occidentalizzazioneStati Uniti ed Europa ieri e oggi

Non è possibile oggi considerare l’occidentalizzazione – tematizzata nel famoso libro di Latouche (1989) – senza tener conto del solidificarsi di alcune divisioni interne all’Occidente, delle quali la più significativa è quella tra Stati Uniti ed Europa (con correlativi riflessi dentro la stessa Europa). E dato il ruolo fondamentale svolto dall’Occidente e dall’occidentalizzazione in un quadro mondiale caratterizzato dalla mondializzazione nella forma della globalizzazione che conosciamo(1), la presenza di queste divisioni è idonea a divenire, se già non lo fosse, un elemento fondamentale dei rapporti mondiali.
In passato il senso di una differenza tra le due componenti dell’Occidente certamente soggiaceva alle relazioni di intensa amicizia e qualche tensione serpeggiava conoscendo anche episodi acuti, quali la crisi di Suez del 1956 e, per l’Italia, la crisi dell’Achille Lauro nel 1984. Ma questi episodi rimanevano circoscritti e alcune tensioni più generali come quella della quale fu protagonista la Francia gollista apparivano nel complesso secondarie, perché limitate a un singolo paese e neutralizzate dal quadro generale di buoni rapporti, mentre la sensazione di una differenza era per lo più messa a tacere. È più che sicuro che in questa direzione, oltre le memorie comuni e le alleanze consacrate dalle guerre contro i fenomeni di autoritarismo affermatisi in Europa, influiva grandemente la presenza della divisione ben più acuta con l’Est e la percezione di una comune inimicizia e di un comune pericolo.
Con questo, l’americanismo era diffuso in Europa e l’americanizzazione avanzava non solo in politica ma nelle abitudini economiche, nella cultura e nel costume. Più contenuto da atteggiamenti di insofferenza in Francia e forse in Spagna, l’americanismo permeava profondamente paesi come l’Italia dove impediva, anche nell’alta cultura, l’espressione di critiche nette e condivise.
L’Occidente era, letteralmente, un «blocco» e come tale si presentava nel mondo. Un’elaborazione critica raffinata quale quella di Latouche non era perciò portata a introdurre differenze: l’analisi dell’occidentalizzazione, originale e disvelativa di un quadro mondiale ormai marciante verso la globalizzazione si offriva, correttamente, innanzi tutto come la prospettazione di un fenomeno, nato dall’Europa e più recentemente egemonizzato dagli Stati Uniti, ma fondamentalmente unitario nelle sue radici in quanto particolare civiltà e nel modo di manifestarsi verso l’esterno.
Caduto il blocco contrapposto dell’Est, venivano meno alcune delle premesse dell’indifferenziazione e se ne acquisivano altre, come la tendenza degli Usa, ormai unica superpotenza, a indurire la sua posizione di leadership solitaria, che spingevano all’emergere di divisioni in seno all’Occidente. Questo non si verificava tuttavia subito, non solo per la naturale vischiosità della visione precedente, ma perché le prime convulsioni nate negli anni novanta da antiche e nuove contrapposizioni con l’esterno portavano sulle prime a continuare, generalmente parlando, nell’atteggiamento di occultazione delle differenze.
Le cose stanno ora nettamente cambiando, soprattutto dopo e in dipendenza della crisi irachena. La divaricazione tra Usa ed Europa comincia a dichiararsi, forse maggiormente agli occhi di molti americani (e non solo dei così chiamati neoconservatori) che non alla percezione degli europei.
Tuttavia, benché alcuni dati rivelanti uno stato di tensione acuto, che investe in particolare le modalità dei rapporti con il resto del mondo e quindi determina quanto meno in potenza declinazioni diverse dell’occidentalizza-zione, siano evidenti, la loro lettura, l’apprezzamento della loro consistenza e della loro profondità, l’interpretazione della loro natura, le previsioni sul futuro e i desideri collegati a quest’ultimo, sono tutt’altro che univoci sia tra gli europei che tra gli statunitensi e sono naturalmente legati anche a meta-atteggiamenti che tendono a configurarli in maniere diverse.
Noi pensiamo che vada scartato l’assunto riduttivo che saremmo senz’altro in presenza d’una condizione di cose passeggera, legata univocamente all’e-vento della guerra in Iraq e alle politiche estremistiche della presidenza Bush ispirate dalle particolari tendenze dei neoconservatori americani, e che sarebbe venuta a cessare se vi fosse stata negli Usa la successione al potere dei democratici. Già questa particolare previsione pareva scarsamente attendibile: anzi l’atteggiamento di Kerry e altri fattori più generali giustificavano piuttosto il timore contrario. Oggi, comunque, la rielezione di Bush, e per giunta con una forte maggioranza, dovrebbe persuadere che la visione dei problemi del mondo ch’egli interpreta corrisponde a una robusta tendenza della cultura e della politica del paese. Difficilmente può sostenersi che la diagnosi, condivisa dai primi commenti, secondo cui la vittoria presidenziale sarebbe stata determinata dalle posizioni etiche e religiose del presidente, anche se fosse davvero convalidata, sminuisca l’influenza addebitabile alla politica estera dell’America: quand’anche non avesse positivamente influito sul voto (e anche questo è difficile da sostenere), che un fatto di così enorme rilievo come la guerra all’Iraq e la permanenza del conflitto in quel paese e nel Medio oriente non abbia potuto provocare il distacco dall’amministrazione che ne è protagonista rivela la condivisione da parte della maggioranza del popolo americano.
Non pare dunque corretto, a un approccio disincantato, mettere quell’assunto a fondamento del discorso, ma esso potrebbe semmai corrispondere alla conclusione d’una verifica approfondita. Scartato questo punto di partenza, gli interrogativi da esaminare, secondo una metodologia adeguata, si pongono su molti piani. Sono infatti non solo interrogativi politici, neanche includendo tra questi i fattori economici, istituzionali e sociali, ma anche storici e filosofici e richiedono perciò l’apporto di ottiche disciplinari diversificate. In questa sede non è dunque possibile risolverli compiutamente, ma occorre enunciarli con chiarezza perché, nonostante che a differenza che in passato vengano ormai affacciati al dibattito da molte parti, non sembra che, in particolare in Italia, lo siano con tutta la serietà che meritano.

