Interventi

Rispondere alla domanda “chi vince?” è spesso difficile di fronte a sfide politiche dell’immediato presente. E non c’è bisogno di riesumare la polemica popperiana contro lo storicismo per rendersi conto delle limitate capacità predittive delle scienze sociali. Senza scomodare illustri distinzioni tra previsioni e profezie, basti ricordare come il compito degli analisti della politica sia più la spiegazione di eventi trascorsi che non la divinazione di avvenimenti futuri, attività più consona agli aruspici o agli astrologi.

Pensando alle ormai imminenti presidenziali francesi (22 aprile e 6 maggio), la questione si fa ancor più controversa. In questo caso è difficile anche mettere a fuoco la domanda. Prima di chiedersi “chi vince?” sarebbe infatti il caso di interrogarsi sulla posta in gioco. Naturalmente, è evidente, in palio c’è la conquista dell’Eliseo. E, con essa, l’eventualità di una “svolta a sinistra” che apra una nuova fase della politica continentale attraverso la revisione dei trattati e il ripensamento del ruolo geopolitico dell’Europa. Hollande, insieme ai suoi omologhi europei riuniti nella “foto di Parigi”, ha insistito molto sulla natura di tornante che quest’elezione può assumere.
Ma al di là di questo pur sostanzioso dato di superficie, qual è la natura complessiva della competizione? Ebbene, da ormai cinquant’anni le presidenziali rappresentano, in Francia, l’evento politico per eccellenza. In questa “fiera campionaria della democrazia” si ritrova l’intero ventaglio delle opzioni politico-culturali pulsanti nel paese. I candidati presenti al primo turno sono dieci, dall’estrema sinistra dei trotzkisti Philippe Poutou (Nuovo Partito Anticapitalista) e Nathalie Arthaud (Lotta operaia) all’ultra destra del carneade Jacques Cheminade, esponente di un cospirazionismo più bislacco che inquietante. Quantitativamente non è un record: nel 2007 gli aspiranti alla presidenza furono dodici, nel 2002 addirittura sedici.
Ciò che conta, per molti dei partecipanti a questa variopinta horse race, è manifestare la propria esistenza politica. Chi osserva, però, ha bisogno soprattutto di individuare i candidati dotati di un potenziale di “coalizione” o di “ricatto”, per parafrasare la terminologia politologica che si usa, da Downs in poi, per considerare le funzioni degli attori di un sistema partitico. In questo senso il cerchio si restringe a cinque protagonisti: il neogollista Sarkozy, il socialista Hollande, il federatore di sinistra Mélenchon, la nazionalfrontista Marine Le Pen e il centrista Bayrou. Ai margini c’è Eva Joly, candidata dei Verdi, scelta con le primarie ma defraudata dai suoi, che, nella persona di Cohn-Bendit, hanno fatto endorsement per Hollande sin dal primo turno. Essendo tributati dai sondaggi di punteggi superiori al 10%, questi cinque candidati principali esercitano un potenziale di “coalizione”, perché sono in grado di muovere voti nelle legislative di giugno (al netto di un sistema elettorale molto disrappresentativo), e di “ricatto”, perché possono erodere quote di consenso ai partiti centrali (Ps e Ump).
Calcolando la media delle stime rese note dai principali istituti demoscopici (Ipsos, Ifop, BVA, CSA, TNS-Sofres, LH2, Harris interactive, Opinionway), a una settimana dal primo turno risulta in vantaggio Hollande con il 28%, seguito da Sarkozy al 27,4. Più distanziati Marine Le Pen (15,4), Mélenchon (14,2) e Bayrou (10,1). Ora, i sondaggi sulle intenzioni di voto soffrono di limiti e distorsioni ben note. Dieci anni fa Jospin veniva dato in testa e Le Pen era considerato ai margini. Si sa come è andata. Ciò accadde essenzialmente per due ragioni: i consensi per l’estrema destra tendono ad essere sottostimati mentre quelli della sinistra sono di solito sovrastimati. Inoltre, nella presentazione dei dati non è contemplato il fattore astensione, che è sociologicamente favorevole alla destra moderata.
In ogni caso, il risultato del 22 aprile prossimo ha un’importanza relativa. È vero che de Gaulle nel ’65, Mitterrand nell’88, Chirac nel 2002 e Sarkozy nel 2007 arrivarono all’Eliseo dopo aver chiuso in testa il primo turno. Ma è altrettanto vero che nel’74, nell’81, nel ’95 chi era avanti al giro di boa è stato sconfitto al ballottaggio. Ciò non toglie che il primo turno sia un’anticamera fondamentale: di testimonianza per chi non ha velleità di vittoria, di mobilitazione per chi punta al successo finale. Ed è la chiave di volta dei tre diversi tipi di competizione che si intrecciano nell’elezione presidenziale.
Per cominciare, la competizione principale è quella “interpolare” tra l’incumbent Sarkozy e il leader della principale formazione d’opposizione, Hollande. La posta in palio è il potere incastonato nella carica di monarca repubblicano, per usare la definizione enfatica di Duverger. Prestando fede ai sondaggi dovrebbero essere loro ad arrivare al secondo turno, con il socialista largamente favorito. Anche se, secondo Le Monde, il divario di 20 punti del novembre scorso si è dimezzato e ora il socialista sarebbe avanti 55 a 45. L’esito di questo duello dipenderà molto dalla capacità di Hollande di centrare il dibattito sui temi socio-economici, versante su cui Sarkozy può vantare un bilancio tutt’altro che lusinghiero. Ma i recenti fatti di Tolosa possono incidere sensibilmente a focalizzare l’agenda su istanze quali la lotta al terrorismo e la difesa dell’identità nazionale. E in un clima di insicurezza percepita (o costruita) può risultare più credibile una leadership intransigente sui temi del controllo dell’immigrazione e dell’ordine pubblico. Non a caso lo slogan scelto da Sarkozy per la campagna è “La France forte”.
