. E nel frattempo la società italiana ha perso la possibilità di prendere parte, di trovare un rispecchiamento nel quadro politico nazionale, di manifestare e comporre interessi diffusi. Il protagonismo dei soggetti collettivi è stato labile e intermittente; liquido, si direbbe, con una metafora abusata.
L’Italia ha rinunciato a essere una democrazia rappresentativa, plurale e consensuale, nel vano obiettivo di diventare una democrazia maggioritaria, inseguendo la negazione della propria identità storica e raggiungendo solo il traguardo, poco agognato, di divenire una società anomica, deprivata di riferimenti politici all’altezza dei problemi e delle aspettative.
Occorre invertire l’ordine del discorso oggi dominante. Possiamo farlo se il confronto sulla legge elettorale muove dall’esigenza di restituire alle forze politiche il ruolo di tessere rapporti con la società e rappresentare interessi collettivi, disattivandone la funzione attuale, che è quella di essere meri trampolini per aspiranti presidenti del consiglio. Un’esigenza, per così dire, terapeutica anche nei confronti della società stessa, ormai disabituata a rapportarsi con la politica se non nelle forme della investitura e della contestazione.
A questa esigenza corrisponde la scelta di un sistema proporzionale con sbarramento, che obbliga i partiti a motivare la richiesta del voto sulla capacità effettiva di rappresentare i soggetti sociali, nelle loro differenze. È al tempo stesso una scelta che restituisce al Parlamento la centralità che la Costituzione gli assegna, come arena in cui si confronta il pluralismo della società, delle sue culture politiche, dei suoi interessi. Senza essere sfigurato e trasfigurato nelle sembianze che vorrebbe imporle la razionalizzazione tecnica. Il Parlamento deve tornare ad essere un’istituzione della mediazione in cui i cittadini e le cittadine si sentano rappresentati/e e le organizzazioni politiche possano svolgere pienamente il proprio compito democratico. Al tempo stesso la formazione dei governi può essere agevolata anche attraverso disposizioni, in questo caso di rango costituzionale, che consentano a esecutivi anche di minoranza di avere una fiducia presunta, come in Francia, o di essere sollevati solo mediante sfiducia costruttiva, come in Germania, per non essere ostaggio di maggioranze negative che impediscano la formazione di un governo.
Non un ritorno al passato, ma un ritorno in sé dell’Italia, un recupero dei propri connotati storici che garantisca una maggiore aderenza del sistema politico alla società che dovrebbe rappresentare. Senza forzature, senza fughe in avanti, senza illusioni superomistiche. Provando a coniugare la tensione kelseniana per la valorizzazione della democrazia formale, che si alimenta di una concezione alta del compromesso, con l’enfasi per la democrazia sostanziale, delle masse, cara a Ingrao.
Antonio Agosta, Gaetano Azzariti, Maria Luisa Boccia, Claudio De Fiores, Mario Dogliani, Nicola Genga
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Al 14 marzo 2017 hanno aderito: Barbara Accetta, Franco Bianco, Salvatore Bonadonna, Antonello Ciervo, Elettra Deiana, Michele Della Morte, Piero Di Siena, Luigi Ferrajoli, Mario Festa, Angelo Fregni, Silvio Gambino, Chiara Giorgi, Andrea Girometti, Roberto Giuliani, Edward Lynch, Carlo Magnani, Vito Maragno, Isidoro Davide Mortellaro, Walter Nocito, Alberto Olivetti, Luigi Pelillo, Paolo Paoli, Paolo Palma, Giuseppe Picchianti, Giorgio Piccoli, Michele Prospero, Saverio Regasto, Federico Repetto, Antonio Sabatella, Giovanni Sapia, Enzo Scandurra, Anna Simone, Franco Trane, Michele Turco, Mauro Volpi

27 commenti a “Tra Kelsen e Ingrao”

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