1.1. Due varianti?

La maniera complessiva per formularli è, per noi, quella di chiedersi se, al di sotto del livello contingente degli avvenimenti, non vada facendosi sensibile l’esistenza di una «variante americana» e d’una «variante europea» (seppur non presente univocamente in tutta Europa) di cultura e di civiltà: due varianti di Occidente, dunque, e per conseguenza due varianti almeno potenziali dell’occidentalizzazione. Varianti, diciamo, con ciò mantenendo la convinzione che nei suoi elementi costitutivi l’Occidente, e quindi le forti tendenze di occidentalizzazione che da esso nascono, è un’entità fondamentalmente unitaria, ma avanzando la convinzione che nel suo seno si manifestino gradi e modalità di realizzazione dei relativi caratteri abbastanza differenziati per generare costellazioni diverse e dar luogo ad atteggiamenti diversi nei confronti dell’esterno.

2. La dismisura americana

Compiendo, tra il 1998 e il 2001, le nostre ricerche sulla globalizzazione (Allegretti 2002, pp. 70-75), ci siamo impegnati, in un periodo anteriore agli eventi in cui nelle relazioni tra Europa e Stati Uniti si è inserita una tensione flagrante, nel tentativo di cogliere le peculiarità della variante americana che parevano nascoste agli occhi dei più e alcuni rapporti dell’Europa con essa. Riassumendole qui per sommi capi e precisandole su qualche punto, possiamo indicare che quelle peculiarità si condensano in un atteggiamento di particolare «dismisura». Dismisura del senso dell’io proprio di un individualismo radicale, esasperazione dell’utilitarismo, dell’economicismo e della mercatizzazione, una tendenza all’oltre, esprimentesi ad esempio sul piano dell’occupazione dello spazio e mediante l’impero illimitato della tecnica sulla vita, un’enfasi sulla libertà che esclude tendenzialmente ogni limite, e una scarsa considerazione per i problemi dell’uguaglianza – in ogni caso per l’uguaglianza sostanziale –, per sottolineare invece la competizione e la diversificazione che consegue.
Tutto ciò si riflette e quasi si amplifica nei rapporti con l’esterno; è infatti naturale che i caratteri della relazione con l’altro siano strettamente imparentati a quelli delle relazioni sociali interne, e così che il tipo di occidentalizzazione si leghi inevitabilmente alla natura e alle varietà di Occidente. L’atteggiamento degli Stati Uniti verso il resto del mondo si ispira all’affermazione della superiorità dei propri valori, anzi della loro considerazione come valori universali, giustificanti un proclamato diritto-dovere di leadership mondiale, apertamente espresse e ribadite nel tempo dai documenti ufficiali della politica statunitense(2). Queste convinzioni spiegano e insieme derivano dalla diffusa ignoranza da parte del popolo americano delle altre regioni, delle civiltà e della storia mondiale, motivano la notevole chiusura della stessa classe dirigente a un dialogo interculturale paritario mentre fondano la pratica con molti mezzi di un egemonismo culturale capillare. Correlativamente legittimano la normalità dell’uso della forza, già implicito nella presenza sul piano interno nientemeno che di un diritto costituzionale di ogni cittadino a tenere e portare armi., e spinto fino alla pratica di guerre altamente distruttive e violentemente asimmetriche(3). Per altro verso è coerente con queste concezioni l’indifferenza statunitense per la giustizia economica globale, inclusa quella per i problemi della fame, della disponibilità di acqua, dei dissesti sanitari e della degradazione crescente dell’ambiente, che vengono svalutati nella loro gravità strutturale e al più ridotti alla considerazioni di crisi acute ritenute particolari e da affrontare, esse sole, in termini di interventi di emergenza, mentre la soluzione dei problemi più generali viene rimessa al miraggio dell’operare della mano invisibile del mercato e della crescita economica che esso dovrebbe indurre.
Si potrebbe certo osservare che molti di questi elementi erano già originariamente insediati nel modello occidentale maturato in terra europea, ma essi sono stati spinti negli Usa oltre ogni confine, dove la differenza di grado diventa inevitabilmente una differenza di qualità. Fino a generare, per contraccolpo, un totalitarismo soffice ma pesantemente uniformante, già temuto e antiveduto da Tocqueville. E nell’età contemporanea non è possibile misconoscere alcune diversità con l’Europa malgrado l’esistenza di una pratica complessiva di soggezione mimetica da parte europea. Sono esatti questi caratteri, sono abbastanza completi e significativi da dar vita a una variante peculiare? Vi sono impliciti rapporti di diversità tra i due sistemi? Interpretano quanto emerge dalle esperienze più recenti? Che origini hanno, che evoluzione stanno subendo e lasciano intravedere per il futuro? Non occorre dilungarsi su quanto gli avvenimenti e le situazioni recenti quadrino con gli elementi da noi rilevati e anzi ne mettano alcuni in forte evidenza.
L’unilateralismo si fa strada sempre più come cifra della politica statunitense. Esso sta a base non del solo caso Iraq (senza dimenticare gli aspetti unilaterali dell’intervento in Afghanistan) ma di tutti gli atteggiamenti degli Usa riguardanti l’impiego della forza: dalla mancata sottoscrizione del trattato di interdizione delle mine antiuomo al rifiuto di ratifica dell’accordo sulla cessazione degli esperimenti nucleari, alla dichiarazione di decadenza del trattato Abm, alla formulazione d’una dottrina generale sulla liceità dell’intervento bellico unilaterale. La teoria della liceità della guerra preventiva e la pratica della violenza bellica ad essa conseguente, anche contro un avversario così differente da quelli tradizionali come il terrorismo, completa e giustifica l’intervento militare unilaterale.
Un analogo unilateralismo ispira atti fondamentali in materia di politica ambientale (ad esempio le scelte negative ripetutamente effettuate sugli accordi di Kyoto). E coinvolge assetti fondativi dell’ordine internazionale, con decisioni come quelle di non aderire a importanti trattati sui diritti umani e di non partecipare e anzi mettere in difficoltà la realizzazione della Corte penale internazionale, concretando una vera e propria forma di unilateralismo giuridico.