Vi è poi un secondo tipo di competizioni minori “intrapolari”, rilevanti per la composizione di future maggioranze politiche e compagini di governo. A destra la manutenzione dell’elettorato conservatore e piccolo-borghese è cruciale per la riconferma di Sarkozy, che nel 2007 vinse grazie alla capacità di assorbire buona parte di quel bacino di voti. Non a caso l’attuale presidente cerca di rassicurare l’elettorato nazionalfrontista senza stigmatizzarne gli elettori né la leader carismatica. La questione è ancor più delicata se è vero, come indica un sondaggio del CSA, che il 26% dei giovani tra i 18 e i 24 anni sarebbe pronto a votare per Marine Le Pen al primo turno. A sinistra Hollande deve arginare la verve tribunizia di Mélenchon. Di ascendenze trozkiste, in seguito socialista e dichiaratamente massone, il leader del Front de Gauche cerca di incanalare il clima antipolitico che serpeggia nel paese in nome di una révolution citoyenne contro una classe politica coperta dal discredito. Questa escalation retorica, che insiste sulla frattura sociale tra élite e popolo rilevata da Emmanuel Todd quasi vent’anni fa, potrebbe comunque innescare una dinamica favorevole alla sinistra nel suo insieme, considerando che pur avendo definito Hollande “capitano di pedalò”, Mélenchon ha precisato che al secondo turno propenderà per un “voto repubblicano” in favore del portabandiera socialista. Quanto al centro, sin dal Marais rivoluzionario tende a non essere un campo neutro ma una terra di conquista. E François Bayrou, nonostante il suo Modem cerchi di contrastare il bipolarismo riscoprendo una vocazione giscardiana per il juste milieu, è stato ministro in governi di destra e lì il suo elettorato tende a tornare. Fu così nel 2007, potrebbe essere lo stesso nel 2012.
La cornice in cui si collocano queste presidenziali è però quella di una terza competizione “democratica” che riguarda due tendenze di fondo: la partecipazione elettorale e l’astensione. È infatti auspicabile che in una fase storica così delicata per la democrazia europea qualsiasi risultato sia accompagnato da una affluenza alle urne più che significativa. Non perché il buon funzionamento di una democrazia minima di stampo schumpeteriano, in cui conta “decidere chi decide”, sia di per sé la panacea per la disaffezione popolare. Ma, piuttosto, perché la democrazia contemporanea, per quanto possa essere una “causa persa” (come da acuta definizione di Mastropaolo), vive dell’inveramento del governo rappresentativo attraverso un meccanismo elettorale in grado di conciliare legittimità, partecipazione e fiducia.
Ciò non accade sempre in Francia, dove si registrano tassi di partecipazione al voto tra i più bassi del continente. Certamente, le presidenziali sono un tipo di scrutinio per solito più mobilitante degli altri. Ma nel 2002 fu un’astensione record del 28,4% a sbarrare la strada dell’Eliseo alla gauche plurielle, anche perché molti elettori socialisti non si presentarono alle urne dando per acquisito l’accesso di Jospin al secondo turno. Hollande sa che l’astensione può essere favorevole a Sarkozy come lo fu allora a Chirac. E sa che circa un terzo degli elettori non sembra intenzionato a votare, anche perché la data del primo turno coincide con le vacanze primaverili che potrebbero indurre molti francesi disillusi ad “andare al mare”. Per questo il suo staff di campagna si sta mobilitando per portare i francesi alle urne, magari per interposta persona con il meccanismo del “voto per procura”, previsto dalla legge francese.
In definitiva, quale che sia il vincitore della competizione principale, le elezioni presidenziali francesi rappresentano l’opportunità, per il modello della democrazia rappresentativa, di ottenere un autorevole rilancio in una delle capitali dell’Europa politica. Nella Francia della Quinta repubblica, spesso definita con l’appellativo altisonante “repubblica dei cittadini” ma in realtà più vicina ad un modello di “tecnocrazia con leader”, si gioca un confronto che riguarda la residua capacità della politica tradizionale di mettere mano ai conflitti che attraversano la società. La diserzione delle urne e il ripiegamento su residuali istanze di protesta “controdemocratica”, ben descritte da Rosanvallon, potrebbero, in questa fase, incancrenire i processi di lacerazione della rappresentanza e dare fiato al nichilismo e all’alienazione politica. Il che, più che ribadire il fallimento di una “causa persa”, certificherebbe uno stato di disillusione generalizzata di fronte ad una “promessa non mantenuta”.

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