2. 1. Un problema di genealogia

Si potrebbe continuare. Ma ciò che va messo in discussione è se questo complesso di dottrine e di pratiche siano attribuibili in sostanza alla presidenza Bush e al dominio su questa del gruppo neoconservatore. O se invece siano più risalenti nel tempo e coinvolgano altri strati della politica e della cultura americane. Le accurate indicazioni, americane e nostrane, disponibili su quel gruppo chiariscono che esso ha avuto un’elaborazione stratificata – che ne spiega, noi diremmo, la forte presa – avviata sulla fine degli anni sessanta e sviluppatasi attraverso la confluenza di una aggressiva corrente di pensiero altamente performativa (come spesso avviene, e in misura particolare in quel paese) di origine sia democratica che repubblicana con una parte della destra repubblicana nazionalista tradizionale e con la destra cristiana (cfr. Lobe-Oliveti 2003; di Leo 2004, e Diletti 2004). Ma esse non provano che le idee fondamentali che sottendono questa visione, anche se qui assumono evidenza massima, siano confinate ai neoconservatori.
L’esame dei fatti degli anni novanta ci avevano già permesso, e oggi permettono a molte voci, di rilevarne la presenza corposa in quegli anni e negli atti stessi della presidenza Clinton. Si scrive con riferimento a quella presidenza anche da analisti statunitensi (Kupchan 2003, p. 18) che «gli Stati Uniti si dissociarono puntualmente dagli sforzi multilaterali», mentre «l’inclinazio-ne unilateralista si è fatta solo più spiccata dopo che George W. Bush è succeduto a Clinton». Il punto merita dunque ulteriori verifiche che, se positive, rinvierebbero alla formulazione di una variante non dentro ma della America. È allora qui che tornerebbe particolarmente utile una rivisitazione accurata della storia degli Stati Uniti. Di tutta la storia, a partire dalla loro fondazione e da quel Federalist del quale abbiamo a suo tempo segnalato che «ha probabilmente espresso, e con la sua sedimentazione nella cultura americana dato impulso, al disegno di potenza degli Stati Uniti, tanto destinato più tardi a svilupparsi» (cfr. Allegretti 1989, p. 126-127, e ivi una citazione impressionante di Hamilton). Anzi da ancor prima, ristudiando quelle origini delle colonie dall’emigrazione puritana o comunque di confessioni religiose dissidenti, per la quale valgono quei caratteri di sicurezza di sé e di audacia, di affrontamento del mondo come se si fosse in guerra, di politica nuova e radicale facente appello all’autogoverno individuale ma che dava vita a una disciplina collettivista e repressiva, ravvisati (seppure studiandoli per l’Inghilterra del cinquecento e del seicento anziché per gli Stati Uniti) da un pensatore elevato come Michael Walzer (1965). Occorrerà proseguire nell’itinerario storico – lo fa Kupchan per accurati squarci – con lo studio di ciò che ha ispirato i maggiori snodi della storia del paese, dalle peripezie della dottrina Monroe a partire dalla sua prima formulazione ispirata alla non interferenza europea sul continente americano, a quella di protezione dell’espansionismo statunitense verso l’ovest impostasi a metà ottocento, all’ampliamento col «corollario Roosevelt» (il primo Roosevelt) in direzione interventista, al ruolo mondiale portato avanti da Wilson, seppure, in questo caso, con una importante proposta multilateralista.
Uno sforzo, questo, al quale (…sia permesso) andrebbero invitati al massimo impegno gli storici, e in particolare gli studiosi di storia americana operanti in Italia, cioè in un paese a lungo dominato, anche per responsabilità del ceto intellettuale, da un rispetto non di rado acritico per tutto ciò che concerne gli itinerari della grande potenza alleata. Come pure gli specialisti di scienza delle relazioni internazionali, che forse non attingono sufficientemente alla storia di medio e lungo periodo quando cercano di comprendere le condizioni del presente.
Non è certo corretto concepire la storia in termini deterministici (né ovviamente in termini retrodittivi), e tuttavia in realtà bisogna riconoscere che i comportamenti attuali sono influenzati in maniera pesante dalle tradizioni di pensiero e dagli eventi precedenti, anche di periodo medio-lungo. Forse una retrospettiva storica dotata di adeguato approfondimento permetterebbe fra l’altro una maggiore lucidità circa i limiti dei cambiamenti che è possibile attendersi o viceversa non attendersi in futuro – anche se ovviamente per inferenze di questo tipo sono rilevanti anche i segni ravvicinati. Soprattutto consentirebbero di trarre le conseguenze dalla consapevolezza che sul punto della leadership degli Usa in quel paese «c’è unanimità tra i politici Europe oriented, gli intellettuali open minded, i politici repubblicani tradizionali e i neoconservatori» (cfr. di Leo 2004, p. 175) e che, come dice la pensatrice e militante americana in Europa Susan George (2004, p. 100), «la storia degli Stati Uniti, soprattutto quella dei tempi più recenti, non fa presagire che essi possano sottomettersi ad alcun trattato internazionale o ad autorità esterne».
Susan George espone i suoi dubbi sull’elemento di fondo: tra Europa e Usa «i valori condivisi sembra si stiano riducendo» (p. 102). È proprio su quest’elemento che occorre, a nostro avviso, approfondire l’analisi della filosofia e dei valori americani che noi abbiamo tentato nel libro citato. Come pure andranno accuratamente inventariate le particolarità proprie degli Usa sul terreno giuridico. Anche a questo proposito usciamo da un lungo periodo non privo di eccessi di ammirazione per l’esperienza giuridica statunitense da parte dei giuristi italiani. Attualmente, uno scrittore avvertito come Rodotà va ripetutamente sottolineando con vivaci interventi giornalistici su Repubblica i divari che si vanno scavando tra Stati Uniti ed Europa in merito a fondamentali diritti – i diritti stessi di libertà, non solo i diritti sociali, sui quali le differenze tra diversi sistemi sono scontate – sul terreno dei quali la civiltà giuridica statunitense è stata a lungo considerata anche non a torto maestra. Non sarebbe dunque che la spinta individualistica radicale, oltre a marginalizzare i diritti sociali, finisca col rifluire in forme di soggezione dei diritti civili all’ossessione della sicurezza, percepita come il massimo dei problemi? E non varrebbe la pena, comunque, di sottoporre gli impianti dell’ordinamento giuridico statunitense, senza peraltro sconfessarne le acquisizioni più proficue, a una più intensa riflessione sui fondamenti e sulle loro conseguenze negative?

3. L’Europa tra mimesi e riscoperta di sé

Non si può dire che l’Europa si sia, nella sua storia, discostata fondamentalmente e men che meno opposta a tutto ciò. L’Europa è evidentemente all’origine dell’Occidente e delle sue principali caratteristiche. Essa ha ideato e praticato sempre, nell’età moderna, individualismo (anche in forme acute), utilitarismo, economicismo, dissoluzione del legame sociale, razionalismo, idolatria della scienza e della tecnica, uso della violenza bellica, imposizione unilaterale di superiorità e di cultura, e ha ospitato forme brutali di totalitarismo, di colonialismo, di imperialismo e tutto il resto. De Giovanni ha notato con grande efficacia che «l’identità di Europa si muove fra logica e potenza, tra forza e ragione» e che «la razionalità europea è – per richiamare una celebre espressione di Hegel – insieme universalismo e appropriazione, volontà di egemonia e volontà di universalità»; che «l’Europa subito si collocava nel mondo giudicando il mondo» e che «la coscienza europea è stata sempre globale; più forte è la propria autorappresentazione, più essa si esplica in forme di egemonia e di dominio», e ha citato Voltaire quando dice che gli europei pensano di essere «sulla terra, gli unici ad aver ragione e che dappertutto dobbiamo essere padroni» (cfr. de Giovanni 2004, pp. 15, 30, 177).
Da quando poi, a seguito delle due guerre mondiali, l’egemonia americana si è sostituita a quella delle potenze europee a volta a volta dominanti in passato, essa vi si è assoggettata, per lo più di buon grado, trovandovi la sua convenienza – anche per la sicurezza: su questo Kagan (2003) ha riaffermato rozzamente il vero. E negli ultimi decenni ha dato vita a un’istituziona-lizzazione di sé nell’Unione che ha pedissequamente praticato l’imitazione teorico-pratica del sistema americano, specialmente sul terreno della filosofia economica liberista. Lo ha fatto, qualche volta, in maniera estrema: Pascal Lamy peggio degli Usa, ripete spesso Susan George, riferendosi all’estre-mismo liberalizzatore dei propositi, per ora non giunti in porto, del commissario europeo al commercio estero delle commissioni Santer e Prodi nel corso delle trattative in seno all’Omc.
È vero tuttavia (come altri sottolineano(4) che alcune caratteristiche dell’Occidente e dell’occidentalizzazione di matrice europea sono diverse. L’individualismo è temperato – nella teoria ma anche in molte pratiche – dal principio di solidarietà e da un insieme variegato di tradizioni collettive e di regole statali. L’economicismo di marca utilitaristica trova dei bilanciamenti in principi etico-politici che pretendono di essere radice dell’ordine giuridico. In nome di quel principio, l’attività economica privata è controbilanciata e corretta, in forme e misure diverse secondo gli stati, da un intervento pubblico statale complessivamente robusto nelle opere e nei servizi di utilità collettiva e sulla stessa attività di impresa privata. Da molto tempo non una pura attività caritativa o emergenziale ma il ruolo strutturale di un compito pubblico di servizio a interessi fondamentali delle persone ispira il «modello sociale europeo» che, pur soggetto a critiche e ridimensionato negli ultimi decenni, continua, con molto sostegno nella società, a essere considerato patrimonio della civiltà del continente. Il principio di uguaglianza, se non quello di fraternità, non è del tutto defunto nel linguaggio europeo. Un controllo, seppur a distanza, dello sviluppo tecnico, favorito anche da una tradizione di ricerca pubblica attualmente in via di arretramento impedisce alcuni dei più manifesti eccessi di dominio tecnologico sulla vita, rinnovando ora l’importanza del suo ruolo nella sorveglianza sul processo di avanzamento della tecnologia. L’informazione e la cultura restano sufficientemente ricche e plurali, più consapevoli della storia e della geografia.
Svegliata dalle prove estreme delle due guerre mondiali, l’Europa accetta che il multilateralismo – paradossalmente introdotto dai grandi dirigenti americani che si trovarono a guidare l’intervento statunitense in entrambi i conflitti, ma dagli Usa prima o poi abbandonato – e con esso un insieme di regole giuridiche siano a base della vita internazionale. La consapevolezza e il rispetto del valore delle culture altre ha in linea di principio scalzato l’idea della sua superiorità civile che stette a lungo a giustificazione teorica della colonizzazione, e indotto ad accettare faticosamente equilibri morali, sociali e religiosi ispirati al pluralismo culturale. Scottata dalla sua storia, l’Europa è oggi poco incline all’uso della forza. Per contro – malgrado sia preda di egoismi che le impediscono una apertura adeguata all’immigrazione dai paesi della povertà – è consapevole della situazione di estremo disagio economico di gran parte del mondo e di tempo in tempo qualche sua componente rilancia progetti di cooperazione internazionale, pur adottando di fatto politiche inadeguate e insufficienti.
È stato pressoché solo a seguito dell’11 settembre, o meglio degli sviluppi del confronto col terrorismo con la vicenda irachena (dopo qualche precedente nel caso dell’operazione afghana) che questi orientamenti dello spirito europeo hanno generato posizioni marcatamente diverse rispetto a quelle statunitensi – particolarmente vivaci nelle opinioni pubbliche e più differenziate tra i governi – soprattutto sul fronte culturale e sulla questione dell’uso della forza. Potrebbero queste diversità essere interpretate come limitate a una concreta e contingente differenza politica, superabile senza che lasci troppe tracce? Basterà un po’ più di miscela multilateralista degli ingredienti della politica statunitense verso l’Iraq per far dimenticare i dissidi, per quanto acuti, degli ultimi anni? Qualcuno lo sostiene, lo spera e continua a sperarlo nonostante le delusioni. Naturalmente vi è chi, in Europa dell’est, in Italia e altrove – per non parlare del collateralismo britannico – avrebbe accettato, più francamente di quanto i governi europei schierati su una politica alternativa e le opinioni pubbliche pacifiste del continente non abbiano reso possibile, l’allineamento su parti tanto decisive della politica di Bush. D’altra parte vi è chi, almeno in seno all’opinione pubblica e alla ricerca intellettuale, punta all’approfondimento della tendenza dell’Europa all’autonomia. Risponde questo a un auspicio e all’espressione di una necessità – come ritiene ad esempio Susan George (2004) – o anche rimanda a una tendenza profonda che potrebbe svilupparsi?
Ancora una volta, per prevedere quest’esito come più probabile del primo – autorizzato, quest’ultimo, dalle tendenze di tutto l’ultimo cinquantennio e dalla presenza, in seno all’Europa attuale e non solo in Inghilterra, di robuste forze rivolte in tal senso – non è sufficiente affidarsi alla ricognizione di quel che si pensa negli Usa e riflettendo sugli Usa a partire dalle dottrine politiche del momento. A questo riguardo, opposte visioni provenienti dagli Stati Uniti ritengono, naturalmente prendendo poi parte per posizioni tra loro contrarie, che l’Europa si sia messa su una strada (o magari sia sempre stata su una strada) di differenziazione dagli Stati Uniti. Sostiene Kagan, del gruppo neoconservatore, che l’Europa ha in questi decenni comodamente sviluppato un’attitu-dine imbelle-pacifista di tipo «kantiano» e che sia perciò governabile dagli Usa nell’esercizio della loro politica «hobbesiana» (cfr. Kagan 2003, fin da p. 3). Per converso Kupchan ritiene che il nostro continente, imboccando anche se in maniera finora intermittente o graduale, e comunque moderata e lenta, la via di un’unificazione ormai assurta anche a creazione politica, oltreché possedendo una quasi-uguaglianza di peso economico con gli Stati Uniti, rappresenti «di per sé un contrappeso all’America», destinato a valere anche in termini di consistenza militare, e a realizzarsi «come resistenza all’influenza americana e come conclusione della deferenza, durata decenni, nei confronti di Washington» (cfr. Kupchan 2003, rispettivamente alle pp. 179, 184 e 191).
Da noi accurati osservatori sostengono d’altronde che ciò che ispira l’attuale atteggiamento sintetizzabile come «America contro Europa», è soprattutto il timore che l’Europa unita rompa e impedisca il sogno americano di primato mondiale (di Leo 2004). Ma esistono davvero queste proposte o queste possibilità nell’Unione europea? O essa è ancora largamente mimetica nei confronti del credo americano e incerta nella realizzazione d’una diversa prospettiva? L’esame del trattato europeo detto costituzionale (cfr. Democrazia e diritto 2003; Petrangeli 2004, e in particolare, in entrambi, i miei contributi), malgrado i suoi passi avanti in alcune direzioni mantiene questi dubbi, poiché il progetto è ispirato ancora al neoliberismo, sottovaluta il modello sociale europeo pur solitamente sbandierato e risulta debole nel porre la pace, la giustizia economica e il rispetto delle culture tra i fini della politica dell’Unione.

4. Qualche conclusione

Si potrebbe concludere che l’esistenza d’una versione americana della civiltà occidentale e dell’occidentalizzazione ha nella realtà manifestazioni notevoli. E che quella d’una versione europea – anche a causa delle divisioni interne all’Europa – ha agganci reali ma è altamente incerta. Dunque la presenza di due varianti, pur trovando alcune basi che la rendono accoglibile e meritando quindi di essere fatta oggetto di approfondita discussione, non è altrettanto sicura. Oltretutto, prima di mettere a segno una qualunque conclusione, sarebbe necessario prospettarsi la questione come è vista a partire dal Sud del mondo, cosa a cui sono legittimati in pieno solo coloro che ivi operano, mentre chi (come chi scrive) ha una qualche anche diretta conoscenza di quell’universo o di alcune sue parti significative e si colloca idealmente dalla parte del Sud ma non vi è personalmente immerso difficilmente può esprimere considerazioni ugualmente autorizzate. Tuttavia – nei limiti di uno sguardo occidentale e sulla base delle cose osservate via via – è lecito affacciare, sia pur dubitativamente, alcune linee interpretative e in certo modo propositive.
In seno all’Occidente così come approssimativamente definibile, si profilano delle versioni diverse, delle varianti teoricamente declinabili; esse sono quanto meno potenzialmente presenti nell’esperienza e, in misura variabile e soprattutto in determinati momenti, lo sono anche in atto. Le due più nette – omettendo quelle intermedie come la posizione inglese o quella delle società dell’Europa dell’est – hanno base rispettivamente l’una negli Stati Uniti e l’altra genericamente in Europa ma, data la ricorrenza di atteggiamenti mimetici nei singoli paesi europei e in maniera particolare a livello dell’Unione europea e attese le differenze di orientamenti fra alcune e altre parti d’Eu-ropa, una variante più o meno vicina a quella statunitense è presente anche in Europa. Poiché però esse hanno dalle due parti dell’Atlantico radici storiche e consistenza diversa, si possono legittimamente indicare come variante americana e variante europea, con l’Inghilterra, evidentemente, in posizione in qualche modo intermedia ma per aspetti importanti assimilabile a quella degli Stati Uniti.
Dalla presenza di queste due varianti e dal loro agire verso il resto del mondo derivano differenze sensibili nei rapporti fra l’Occidente e gli altri paesi. Per esemplificare da quello che è il cuore dell’occidentalizzazione – il suo immaginario portante – gli effetti di sradicamento provocati sulle altre culture da fenomeni quali l’invasione delle produzioni audiovisive, dei prodotti cinematografici e musicali, dell’informazione mediatica, della propaganda politico-economica, degli usi dell’abbigliamento e alimentari (dalla Coca-Cola ai MacDonald) procedenti dagli Stati Uniti, non ha nulla di paragonabile, nella quantità e nella standardizzazione e impoverimento qualitativi, all’esportazione delle culture europee. I fenomeni stessi di mutamento della direzione e del peso dell’economia – specialmente nella sua dimensione finanziaria (fatti salvi alcuni oltranzismi dell’Unione europea) – e quelli di brutale incidenza del fattore militare ad opera degli Usa non hanno proporzione con analoghi elementi di provenienza europea, come operanti oggi e perfino (in taluni casi) come manifestatisi nella colonizzazione. La semplificazione delle parole d’ordine dei documenti pubblici e dei pronunciamenti politici americani – «democrazia e libero mercato», «valori americani» intesi come valori mondiali, «leadership» statunitense – non ha parimenti paragone con le proposte di dottrine provenienti dall’Europa, anche qui perfino in rapporto con l’età coloniale.

4. 1. La battaglia per l’alternativa

Anche le conseguenze che si possono desumere dalle interpretazioni sopra abbozzate per le operazioni di resistenza e di costruzione di alternative nei confronti della globalizzazione retta dall’occidentalizzazione portano a differenze se si prende atto che questa non si esprime in un blocco uniforme. L’alternativa quanto meno provvisoria all’occidentalizzazione maggiormente valorizzata da Latouche è l’economia – che egli acutamente reinterpreta come società – informale. Dopo L’occidentalizzazione del mondo e il libro che ne costituisce la prosecuzione (Latouche 1991), egli l’ha lungamente e affettuosamente studiata in ricerche specifiche tra cui L’altra Africa (1997). Mentre, pur scorgendo (e fin dal 1989) le reazioni fondamentaliste tra cui quella islamica, non solo non esprime (ed è ovvio) consenso per queste reazioni, ma anche rifiuta di scorgervi dei fenomeni veramente alternativi (cfr. ora Latouche 2003, nonché il suo saggio in questo stesso fascicolo). La fiducia riposta nelle società informali è apparsa a molti l’aspetto più discutibile delle ricerche di Latouche. Non certo nel senso che esse siano inaccurate o erronee nell’impianto e nelle conclusioni (sotto quest’aspetto anzi appaiono encomiabili) ma perché molti osservano che i fenomeni informali, apprezzabili e per molti aspetti efficaci come momenti di felice sopravvivenza di società aggredite, sono da soli troppo deboli per poter generare, alla lunga, un’evoluzione positiva dei paesi dove predominano.
Ma né questi né i fenomeni di fondamentalismo musulmano, indù o altro sono le uniche reazioni o le uniche tendenze alternative. Soprattutto negli ultimi anni molte altre ne sono sorte o si sono consolidate, tanto che si possono raggruppare, secondo le proposte di Santos (2004a; 2004b) in un complessivo ventaglio di esperienze. Queste sono indicabili con l’espressione, forse non perspicua, almeno nella nostra lingua, ma, una volta chiarita, efficace, di «cosmopolitismo subalterno» (Santos 2004a, 2004b e 2003), oggetto di una «sociologia delle emergenze»; oppure, con nomenclatura calcata sul francese ma in genere usata per una sola di esse – il «Movimento internazionale» (cfr. Allegretti 2004) –, sono qualificabili come «altermondializzaione».
Nuovi intrecci tra diversi ordinamenti giuridici nelle «zone di contatto» dove si incrociano universi simbolici distinti – diritti umani multiculturali, riconoscimento di tradizioni etniche, garanzie dei patrimoni indigeni sulla salute e difesa della biodiversità contro l’allargamento della proprietà intellettuale occidentale, cittadinanza culturale dei gruppi minoritari e di immigrati –; riscoperta della tutela sociale del lavoro, con resistenza alla distruzione delle garanzie del lavoro subordinato e sostegno alla loro estensione al lavoro autonomo, elaborazione di standard internazionali di trattamento lavorativo, movimenti di lotta contro l’assenza di tutela del lavoro nei paesi del sottosviluppo, contrattazioni collettive e scioperi transnazionali; appoggio a produzioni non capitaliste, quale il mercato equo e solidale; lotta per i diritti dei non cittadini e per il riconoscimento ad essi di diritti corrispondenti a quelli dei cittadini del paesi ospitanti; nuove forme di organizzazione e procedimenti statali come i bilanci partecipativi e l’espansione dell’autonomia locale: sono altrettanti esempi, non esaurienti, d’una analisi delle «emergenze» alternative rispetto all’ordine giuridico egemonico (Santos 2004b).
Quali gli attori di questi processi? Anche qui vanno cercati ed esaminati (anche prospetticamente, secondo l’esatta notazione di Santos per la sociologia delle emergenze) i nuovi protagonisti: dai gruppi indigeni che a volte superano la sfera sociale tradizionale in queste lotte per elaborare strategie più politiche all’altezza dell’avversario – si pensi al movimento zapatista, ma anche a quello ecuadoregno e ad altri –, alle società informali descritte da Latouche, ai vari movimenti di società civile comprese le declinazioni pacifiste e di opposizione alle guerre in corso e con particolare riferimento al Movimento altermondialista come è emerso in questi ultimi anni, che va divenendo, sul piano internazionale come su quello costituzionale (Allegretti 2004) un attore primario.
Ma non si tratta solo di attori di base o di società civile. Vi sono anche attori statali antichi e nuovi. Le esperienze di democrazia partecipativa sono ormai in certi paesi (e innanzi tutto in Brasile) solidi fatti di ordine istituzionale, in cui società e poteri pubblici interagiscono con pieno riconoscimento reciproco (G. Allegretti 2003). Sulla scia del mai completamente tramontato Movimento dei non allineati e del Gruppo dei settantasette, una coalizione di stati guidati dal Brasile e dall’India sembra riuscire a dare una curvatura diversa, benché ancora problematica, non solo di resistenza al dilagare della liberalizzazione funzionale al primato dell’Occidente ma anche di avvio a un diverso ordine, alle trattative commerciali in seno alla Omc. Tenendo conto di questi segni, visti appunto in forma prospettica e propositiva, si può trarre dall’osservazione delle due varianti dell’occidentalismo, nella misura in cui esse sono rintracciabili, qualche riflessione sulle differenze nei rapporti che questi fenomeni alternativi possono intrattenere (anche se non sempre intrattengono) rispettivamente con gli Stati Uniti e con l’Europa. Non dovrebbero cioè essere soltanto rinsaldate le collaborazioni, abbozzate ma finora deboli, tra i vari attori alternativi. Ma si può ipotizzare una loro diversa relazione con, appunto, i due gruppi di stati: Stati Uniti e loro diretti alleati – come può essere attualmente, oltre l’Inghilterra, l’Australia e meno completamente il Canada – e Europa (singoli stati e Unione europea). Naturalmente questo presuppone l’irrobustimento di uno sforzo europeo di «mediazione» – nell’accezione diversa che ciascun autore dà a questo concetto (cfr. Balibar 2003, e Cacciari 1997) – riconducibile a una differente valutazione rispetto agli Stati Uniti delle istanze di cooperazione mondiale. Uno sforzo che, in contrasto com’è con la tradizione mimetica dell’Europa creatasi nel cinquantennio precedente, richiede una revisione profonda e un coraggio politico nell’affrontare finalmente nel segno della parità la relazione con la potenza amica.
La fiducia che Susan George sembra riporre nell’Europa – che non è certo suffragata dalla povertà e impotenza del nuovo trattato europeo – è chiaramente propositiva e prescrittiva. Ma va condiviso che «i cittadini europei, e attraverso di loro i governi e le istituzioni europee devono riconoscere che è davvero nel loro interesse e nell’interesse del pianeta [corsivo dell’autrice] svincolarsi dalla sudditanza politica e ideologica dall’amministrazione statunitense e intraprendere il cammino dell’autonomia» (George 2004, p. 104). Altrimenti – sebbene Susan George manifesti, senza dubbio con buona fondatezza, l’opinione che non possa darsi che «un altro mondo sia realmente possibile senza un’Europa conscia del suo imprescindibile ruolo» –, se l’Europa non farà con chiarezza scelte diverse da quelle degli Usa, il Sud del mondo e il movimento di società civile globale che in qualche modo lo affianca saranno l’unica speranza di superamento della occidentalizzazione che oggi guida la mondializzazione.

Note
  1. Per la presentazione di un quadro complessivo della globalizzazione, cfr. Allegretti 2002.
  2. Sintomatiche le osservazioni di un importante studioso statunitense stesso, Sidney Verba, che in una recente conferenza romana osservava con senso critico quanto l’uguaglianza sia fuori quadro rispetto agli attuali sviluppi della vita politica.
  3. Abbiamo, in tempi diversi, studiato questi documenti, ricavandone gli elementi che indichiamo riassuntivamente nel testo, oltre che in Allegretti 2002 (cfr. specialmente alle pp. 92-93), già in Allegretti 1992.
  4. Oltre il caso delle bombe atomiche lanciate sul Giappone, è ben nota la serie di bombardamenti su città italiane e tedesche, senza un’adeguata giustificazione militare. Cfr. Pauwels 2003.
  5. Cfr. ad esempio in sensi molto simili a quelli qui sostenuti Telò 2004.
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Un commento a “Varianti dell’occidentalizzazione: ideologia americana e ideologia europea”

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